Con Galateri è completa la rivoluzione Generali che piace a Mediobanca

Stefano Cingolani

La nomina di Gabriele Galateri conte di Genola alla presidenza delle Assicurazioni Generali chiude la prima fase con il successo di Mediobanca e dei manager che la guidano, a cominciare da Alberto Nagel. Ma ecco che si apre già la seconda fase di quella che a ragione viene chiamata la madre di tutte le battaglie finanziarie. Diretto come un tedesco sa essere, tocca a Dieter Rampl dare fuoco alle polveri annunciando la revisione del patto di sindacato Mediobanca, che controlla il 44 per cento del capitale e da otto anni regola i precari equilibri nella banca d'affari e, giù giù, nelle sue controllate più sensibili: Telecom, Rcs, Pirelli, Italcementi, Impregilo, Fondiaria e il gruppo Ligresti.

    La nomina di Gabriele Galateri conte di Genola alla presidenza delle Assicurazioni Generali chiude la prima fase con il successo di Mediobanca e dei manager che la guidano, a cominciare da Alberto Nagel. Ma ecco che si apre già la seconda fase di quella che a ragione viene chiamata la madre di tutte le battaglie finanziarie. Diretto come un tedesco sa essere, tocca a Dieter Rampl dare fuoco alle polveri annunciando la revisione del patto di sindacato Mediobanca, che controlla il 44 per cento del capitale e da otto anni regola i precari equilibri nella banca d'affari e, giù giù, nelle sue controllate più sensibili: Telecom, Rcs, Pirelli, Italcementi, Impregilo, Fondiaria e il gruppo Ligresti. Il presidente Unicredit e vicepresidente di Mediobanca, in una intervista a Repubblica, ricorda che la sua banca è l'azionista numero uno e appoggia esplicitamente la dottrina Palenzona: “Mediobanca è il perno di Generali e noi il perno di Mediobanca”. Sembra essere diventato lui il nuovo Cesare, o meglio Kaiser. Ma come sempre le cose sono molto più complicate.

    “La finanza è di nuovo nordista e mediocentrica”, commenta un attento osservatore di Piazza Affari, con il pallino per i giochi di parole. E aggiunge: “Stiamo tornando a prima delle privatizzazioni bancarie, prima che si liquefacesse tra i propri debiti lo stato pasticcere, siderurgico, chimico e quant'altro”. Esagera, ma dietro la follia di questi giorni c'è la volontà di ridisegnare il sistema attorno a due poli. Il primo fa perno sul Tesoro e gli strumenti che ha a disposizione: le aziende pubbliche, la Cassa depositi e prestiti (Cdp), la Banca del sud, il futuro fondo sovrano sul modello tedesco (che piace anche a Rampl, naturalmente) e tutto ciò che la fantasia tremontiana riuscirà a costruire. Il polo privato, invece, ritrova il suo punto fermo in una Mediobanca che segue logiche meno mercatiste e più sistemiche. Tra i due ci sono alcuni anelli di congiunzione: le fondazioni bancarie azioniste della Cdp, ma anche di Unicredit o di Intesa. Dunque, un incrocio, come quando Enrico Cuccia si definiva un centauro con il corpo pubblico e la testa privata.

    Ciò apre una contraddizione con la filosofia dei Nagel o dei Giovanni Perissinotto, amministratore delegato del Leone di Trieste, tutori della catena del valore per gli azionisti, l'autonomia del management. Ma viviamo in tempi duri, quando la Borsa è intasata dal debito sovrano. E anche loro debbono bere l'amaro calice (del resto, li pagano apposta profumatamente). Sta qui la ragione strategica del cambiamento anche negli assetti proprietari. Per parlar schietti, dentro Piazzetta Cuccia non c'è più posto per chi non è consustanziale, esattamente come ai vecchi tempi. Lo hanno capito i francesi, e provano a resistere. Vincent Bolloré ha piegato il capo pur di mantenere la sua poltrona di vicepresidente delle Generali. Intanto, il suo amico Jean Azéma ha rilasciato dichiarazioni a destra e manca per dire che il 29 e rotti per cento del gruppo Ligresti se lo tiene eccome. Unicredit vuole il controllo? Allora faccia lei l'Opa che Giuseppe Vegas, presidente della Consob, ha agitato sotto il naso di Groupama. Potrebbe finire con una controscalata, con un patto tra la banca milanese e la compagnia francese o una spartizione che scorpori le partecipazioni sensibili (tra le quali il 3,83 per cento della stessa Mediobanca) e lasci a Groupama il business assicurativo.

    L'amministratore delegato di Mediobanca, Nagel, sta già lavorando a una ipotesi che ha lasciato filtrare qua e là: il patto scende al 30 per cento del capitale o chiedendo ai soci una riduzione proporzionale che rafforza l'asse management-Unicredit, dunque uno scenario che era uno spettro per Geronzi, oppure, meglio ancora, lasciando fuori chi ha altre ambizioni. Leggi, i francesi. Non sarà facile. Perché quando si va alla conta si scopre che il gruppo B, quello degli azionisti privati che ha il pacchetto maggiore (18,9 per cento), è frantumato in piccole, spesso piccolissime quote (Della Valle per esempio possiede appena lo 0,48 per cento). Gli industriali italiani presenti (Benetton, Pirelli, Italcementi, Ferrero, Angelini, gli eredi Gavio, i Fumagalli, Seragnoli, Doris, Fininvest) non fanno gruppo, hanno interessi, priorità strategiche e amicizie (anche politiche) diverse. Dunque, c'è il rischio che si dividano. Un capitale sfarinato può avere solo un ruolo gregario. Nagel lo sa e cerca soci importanti disposti a mettere quattrini e tenerceli per un periodo ragionevolmente lungo. Gira con la lanterna come Diogene. Finora, dalla notte spunta solo il lumicino della Cassa depositi e prestiti, controllata con il 70 per cento dal ministero dell'Economia e con il 30 per cento dalle fondazioni bancarie. La Cdp, ancora lei.