Morte di una patrimoniale

Stefano Cingolani

"Che cosa volete che sia? Il costo di una pizza per tre persone". Fa i conti con meticolosa abilità Giuliano Amato nell'estate del 1992 e risponde piccato a chi lo critica per aver imposto una patrimoniale del 3 per mille sulla casa e un'altra del 6 per mille sui depositi bancari e postali. Peanuts, lui dice che sono noccioline e tali si rivelano in termini di impatto sulla voragine dei conti pubblici, ma lasciano ben altro segno nella coscienza collettiva di risparmiatori e contribuenti.

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    "Che cosa volete che sia? Il costo di una pizza per tre persone". Fa i conti con meticolosa abilità Giuliano Amato nell'estate del 1992 e risponde piccato a chi lo critica per aver imposto una patrimoniale del 3 per mille sulla casa e un'altra del 6 per mille sui depositi bancari e postali. Peanuts, lui dice che sono noccioline e tali si rivelano in termini di impatto sulla voragine dei conti pubblici, ma lasciano ben altro segno nella coscienza collettiva di risparmiatori e contribuenti. Non solo. Gli speculatori sui mercati capiscono che il governo italiano è alla frutta, quindi continuano ad attaccare la lira che crolla a settembre nonostante i disperati tentativi di difenderla.

    Quando si parla di choc fiscale e di imposta sulla ricchezza, molti dimenticano che questa strada è stata già battuta in un momento drammatico, per molti versi eccezionale, della storia italiana, una fase di emergenza vera quando stavano franando nello stesso tempo due pilastri che reggono un paese: la moneta e il sistema politico. Anche oggi il dottor Sottile, come lo chiamava Eugenio Scalfari, fa i conti e propone un assegno a testa di 30 mila euro per tre anni sul terzo più ricco degli italiani. Una sorta di prestito forzoso, un po' di risparmio alla patria che fa scendere il debito all'80 per cento del prodotto lordo. Non è molto diversa nella sostanza la ricetta del banchiere e politico Pellegrino Capaldo, anche se la sua grava sul patrimonio immobiliare.

    La tentazione della scorciatoia dall'alto si presenta di nuovo, nonostante prove e controprove che la cura si mostra inequivocabilmente peggiore del male. “La botta secca, ingiusta e inefficace sul lungo termine”, come l'ha chiamata Silvio Berlusconi nella lettera al Corriere della Sera pubblicata ieri, con la quale propone, in alternativa “un piano bipartisan per la crescita”, la “strada liberale”, invece della “rinuncia statalista”.
    Far pagare i ricchi è il mantra della cultura di sinistra, in particolare quella cattolica e quella socialista. Non che i comunisti non l'abbiano recitato quando hanno avuto il potere di influenzare la politica economica, ma si sono ritratti, vuoi per calcolo di opportunità, vuoi per diffidenza ideologica. Rino Formica sul Foglio ha raccontato come nel 1946 Palmiro Togliatti respinse l'ipotesi di un cambio della moneta accoppiato a una patrimoniale, accarezzata da Mauro Scoccimarro ministro delle Finanze.

    Nel suo pragmatismo, il segretario del Pci sapeva che si sarebbe messo contro i ceti medi produttivi, perno dell'alleanza con la classe operaia. Quindi, prima delle elezioni meglio non parlarne nemmeno. Tra le togliattiane “riforme di struttura” c'era quella fiscale, con imposte sul reddito “fortemente progressive”, cioè aliquote marginali elevate. Ma si trattava di agire sui guadagni, non tanto sui patrimoni considerati materia esplosiva. L'ala marxista ortodossa, del resto, riteneva che la redistribuzione del reddito dovesse avvenire con la lotta di classe (quindi aumentando i salari) e con la proprietà pubblica dei mezzi di produzione. Il punto di riferimento restava la critica feroce che nel 1875 Karl Marx aveva rivolto al programma dei socialdemocratici tedeschi che al congresso di Gotha proponevano di tagliare le unghie al capitale attraverso le tasse. Un perno dell'intera impostazione socialista in Europa. E un contrasto di fondo con la tradizione comunista.

    Quando trent'anni dopo il Pci entra più o meno direttamente nella stanza dei bottoni, i vertici seguiranno una linea sviluppista, come quella del Programma a medio termine preparato da Giorgio Napolitano con alcuni cervelli economici provenienti dalla Banca d'Italia o dalle università anglo-americane. Non spaventare la piccola borghesia resta un punto fermo. La stessa austerità berlingueriana che punta sul cambiamento del modo di produrre e di consumare, pur fortemente impregnata di critica al capitalismo, tiene conto che l'interlocutore principale, la Dc morotea, ha sempre difeso la rendita, a cominciare da quella immobiliare. Quanto al patto Lama-Agnelli, riguarda salari, prezzi e profitti d'impresa.

