La caduta degli dei

Stefano Cingolani

E' solo l'inizio. Le dimissioni di Cesare Geronzi dalla presidenza delle Assicurazioni Generali innescano una reazione a catena che può ridisegnare la mappa del potere finanziario. La Borsa festeggia facendo salire il titolo del tre per cento, e pregusta nuovi succulenti bocconi. S'aggiudica il primo round Diego Della Valle, che ha scosso l'albero. E consuma la propria rivincita Alberto Nagel, amministratore delegato di Mediobanca.

Leggi Generali è ormai un western - Leggi In Generali e Rizzoli serve un manuale di governance - Leggi Geronzi rivoluziona Generali scrutando le pene di Unicredit - Leggi il ritratto di Cesare Geronzi

    E' solo l'inizio. Le dimissioni di Cesare Geronzi dalla presidenza delle Assicurazioni Generali innescano una reazione a catena che può ridisegnare la mappa del potere finanziario. La Borsa festeggia facendo salire il titolo del tre per cento, e pregusta nuovi succulenti bocconi. S'aggiudica il primo round Diego Della Valle, che ha scosso l'albero. E consuma la propria rivincita Alberto Nagel, amministratore delegato di Mediobanca. Vincent Bolloré resta vicepresidente nella compagnia triestina, ma nelle stanze di via Filodrammatici (oggi Piazzetta Cuccia), si giocherà il match decisivo con gli azionisti francesi: a giugno scade il consiglio e a novembre il patto di sindacato. Nel frattempo, è prevedibile una ricaduta in Rcs, la casa editrice proprietaria del Corriere della Sera dalle cui colonne i duellanti si sono lanciati frecce avvelenate. Ne esce ridimensionato il sistema relazionale romano del quale Geronzi è stato il primo motore immobile. Ma bisogna seguire con attenzione le mosse di Francesco Gaetano Caltagirone, presidente ad interim. Sarà lui a gestire l'assemblea di Generali a fine mese e c'è già chi si chiede perché non possa fare il presidente a tutti gli effetti. Circolano altri papabili, tra i quali Alessandro Profumo, sostenuto da Della Valle. Il banchiere genovese, però, non è amato in Mediobanca, anche perché insieme con Geronzi ha dato la prima spallata all'eredità di Cuccia, facendo saltare Vincenzo Maranghi.

    La svolta è maturata nella serata di martedì. Alle una e trenta di notte era pronta una lettera per chiedere le dimissioni di Geronzi, firmata da dieci consiglieri: Della Valle, Petr Kellner (il magnate ceco favorito dall'accordo segreto con la compagnia, secondo le accuse di Bolloré), i rappresentanti dei fondi (Paola Sapienza, Cesare Calari e Carlo Carraro), soci inquieti come Lorenzo Pellicioli (De Agostini), Angelo Miglietta (segretario della Fondazione Caritorino dalla quale proviene anche Fabrizio Palenzona), il manager tedesco Reinfried Pohl (che amministra le Generali Vienna). A essi si sono aggiunti i due esponenti di Mediobanca, Nagel e il direttore generale Francesco Saverio Vinci. All'oscuro della congiura, Bolloré, Caltagirone, Paolo Scaroni e Alessandro Pedersoli. Il primo perché bersaglio principale, gli altri perché in questi due mesi hanno preferito tenersi fuori dalla diatriba.

    Quando Geronzi ha saputo che contro di lui c'erano anche Nagel e Vinci, suoi azionisti di riferimento, ha deciso di dimettersi. Il cda, convocato per le 10, è slittato al pomeriggio. E si è concluso con le consuete espressioni di “rammarico”. L'ex presidente resta alla guida dell'annessa fondazione. Si chiude così un duello aperto a febbraio dalla sferzata di Della Valle contro “gli arzilli vecchietti” che comandano il sistema bancario, Giovanni Bazoli e Geronzi (poi si corregge spiegando che in realtà ce l'ha solo con Geronzi). Alle Generali chiede di disfarsi del tre per cento in Rcs, investimento non strategico. E comincia l'attacco a come viene gestito il rapporto con l'informazione. Finisce nel mirino un'intervista al Financial Times nella quale il presidente delinea scelte della compagnia diverse dalle linee strategiche illustrate dall'amministratore delegato Giovanni Perissinotto. Per esempio, ricapitalizzare le banche in difficoltà, investimenti nel Ponte sullo Stretto di Messina o altre operazioni “sistemiche”. Fanno sentire il loro dissenso alcuni azionisti rilevanti come Pellicioli e Leonardo Del Vecchio, il patron di Luxottica.

