Le tre regole di Yossi Klein Halevi per sopravvivere alle rivolte

Alberto Mucci

Negli ultimi mesi di rivolte, rivoluzioni e scontri in medio oriente il silenzio della politica israeliana si è fatto sentire. Per Yossi Klein Halevi, senior fellow allo Shalem Center di Gerusalemme e commentatore ospitato su molti media internazionali, il silenzio è però la migliore politica che Gerusalemme possa adottare, in un momento in cui “il mondo arabo sta affrontando i fallimenti della sua struttura morale”. Parlando con il Foglio, Halevi traccia tre punti cardine che il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, dovrebbe perseguire per destreggiarsi tra vecchi dittatori, piazze in rivolta e un panorama politico in mutamento.

    Negli ultimi mesi di rivolte, rivoluzioni e scontri in medio oriente il silenzio della politica israeliana si è fatto sentire. Per Yossi Klein Halevi, senior fellow allo Shalem Center di Gerusalemme e commentatore ospitato su molti media internazionali, il silenzio è però la migliore politica che Gerusalemme possa adottare, in un momento in cui “il mondo arabo sta affrontando i fallimenti della sua struttura morale”. Parlando con il Foglio, Halevi traccia tre punti cardine che il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, dovrebbe perseguire per destreggiarsi tra vecchi dittatori, piazze in rivolta e un panorama politico in mutamento.

    Primo. Tenere un profilo basso e farsi notare il meno possibile. I manifestanti arabi, con grande sorpresa, hanno citato più Jan Palach, l'eroe della ribellione cecoslovacca del 1968, che noti estremisti del jihad. Dalle piazze non si sono levati slogan anti israeliani e gli unici a far riferimento allo stato ebraico sono stati i dittatori (in modo a dir poco grottesco) che non hanno fatto mancare la solita retorica sulla cospirazione sionista. “Il mondo arabo sta sicuramente maturando – continua Halevi – e bisogna evitare in qualsiasi modo che le rivolte prendano una via anti israeliana”. Ma restare in secondo piano non significa essere passivi. C'è un detto in Israele che recita: “Finché i razzi di Hamas non giungono sugli asili nido è meglio stare a braccia conserte”, ed è su queste linee che sembra improntata la politica del premier Netanyahu, anche dopo gli ultimi razzi lanciati da Hamas sul territorio israeliano.

    Secondo. Bisogna guardare ai cambiamenti in medio oriente con ottimismo, mantenendo però una realistica cautela. “Israele non è l'occidente, e non può illudersi sul ruolo democratico dei Fratelli musulmani come fanno i governi occidentali: l'Egitto è un vicino potente e uno dei pochi paesi arabi con cui ha firmato una pace, perderlo sarebbe una tragedia”, dice Halevi. La formula è perciò “cauto ottimismo” anche se, nel suo silenzio, Gerusalemme segue con apprensione ogni mossa, ogni dichiarazione e ogni sotterfugio che prende forma al di là del Sinai.

    Terzo. Israele non può rimanere fermo a guardare, deve dare un segnale di sostegno alle piazze arabe. E' troppo presto per capire in che direzione andranno i cambiamenti nel mondo arabo ma c'è anche la possibilità che si sviluppino a favore di Israele. Secondo Halevi la carta migliore da giocare è quella palestinese. Le popolazioni arabe hanno sempre tenuto alla questione palestinese più dei dittatori che li governavano, questo Israele lo sa e deve mostrare, con una mossa forte e decisa, la sua volontà “di risolvere il conflitto con la Palestina”. Nelle piazze deve trapelare il messaggio che “Israele è a favore di una soluzione che crei due stati, che Israele vuole cessare l'occupazione, pur legittima, di parti della Cisgiordania a condizione che i palestinesi accettino il diritto di esistere di Israele”. Yossi Klein Halevi fa un passo in più e spiega che fino a poco tempo fa non sarebbe stato a favore di un nuovo blocco unilaterale (senza un accordo con i palestinesi) degli insediamenti, ma adesso auspica che il governo israeliano fermi la costruzione di altri settlement: “Questa decisione manderebbe un chiaro segnale al mondo arabo”.

    Non è però una mossa facile. Netanyahu ha e ha avuto grandi problemi con i suoi alleati di governo, i partiti legati agli ambienti ultraortodossi israeliani, che si oppongono a un nuovo blocco e qualsiasi politica che possa essere letta come una concessione. Soprattutto alla luce dell'insuccesso politico dell'altro tentativo: dieci mesi di congelamento di nuove costruzioni, “snobbato dalla comunità internazionale”. Halevi non è inebriato di ottimismo, conosce i rischi, e li elenca: “I dittatori rimasti sono quelli più vicini all'Iran, e se i nuovi governi del dopo rivolta si allineassero con la Repubblica islamica si realizzerebbe il peggior incubo per Israele”. Perché se è presto per trarre giudizi e conclusioni sui futuri sviluppi in medio oriente, i problemi certi per Israele si possono riassumere in tre parole: “Iran, Iran e ancora Iran”.