21 marzo 2011, manifestanti siriani si riuniscono fuori dal tribunale che è stato bruciato il giorno prima nella città meridionale di Daraa (LaPresse)

Dinastia canaglia

Assad non fa concessioni alla piazza e in Siria è un altro venerdì di massacri

Luigi De Biase

La macchina della repressione comandata dal presidente siriano non è ancora riuscita a fermare le rivolte che agitano ormai l’intero paese. Le organizzazioni umanitarie parlano di sessanta morti

La macchina della repressione comandata dal presidente siriano, Bashar el Assad, e dal fratello Maher non è ancora riuscita a fermare le rivolte che agitano ormai l’intero paese. Ieri l’esercito ha stroncato proteste a Izra’a, nel sud, nella città di Homs e nei sobborghi di Damasco. Le organizzazioni umanitarie parlano di sessanta morti – fra loro ci sarebbe anche un bambino di undici anni – e di ventidue “dispersi”. I manifestanti hanno riempito le piazze al termine della preghiera del venerdì, gridando slogan contro il governo e contro gli Assad. E’ da sei settimane che la scena si ripete senza grosse variazioni, e da sei settimane Assad manda le Forze di sicurezza per riportare la legge nelle strade siriane. Secondo al Arabiya, le vittime dall’inizio della protesta sono quasi trecento: nessuno vuole fare concessioni, né i fratelli Assad, decisi a conservare il potere con ogni strumento, né i giovani che lottano per “Dio, la Siria e la libertà”, come dice uno dei salmi di questa rivoluzione. Lo scontro pare inevitabile, e avrà ripercussioni su tutto il medio oriente.

   

La protesta era in programma da giorni, così come la carneficina dell’esercito. Un appello lanciato su Facebook invitava musulmani e cristiani a manifestare uniti nel “Venerdì di Dio”, e il grosso degli scontri è avvenuto nella provincia meridionale di Daraa, che è il vero cuore della rivolta. Gli uomini di Maher el Assad, il comandante in capo della Guardia presidenziale, hanno ucciso almeno quattordici persone a Izra’a. Uno è morto nella vicina Hirak, quindici manifestanti sono stati massacrati nei sobborghi di Damasco, nove a Douma e sei fra Barzeh, Harasta e al Maadamiyah, a nord della capitale, come riportano fonti locali. Ci sono vittime anche a Latakia, il grande centro portuale sulla costa del Mediterraneo, e nella città di Hama, il teatro della repressione del 1982, quando il presidente era Hafez el Assad, il padre di Bashar. Questo movimento è la minaccia più grande capitata alla potente dinastia siriana: ieri, nella sola Douma, più di 40 mila persone sono scese in strada nonostante la certezza che l’esercito avrebbe sparato contro di loro.

 

Per fermare le proteste Assad ha cancellato le leggi d’emergenza con le quali il paese è stato governato negli ultimi cinquant’anni. I provvedimenti speciali erano in vigore da quando il partito Baath è salito al potere, nel 1963, e hanno permesso alla dinastia Assad di cancellare l’opposizione con arresti politici e detenzioni arbitrarie. La tv pubblica ha anche annunciato il favore di Assad per una legge sul diritto a manifestare, e l’intenzione di dissolvere la Corte per le sicurezza nazionale, che è accusata di violare sistematicamente qualsiasi norma. Ma questa manovra non porterà ad alcun risultato senza la riforma della magistratura e degli organismi statali; in più, Assad avrebbe già predisposto una serie di norme che sostituiscono le leggi di emergenza e gli attribuiscono poteri molto simili a quelli che avrebbe appena perduto. “Questo cambiamento non serve a nulla perché le Forze di sicurezza non rispondono ad alcuna legge”, ha detto Malath Omran, uno dei blogger siriani più conosciuti all’estero, in un’intervista con al Arabiya.

Il regime non si muove soltanto sul fronte interno per annullare le proteste. Negli ultimi giorni, gli ambasciatori di Assad sono riusciti a convincere gli altri paesi della regione a sigillare i confini per impedire che i manifestanti ricevano armi dall’estero. In Libano, il governo ha addirittura bloccato una manifestazione di solidarietà con i giovani siriani indetta da un gruppo sunnita. Proprio i sunniti libanesi e iracheni potrebbero garantire un sostegno vitale a questa rivolta: la Siria è amministrata dalla setta sciita degli alawiti, che rappresenta il dodici per cento della popolazione ma controlla ogni carica decisiva, e il governo sente la pressione aumentare di settimana in settimana. Giovedì, dopo l’annuncio di Assad, il ministro dell’Interno di Damasco ha detto che i manifestanti “vogliono stabilire con la forza una Repubblica islamica in Siria”. Le sue parole servono a giustificare la repressione, ma sembrano anche una richiesta di solidarietà – se non di aiuto.

 

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