    A questo punto, scende in campo Bolloré, vicepresidente e fedele alleato di Geronzi dal momento in cui ha favorito la sua elezione, voltando le spalle al proprio mentore Antoine Bernheim. Il finanziere bretone denuncia la joint venture ceca con Kellner, l'ingresso nella banca russa Vtb e investimenti immobiliari a Parigi. A suo parere, alcune di queste scelte mettono in discussione il bilancio stesso, e lui non lo vota. Del Vecchio si dimette, irritato dal clima e soprattutto dalle operazioni in Russia e Francia. Della Valle chiede a Geronzi di sconfessare Bolloré. Perissinotto minaccia di ricorrere alla Consob. Il presidente prende tempo. Intanto, alcuni azionisti chiedono un cda straordinario sulla governance. Sono gli stessi che poi firmano la lettera contro Geronzi. Ma a far pendere davvero la bilancia è Mediobanca. Una svolta dell'ultimo momento o una decisione preparata anche grazie a Della Valle?

    Quando venne nominato il 24 aprile 2010, il Foglio definì il banchiere romano “un traghettatore”. In realtà, non conosceva il  battello sul quale era salito. Le Generali sono una industria, producono e vendono polizze. Soprattutto, fanno parte di un mondo che gli è estraneo. L'idea di portare il baricentro dalla Mitteleuropa a Roma non poteva non suscitare rigetto. Si è cominciato a mettere in discussione l'appannaggio pari a 3,3 milioni annui. Meno di Bernheim, il quale pretendeva anche l'appartamento a Venezia. Ma lui faceva parte della haute finance, del bridge, degli abiti con il panciotto e l'orologio d'oro. Universo dal quale “il ragioniere di Marino” (come lo chiamano gli avversari) è rimasto fuori, nonostante la rete di cui si è dotato negli ultimi vent'anni. Gli ha anche nuociuto la tendenza a voler ridimensionare il management. Ci ha provato in Capitalia con Matteo Arpe, nei due anni a Mediobanca con Nagel e in Generali con Perissinotto. Guai a fargli notare che era un presidente senza deleghe. “Mi basta un telefono”, rispondeva. Non è bastato agli azionisti.

    E la politica? Il coup de théâtre alle Generali ha sorpreso Silvio Berlusconi che a Geronzi deve un sostegno finanziario importante nel 1993, quando Fininvest era in difficoltà (la Banca di Roma guidò l'ingresso in Borsa di Mediaset). E non piace nemmeno a Gianni Letta il quale ha sempre mantenuto un rapporto stretto con quel milieu del quale Geronzi è stato il perno. Quanto a Giulio Tremonti, un anno fa ha favorito il passaggio da Mediobanca a Generali. Ma in questi mesi di lotta continua, seguiva con preoccupazione l'instabilità al vertice dell'unica multinazionale finanziaria italiana.

    Inoltre, Tremonti ha un buon rapporto personale con Perissinotto.
    Fermando indirettamente la scalata a Fondiaria del gruppo Ligresti, il ministro dell'Economia ha fatto saltare i piani di Bolloré e del suo alleato Groupama. La stessa campagna anti-francese ha fiaccato il principale sostegno di Geronzi. Non è stato il ministro a far precipitare lo show-down, ma è chiaro che il ruolo sistemico rivendicato dal banchiere romano, passa in altre mani: il rinato triangolo Mediobanca-Unicredit-Intesa (nel quale si dà un gran da fare Palenzona), le fondazioni bancarie guidate da Giuseppe Guzzetti, la Cassa depositi e prestiti, tutto quel che ruota attorno a via XX Settembre.

    E Della Valle? Non c'è un côté politico dietro la sua offensiva? Soprattutto adesso che Luca Cordero di Montezemolo, suo socio e amico di vecchia data, è tentato di scendere in campo. Certo, il calzaturiere marchigiano s'è mosso con lo stesso vento della “borghesia produttiva” che spira nelle vele montezemoliane. Ma ce n'est qu'un début.

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