    Nel 1985 Vincenzo Visco, allora parlamentare eletto nelle liste del Pci, un “indipendente di sinistra”, saluta con favore, in un articolo sulla Repubblica, la caduta del “tabù della patrimoniale”. Sull'onda di François Mitterrand, in sede di verifica della maggioranza, i socialisti lanciano come ballon d'essai una “imposta sulle grandi fortune”. Bettino Craxi lascia dire, badando bene a non fare. Visco affronta la questione all'interno di un ragionamento che vede in crisi l'imposizione sul reddito: per questo propone una riforma che riduca l'Irpef al 30-35 per cento massimo, compensandola in parte con una patrimoniale.

    Insomma, “pagare meno pagare tutti”. E' una voce nel deserto anche nel suo gruppo parlamentare, sebbene l'idea di un'aliquota pari a un terzo del reddito trovi la simpatia di Giulio Tremonti, allora socialista e consigliere di Formica, e dello stesso Francesco Forte sostenitore del modello reaganiano. Dunque, chi è senza peccato scagli la prima pietra. Tuttavia, la patrimoniale fa parte di un bagaglio culturale del riformismo di sinistra e del pensiero statalista, come quello delle teste d'uovo che si riunivano attorno a Riccardo Lombardi e ad Antonio Giolitti, tra le quali Giuliano Amato. Sarà perché ridotto allo stremo, sarà perché memore di questo percorso intellettuale, fatto sta che quando questi diventa capo del governo, l'imposta sulle fortune torna nel cassetto degli attrezzi.

    Corre l'anno 1992 e tutto sta crollando, Giuliano Amato alle redini del governo sembra l'uomo giusto per gestire in modo equilibrato la transizione. La tempesta finanziaria s'abbatte dal lato della valuta, comincia con le monete scandinave travolte dal collasso dell'Unione sovietica, poi il contagio s'estende alla sterlina e al ventre molle dello Sme, il Sistema monetario europeo. Quando il governo britannico alza bandiera bianca, il volume di fuoco si sposta tutto sull'Italia. Ma non è solo colpa del famelico George Soros. Le finanze italiane sono a pezzi. Il debito pubblico è cresciuto in modo spaventoso, raddoppiando in un solo decennio, tra il 1980 quando era pari al 60 per cento del pil al 1992 quando arriva al 120 per cento. In sostanza, il bilancio dello stato s'è trasformato nella vacca da mungere con una espansione delle erogazioni assistenziali e clientelari. Esaminando la curva storica della spesa pubblica, si vede che segue in parallelo quella del debito. Le riforme degli anni 70 sono costose (dalle pensioni alla sanità, fino alla cassa integrazione, agli ammortizzatori sociali e all'uso sistematico del denaro pubblico per accompagnare e favorire le ristrutturazioni industriali). In più si aggiunge quella che Michele Salvati chiama “risposta monetaria” alle pressioni sociali, che si scarica sui prezzi e sul bilancio pubblico. Il primo impulso fa salire il debito dal 40 al 60 per cento del pil tra il 1970 e il 1980.

    La svolta americana con il rialzo improvviso dei tassi di interesse per soffocare l'inflazione, porta a una nuova impennata di venti punti fino al 1987. L'eclisse della Prima Repubblica accumula ben trenta punti di pil tra il 1989 e il 1993. La spesa per il servizio del debito, nettamente superiore a quella di altri paesi, alimenta automaticamente il disavanzo colmato ricorrendo a ingenti afflussi di capitali esteri e non riducendo il gap tra spese ed entrate.

    L'11 luglio, il governo vara una prima stangata che racchiude le due patrimoniali. Sostiene Pierluigi Ciocca che allora era ai vertici della Banca d'Italia: “Le misure apparvero parziali, per taluni versi maldestre, regressive, comunque non risolutive”. La patrimoniale finanziaria, ad esempio, porta solo 5.600 miliardi di lire nelle casse dello stato (una goccia nel mare, come si vedrà di lì a due mesi), per di più commettendo un errore clamoroso perché “i depositi erano considerati ricchezza netta e non liquidità”. Non è solo una questione di scuola. Alle conseguenze interne si aggiunge la batosta dei mercati i quali la interpretano come un pasticcio tipico di chi è alla canna del gas, “incrinando seriamente il rapporto di fiducia fra detentori ed emittente di debito pubblico”, scrivono Michele Fratianni e Franco Spinelli, nella loro “Storia monetaria d'Italia”. Ciò “porta gli operatori a ritenere che si tratti di una prova per una più consistente patrimoniale sui titoli di stato. Evidentemente, le autorità non percepiscono il nesso tra sostenibilità del quadro monetario e valutario, da un lato, e fiscale dall'altro”, aggiungono i due studiosi.

    Gli attacchi alla lira, di conseguenza, continuano. Amato insiste nel difenderla a tutti i costi. Ciampi obbedisce e la Banca d'Italia perde 48 miliardi di dollari tra l'inizio di giugno e la metà di settembre, quando finalmente si prende atto della realtà. Il 16 settembre viene sospeso il cambio della lira nell'ambito del sistema monetario europeo. Il 17 settembre il governo Amato decide la mega stangata di 93 mila miliardi di lire.
    L'economista Alessandro Penati, sulla Repubblica di sabato scorso, ha sintetizzato in modo chiarissimo perché la patrimoniale è a un tempo inutile, inefficace, iniqua, colpisce solo i contribuenti che pagano, il ceto medio, non i veri ricchi né i grandi investitori istituzionali, banche e fondi. Dopo il coro di no degli economisti raccolto dal Foglio e quello politico di Berlusconi, il capitolo potrebbe dirsi chiuso. Ma il fascino segreto della scorciatoia permane.

