Vecchi e garantisti/ 2

Grottesco giudiziario

Guido Vitiello

Nel prologo al “Libro degli esseri immaginari”, manuale delle strane entità che la fantasia degli uomini ha generato nel corso del tempo e dello spazio, Jorge Luis Borges invitava “l'eventuale lettore della Colombia o del Paraguay a inviarci i nomi, una descrizione attendibile e le abitudini più rilevanti dei mostri locali”. Ancorché sia tardi, tardi senza rimedio, vorremmo sottoporre all'attenzione di Borges la figura del pubblico ministero italiano, mirabile specimen della zoologia fantastica che anni fa qualcuno si divertì a descrivere come una creatura ibrida, una sorta di minotauro inquisitorio-accusatorio con la testa di Perry Mason e il corpaccione di Alfredo Rocco.

    Nel prologo al “Libro degli esseri immaginari”, manuale delle strane entità che la fantasia degli uomini ha generato nel corso del tempo e dello spazio, Jorge Luis Borges invitava “l'eventuale lettore della Colombia o del Paraguay a inviarci i nomi, una descrizione attendibile e le abitudini più rilevanti dei mostri locali”. Ancorché sia tardi, tardi senza rimedio, vorremmo sottoporre all'attenzione di Borges la figura del pubblico ministero italiano, mirabile specimen della zoologia fantastica che anni fa qualcuno si divertì a descrivere come una creatura ibrida, una sorta di minotauro inquisitorio-accusatorio con la testa di Perry Mason e il corpaccione di Alfredo Rocco. Non sfigurerebbe, crediamo, tra il grifone e la mandragora, lo squonk e il catoblepa, il mirmicoleone e il centoteste. Innumerevoli le forme che può assumere il prodigioso magistrato italiano (togatus italiensis): sa esibire, secondo i casi, il piglio grintoso dello sbirro o la grigia impenetrabilità del funzionario, la sacerdotale supponenza del giudice o la spigliata facondia dell'avvocato d'accusa. Ha la discrezionalità tutta politica del giudice elettivo, l'irresponsabilità senza volto del burocrate, la spensieratezza del monarca che può dilapidare le risorse del regno per inseguire una passione, un'ossessione o anche soltanto un capriccio. Ubiquo ai casi, onnipresente sugli affari tenebrosi, per dirla con Gadda, dispone con larghezza di due beni – il tempo e lo spazio – che agli esseri comuni paiono sempre così avari, così razionati: come può dilatare oltre misura la durata dei processi, così può proiettare per ogni dove i raggi delle sue indagini. Lo si è potuto vedere, in anni non lontani, ritratto in piedi o a cavallo – come una statua equestre o un hegeliano spirito del mondo –, in maniche di camicia o in casacca da calciatore. Sa atteggiarsi ora a tribuno arringante e pedagogo della nazione, ora a soldato di trincea – delle mille trincee dell'emergenza. Ma abbiamo notizia egualmente dei suoi trionfi come opinionista, parlamentare, paralegislatore, attivista sindacale, divo del piccolo schermo, giallista (molto versato nell'hard boiled, patria elettiva di detective giustizieri che non brillano per “cultura della giurisdizione”), o perfino come storico che ricompone nelle sue requisitorie le disjecta membra dell'oscura vicenda nazionale.

    “Io l'ho sempre chiamato pascolo abusivo,
    come si dice del bestiame condotto a brucare su terreni che non gli spettano”, scherza Domenico Marafioti, avvocato e uomo di lettere, che ha visto scorrere mezzo secolo di storia patria con l'occhio stralunato e lieve di quel che lui stesso ama definire “grottesco giudiziario”. Che racconti di pretori d'assalto o di rivoltatori dell'italico calzino, di aule di giustizia illuminate dai riflettori o di opache casematte corporative, nelle sue pagine si agitano senza tregua gli spiriti di Borges e di Kafka, di Dürrenmatt e di Gogol. Marafioti, oggi ottantaseienne, è forse il primo ad aver descritto con l'accuratezza di un naturalista la singolare conformazione e l'etologia del proteiforme magistrato italiano. Risale al 1983 un suo pamphlet, “La Repubblica dei Procuratori”, che registrava con preoccupazione i prodromi dell'integralismo giudiziario, dell'esondare della magistratura, specie di certe sue avanguardie, dalle dighe che legge e Costituzione le assegnano. Le inchieste milanesi sui partiti erano di là da venire, neppure il caso Tortora era ancora scoppiato, ma in quelle pagine già molto si lascia intravedere, con il derisorio senno del poi.

