Il popolo giapponese non abbandona Tokyo: qui vige il principio dell'autorità
Nello stillicidio delle notizie che tengono il mondo con il fiato sospeso sulle veloci sorti dell'impianto nucleare di Fukushima, il popolo di Tokyo non accenna ad abbandonare ritmo e rituali della consueta routine, soltanto un poco più torpido del solito.
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Nello stillicidio delle notizie che tengono il mondo con il fiato sospeso sulle veloci sorti dell'impianto nucleare di Fukushima, il popolo di Tokyo non accenna ad abbandonare ritmo e rituali della consueta routine, soltanto un poco più torpido del solito. Niente partenze precipitose, niente esodi massicci, niente ricorso a network amicali o parentali d'emergenza. I pochi giapponesi che decidono di lasciarsi alle spalle la metropoli, anche solo per guadagnare qualche chilometro a sud, non rinunciano fino all'ultimo a chiudere le posizioni, a non lasciare nulla in sospeso.
Che all'orizzonte si profili, sempre più minaccioso, lo spettro della contaminazione radioattiva non sembra finora avere generato eccessiva inquietudine. Solo la piega che i fatti assumeranno nei prossimi giorni, e poi nei prossimi mesi e anni, decreterà se questa volta si tratti di salubre attitudine alla disciplina o invece del lato oscuro, e sciocco, dell'imperturbabilità. Ma al di qua dei giudizi di merito, l'osservatore occidentale torna a trovarsi spiazzato dall'ennesima singolarità delle dinamiche comportamentali nipponiche: lo spettacolo dell'accondiscendenza con cui milioni di uomini e donne si lasciano guidare dalla parola delle autorità. Certo, sul fronte pubblico Naoto Kan, il capo del governo, può vantare qualche valida credenziale in materia di affidabilità e trasparenza: fu lui, nel lontano 1996, a rendere finalmente accessibili i documenti amministrativi su certi tristi casi di sangue contaminato.
Ma il potere seduttivo che l'autorità esercita sull'animo dei giapponesi ha radici più profonde. Per quella costruzione della mente greca che è l'occidente, ogni valutazione è affidata in primo luogo al ragionamento, all'analisi, alla logica. Per il Giappone al principio di autorità. Se un fanciullo in età scolare si presentasse in un consesso di dotti “occidentali” e a fil di logica dimostrasse che al centro del nostro sistema planetario è situata la Terra, quei dotti non potrebbero che prenderne atto. Per avere udienza in Giappone, invece, lo stesso fanciullo dovrebbe assicurarsi l'avallo di qualche superiore autorità: la forza degli argomenti non basterebbe.
I giapponesi hanno una sintassi mentale e linguistica di natura posizionale, più preoccupata di stabilire i rapporti gerarchici tra i parlanti o tra il parlante e gli oggetti del suo discorso, che di circoscrivere l'essenza degli uni e degli altri nel modo più determinato. La scacchiera su cui la mente giapponese gioca la sua partita è un'intavolatura di relazioni dalla quale deve emergere una catena d'autorità.
Per questo i giapponesi sono tanto sensibili al brand, hanno tanto trasporto per le certificazioni e rimangono esterrefatti se gli porgete un biglietto da visita senza “katagaki”, senza cioè l'indicazione dei titoli e delle appartenenze che rivelano da quale autorità promani il vostro eventuale valore.
E anche per questo gli abitanti di Tokyo confidano quasi ciecamente nelle indicazioni con cui in queste interminabili ore esperti e funzionari governativi cercano di raffreddare l'incubo atomico di Fukushima.
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