    Nelle storia italiana, il debito pubblico rispetto al pil non si è mai ridotto con le tasse, ma con l'inflazione galoppante (nel 1945 il costo della vita era salito al 97 per cento e il rapporto tra debito e pil che era arrivato al 108 per cento nel 1943, prima della resa italiana, cadde al 40 per cento nel 1946) o con il calo dei tassi di interesse come alla fine degli anni 90. Questi ultimi sono già al minimo. Quanto all'aumento dei prezzi, le conseguenze sociali sono devastanti. Se volete far cadere il capitalismo provocate l'inflazione, ammoniva Lenin che la pensava proprio come Milton Friedman. Oggi, comunque, è la Banca centrale europea a fissare un limite del 2 per cento all'aumento della moneta necessaria a coprire le pressioni sui prezzi.

    Ma c'è un altro vincolo estero che Penati porta in luce: quello del mercato internazionale. La metà del debito pubblico è in mani straniere, quindi i margini di manovra per interventi straordinari, si riducono. Anche qui, la storia qualcosa ci dice. Dopo l'Unità d'Italia la situazione era persino peggiore e i Rothschild che avevano in portafoglio la rendita (come si chiamava allora) delle maggiori potenze, valutarono che l'Italia si avvicinava a passi da gigante verso l'insolvenza. Un attacco speculativo sui titoli pubblici costrinse il governo a chiudere il mercato e decretare l'inconvertibilità della lira e il cambio forzoso deciso nel 1866 dal governo La Marmora. Nemmeno questo servì a evitare la grave crisi bancaria del 1873. Solo il pareggio del bilancio, realizzato da Marco Minghetti tre anni dopo, consentì alla lira di tornare sul mercato.

    C'è stato un intervento straordinario, nella storia del debito italiano, ed è la sua nazionalizzazione con la conversione della rendita decisa nel 1906 da Giovanni Giolitti. Il bilancio pubblico tornò in pareggio fino al 1912, il debito scese dal 117 per cento del pil al 70, il divario tra i tassi italiani e quelli inglesi che facevano allora da riferimento, si ridusse fino ad annullarsi. Si può ripetere? Solo costringendo le banche a sottoscrivere Bot e isolandoci dal mercato finanziario internazionale (quindi uscendo dall'euro).

    Lo sa bene il professor Capaldo, economista accademico, esperto di finanza pubblica e d'impresa, ma soprattutto banchiere. Il suo nome viene alla ribalta nei primi anni 80 quando la segreteria di stato vaticana lo designa per dirimere la questione Banco Ambrosiano-Ior, insieme ad altri due probiviri. Poi nel 1987 diventa presidente della Cassa di risparmio di Roma, in quota Dc, acquisisce dall'Iri presieduto da Romano Prodi il Banco di Santo Spirito e il Banco di Roma e presiede fino al 1995 il nuovo gruppo amministrato da Cesare Geronzi. Un anno dopo viene inquisito per il collasso della Federconsorzi e poi assolto con formula piena.

    Nato ad Atripalda, in provincia di Avellino, il luogo geografico lo accosta a Ciriaco De Mita e Capaldo gli sarà vicino anche politicamente. Nel 1998 entra nell'Udr di Francesco Cossiga. Dieci anni dopo fa parte della Rosa per l'Italia con Savino Pezzotta. Resta legato alla terra natia, tanto da diventare proprietario di un'azienda vinicola di successo, la Feudi di San Gregorio che produce Fiano e Greco di Tufo.
    Il professor Capaldo, sul Corriere della Sera, ha presentato la propria ricetta anti debito come una privatizzazione: “Se venisse trasferito per la metà ai privati lo stato vedrebbe dimezzato il rapporto debito/pil che scenderebbe al 59 per cento”. Ma la vendita sul mercato di aziende, terreni, proprietà pubbliche, cioè la via maestra, è oggi ardua.

    Chi compra con una Borsa italiana depressa? Di qui la scorciatoia fiscale, tassando il patrimonio immobiliare (tra il 5 e il 20 per cento dei singoli cespiti). Dunque, gira e rigira, per quanto intellettualmente sofisticate possano essere le cure, torniamo sempre al punto di partenza. E anche chi non rifiuta per motivi ideologici un intervento straordinario, non può non tenere conto delle argomentazioni forti sull'inefficacia e l'iniquità della “botta secca”, mentre le condizioni di mercato limitano gli spazi per interventi straordinari sullo stock del debito. Non resta altra scelta che risanare i conti. E preparare un intervento di natura straordinaria non su reddito e ricchezza, ma sugli investimenti produttivi. Primum crescere… deinde tributum imponere.

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