    Il libro piacque a Leonardo Sciascia, che spronò Marafioti a dare alle stampe anche “Toga sommersa”, l'intimo e poetico memoriale di cui aveva letto il dattiloscritto ancora inedito. “Non ho mai fatto politica attiva. Sono stato tante volte invitato e tentato, ma ho preferito sempre restare nel mio angolino letterario. La mia vera passione era la letteratura, avrei dovuto sin dall'inizio lasciare l'avvocatura e fare solo lo scrittore”, confessa con qualche rimpianto. Ma tutto lascia credere che, se davvero lo avesse fatto, oggi Marafioti rimpiangerebbe la via non imboccata, la proverbiale “road not taken”.

    E' stato, per paradossale che possa suonare, un combattente schivo, coraggioso fino all'impertinenza ma dietro lo scudo del riserbo. Laico e liberale quando l'Italia era abbagliata dai montaliani lumi di chiesa e d'officina, schiacciata tra legioni di chierici rossi e neri, Marafioti fu a lungo vicino ai repubblicani – ricorda ancora un viaggio in Calabria in compagnia di Ugo La Malfa, che lo costrinse a giocare a scopone fino a notte alta – e ha condiviso con l'amico Mauro Mellini tutte le grandi battaglie garantiste dei Radicali (di cui pure guarda con sospetto un certo panlegalismo, l'aspirazione a risolver tutto per via di codici, denunce e processi). Ha sottoscritto la battaglia referendaria per la responsabilità civile dei magistrati e quella, più recente, per la separazione delle carriere, che è il primo passo per scomporre nei suoi elementi primi la formazione teratologica del pm italiano – come se da una chimera volessimo districare la capra, il leone e il serpente che vi sono indebitamente accorpati. A suo dire il paradosso italiano è “che i banditori a chiacchiere della democrazia delle e nelle istituzioni giudiziarie – che dovremmo immaginare culturalmente più affini a Rousseau e Robespierre e alle visioni di democrazia diretta – finiscono con l'atteggiarsi a nipotini di Dino Grandi, Guardasigilli del regime per eccellenza, e del suo modello forte di magistrato pendolare tra accusa e giudizio, reclutato secondo la burocrazia canonica dei concorsi”. Anche questo è il grottesco giudiziario: schiere di libertari pronti a far da guardia a quel che resta dell'arcigno modello inquisitorio, a intonare lo slogan masochista “intercettateci tutti”, a difendere un'organizzazione del pubblico ministero che non ha eguali in occidente.

    Nell'“Egemonia giudiziaria”, il libro che nel 1999 ricapitolava le sue tesi sull'esondazione della giustizia, Marafioti annotava con allarme che “la stessa identità, la funzione peculiare del giudice sono ormai a rischio, appannate e soverchiate da una funzione d'accusa strabocchevole, in preda a deliri di onniscienza e onnipotenza. Una nuova razza di guastatori del diritto erode giorno dopo giorno barriere di ordine logico e giuridico, restrizioni normative e istituzionali, regole scritte e consuetudinarie un tempo invalicabili”. Oggi Marafioti è costretto a constatare che dai molti e non sempre nobili conati di riforma è venuto alla luce ben poco. “E' un paese controriformista, il nostro, che snatura le riforme e le ritorce fino a farle diventare controriforme. Il Concilio di Trento è il paradigma e il modello di tutte le mancate riforme italiane. Certo la fiducia non deve mancare mai. Anche se nutrire fiducia porta male”, aggiunge con il vezzo del liberale meridionale che si sa laico a sufficienza da tollerare di buon grado certe scaramanzie.
    Ricorda, a illuminare il nostro secolare retaggio tridentino, una frase chiarificatrice di Piero Calamandrei: “Sul procedimento giudiziario inglese, così sbrigativo e leale, è passata la Riforma: il nostro è ancora un procedimento cattolico romano”. E' un giudizio, questo, che occorre prendere alla lettera: la giustizia è anche affare di cerimonie, la sua liturgia non è meno eloquente degli argomenti e delle passioni che vi si agitano, della logomachia a cui fa da teatro. “Molti anni fa ebbi l'occasione di assistere, all'Old Bailey di Londra, alla conclusione di un processo per omicidio. Ebbene, la prima cosa che si nota è che in quel rito l'imputato è posto in alto, al centro dell'aula, dove accede direttamente dal sottosuolo. E' lui il personaggio più importante del teatro processuale, l'epicentro del giudizio. Da noi al centro della cerimonia sta il giudice, e l'imputato soggiace. Sono scorie dell'eredità inquisitoriale che ci portiamo appresso, e di cui è difficile liberarsi. Non sono cose di poco conto, però. La riforma della giustizia passa anche per la messinscena, la coreografia, il cerimoniale del processo. Tanto più in un paese dove, come diceva Montesquieu, il cerimoniale è ‘précisément le matériel, non le formel': è la materia prima, non la forma”.

    Un'attenzione così spiccata
    per le cerimonie non stupirà in un garantista di scuola meridionale, calabrese per l'esattezza. “Sono del circondario di Palmi, ma nativo di un paesino, San Procopio. A Palmi feci il Liceo classico, lo finii a sedici anni e mi laureai a venti, con una tesi in Filosofia del diritto che mi valse il massimo dei voti, la lode e il diritto di pubblicazione. Poi sono approdato a Roma, dove ho seguito i primi processi. Ho fatto l'avvocato penale, civile, amministrativo, ho difeso anche davanti alla Corte costituzionale in un paio di occasioni. Sono un meridionale dispersivo”. Diviso, soprattutto, tra le due anime di uomo di legge e uomo di lettere. Lo zio Saro, insegnante, lo aveva allertato con un epigramma: “A leggi e a puisia sunnu du' cosi / du' cosi chi non ponno stari anita / li versi sunnu profumati rosi / la leggi è la tagghiola di la vita” (La legge e la poesia sono due cose / Due cose che non posson stare unite / I versi sono profumate rose / La legge è la tagliola della vita). Eppure proprio in quella tagghiola Marafioti si è andato a infilare, uscendone spaccato in due metà – ben comunicanti, certo, ma di difficile coabitazione: “Le due attività non sono mai andate di pari passo. Tanto più facevo l'avvocato tanto meno potevo fare lo scrittore. Cercavo di conciliare entrambe le vocazioni, seguendo le orme del mio maestro Salvatore Pugliatti, il quale era contemporaneamente grande avvocato e fine scrittore, amico di Quasimodo”. Un altro grande laico del secolo scorso, Arturo Carlo Jemolo, parlava di Pugliatti come di uno degli ultimi uomini del Rinascimento, uno spirito multicorde versato in tutte le arti liberali. E' in questa scuola che dobbiamo collocare il “dispersivo” Marafioti, e in tutta una tradizione di giuristi-scrittori meridionali così come di romanzieri pungolati da ossessioni giudiziarie.

    A pensarci, è curioso: i numi tutelari
    del garantismo italiano – volentieri branditi come vessilli patriottici, quasi mai letti e men che mai intesi – sono di scuola lombarda, sono i Verri e i Beccaria, ma oggi quando ci s'imbatte in garantisti in carne e ossa è più facile che siano gentiluomini meridionali o insulari, devoti di Sciascia e di Salvatore Satta, portatori di una irrecuperabile, aurea mescolanza di scetticismo indolente da Magna Grecia e di mite apostolato civile (a sentirli parlare, pare che in ogni processo sia in gioco tutta la civiltà, e il loro miracolo è darlo a intendere senz'ombra di fanatismo). “La tradizione lombarda è forte certo, anche se oggi in quegli stessi luoghi le si accosta una tradizione di segno opposto, di partiti agitatori del cappio”, nota Marafioti. “Il garantismo meridionale ha una concezione molto più scettica, e in fondo più umana. Discende da una grande tradizione dell'umanismo, basti pensare a Tommaso Campanella, il profeta di Stilo, o al cosentino Bernardino Telesio, o ancora a Pasquale Galluppi, filosofo e difensore delle libertà. Di fronte alla concezione del Verri, quella meridionale è una visione più sofferta, e questo lo si deve anche alla lunga tradizione della sottomissione borbonica”. Una visione delle cose e dei rapporti tra gli uomini che riesce a essere illuminata su un fondo di sconfortante cupezza: ecco un miracolo d'equilibrismo morale per il quale occorrono la grazia e la sprezzatura di un funambolo, nonché una buona dose di umorismo. L'ingrediente borbonico dell'impasto lo si rintraccia in quel pizzico di diffidenza lealista verso i giacubbini, verso chi s'immagina di poter contrastare con bandi e decreti una certa atavica inerzia del mondo. “Il giudice pedagogo, il giudice che ha in capo di redimere il prossimo, dobbiamo diffidarne per istinto prima ancora che per raziocinio. Tutti i tentativi di modificare la realtà attraverso i processi sono destinati al fallimento se non è il costume a cambiare”.

    Marafioti, che come narratore ha dedicato tante sue pagine agli uomini d'onore, riserva parole amare a quel tipo di antimafia integralista e sospettosa che – spesso con l'aggravante delle buone intenzioni – ha finito per mietere le sue vittime: “Penso a Bruno Contrada. L'hanno messo in croce, con accuse infondate di collusione con la mafia: e invece era un uomo dello stato. Contrada era un ostacolo per quel tipo di antimafia di facciata, tanto eclatante nelle sue manifestazioni quanto inconcludente nei risultati”. O il giudice Corrado Carnevale, “reo unicamente / di giurisprudenza liberale”, come Marafioti scrisse in uno dei suoi epigrammi, raccolti in “Senza attenuanti”. “Quanto ha sopportato, Carnevale. E' stato ingiustamente accusato di collusioni che non c'erano. C'era invece una concezione oscurantista da parte di alcuni ceti giudiziari, e Carnevale ne rappresentava un bersaglio”. Marafioti condivide, con molti uomini di legge d'ispirazione garantista, la perplessità sulla nozione stessa di concorso esterno, che quanto più è indeterminata tanto più si presta agli arbitrii. In un altro epigramma, “Tramonto del garantismo”, ironizzava su quei casi di avvocati di malavitosi che finiscono accusati di favoreggiamento personale: “Al giudice che l'incita a / parlare risponde l'imputato / che parlerà solo in assenza / dell'avvocato”.

    Le fregole processuali dei mortali,
    assicura, sono ancora quelle descritte nei “Calabroni” di Aristofane, grande satira sulla giustizia come fenomeno maniacale di massa. Ancora c'è da riconoscersi in quell'ateniese che ha l'ossessione dei tribunali, freme per sedere in giuria, e se il gallo canta all'ora sbagliata impedendogli di prender parte in udienza, ecco che è pronto ad accusare il pennuto di esser stato corrotto dagli imputati. Come pensare di affidare a uno strumento fragile come il processo speranze di palingenesi, per giunta in un paese “spesso sul ciglio di nuove inquisizioni e code al capitolo interminabile della storia universale dell'infamia”? Bisogna ricacciare indietro la tentazione di un certo fanatismo della legge. “Dobbiamo tornare a pensare, come Manzoni, che la giustizia è orribile e necessaria: una necessità oscura e imprescindibile”, spiega Marafioti. Portarne il fardello, questo si deve, farsene carico come di una fatalità, se non proprio di una disgrazia o una tagghiola, e prestare orecchio a quelli che Gide chiamava “gli stridori tremendi della macchina giudiziaria”.
    “E' una macchina che ti stritola, senza pietà. In un certo senso il processo non ha sbocco, si fa per processare. E' il tema di un bel romanzo di Salvatore Mannuzzu, ‘Procedura'”. Ed è anche il più impenetrabile arcano del “Mistero del processo” di Salvatore Satta: l'autoreferenzialità del giudizio, la sua disperata circolarità. “Con Satta siamo stati anche avversari in Cassazione, tanti anni fa. ‘Il mistero del processo' è un libro importante, ma è nel ‘Giorno del giudizio' che Satta va più a fondo sulle radici della giustizia, in un senso fortemente pessimistico. Il bisogno di giustizia non viene mai realmente soddisfatto, sta dietro alla ragnatela delle apparenze: questa è la sua concezione, in fondo. La giustizia è solo apparenza”. Simbolo adeguato non ne è la bilancia, ma il bianco sporco del travertino del Palazzo di giustizia, che incarna “il costante svariare della legge, tra immacolatezze e brutture”.
    Che però intorno a questo intricato cerimoniale che sembra rimandare solo a se stesso, scandito sulle liturgie della procedura, gli uomini si accapiglino e siano pronti a giocare il proprio destino; che si ostinino a vedervi qualcosa di più che un'oscura fatalità, un teatro delle ombre, un riflesso a fior d'acqua – di acque profondissime e inamovibili; anche questo fa parte di un “grottesco giudiziario” che è quasi metafisico, e di cui le pagine di Borges e di Kafka non sono che un'eco smorzata: “Al fondo c'è un grottesco nella pretesa stessa della giustizia, che come diceva Gesù non è di questa terra. Può essere un fatto ultraterreno, semmai. Il mondo è storto”.