Viaggio tra i tormenti della Fiom

Stefano Cingolani

In una giornata frenetica e per certi versi drammatica, la Fiom non ha firmato l'accordo per Pomigliano d'Arco; ha respinto l'intesa su Mirafiori; ha rifiutato il referendum dei lavoratori perché “illegittimo”; ha indetto uno sciopero generale dei metalmeccanici per il 28 gennaio; ha respinto a parole l'accusa di essere non più un sindacato, ma un partito politico (di estrema sinistra) lanciata da Luigi Angeletti, segretario della Uil. Tutto scontato, o quasi.

Leggi l'intervista a Renato Brunetta Elogio ragionato del New Deal di Marchionne

    In una giornata frenetica e per certi versi drammatica, la Fiom non ha firmato l'accordo per Pomigliano d'Arco; ha respinto l'intesa su Mirafiori; ha rifiutato il referendum dei lavoratori perché “illegittimo”; ha indetto uno sciopero generale dei metalmeccanici per il 28 gennaio; ha respinto a parole l'accusa di essere non più un sindacato, ma un partito politico (di estrema sinistra) lanciata da Luigi Angeletti, segretario della Uil. Tutto scontato, o quasi. Perché la Fiom è complicata e se ne vanta. Il comitato centrale di ieri lo ha dimostrato. Il voto sul documento finale ha visto 102 favorevoli e 29 astenuti che rappresentano la minoranza guidata da Fausto Durante. L'astensione, ha spiegato Durante, è per non lanciare un messaggio ambiguo. “Io sono contro l'intesa proposta da Sergio Marchionne – dice al Foglio – Ma voglio sfidare la Fiat sul suo stesso terreno, non chiudermi in una posizione ideologica che finisce per trasformare il sindacato in un'organizzazione di resistenza e, non riuscendo più a incidere sulla realtà, di pura testimonianza”. Dunque Angeletti non ha torto? “Spesso abbiamo dato l'impressione di essere attenti a quel che avviene nel resto della società e nella politica, più che a quel che succede in fabbrica. E di non avere nessuna consapevolezza dei mutamenti nei rapporti di forza: tra capitale e lavoro, oggi la bilancia non mi sembra a favore del lavoro. Vogliamo tenerne conto o diventare una voce che grida nel deserto?”. Ci sono, insomma, più anime nella Fiom; anche più di due, e ieri hanno ravvivato il mesto dibattito di chi resiste, non si rassegna, ma sa di portare sulle proprie spalle l'ineluttabile sconfitta.

    Da un lato c'è Giorgio Cremaschi, presidente del comitato centrale, il più radicale, quello che “Berlusconi e Marchionne sono il regime dei padroni” (ha anche pubblicato un libro con questo titolo). Da ieri ha aggiunto Bonanni e Angeletti, definiti “la vergogna del sindacalismo”. Poi c'è il torinese Giorgio Airaudo. In principio è d'accordo con la linea ufficiale, nei fatti deve tener conto che la base intende partecipare al referendum. Sono nati i comitati del no. Sono state raccolte firme e ben 2.850 sono contro l'accordo (che riguarda 5.500 dipendenti), mandando in bestia Marchionne (come spesso accade). “La partita è aperta e val la pena giocarla tutta”, insiste Durante, il quale vuol fare il referendum e accettarlo fino in fondo. “Illegittimo? E perché mai? Non c'è una legge che lo regoli. La Fiom ha sempre brandito il referendum come arma di democrazia, adesso che lo vogliono gli altri è illegittimo? Come fanno a capirci i lavoratori?”, molto più realisti dei vertici Fiom.

    Airaudo sa bene che i dipendenti Fiat
    vogliono battersi e lo ha detto, anche se poi ha zigzagato per non sconfessare il segretario Maurizio Landini il quale sembra un guscio di noce nella tempesta. Ieri ha inveito contro i vertici del Pd: “Andassero loro nelle catene di montaggio”. Anche se, gli ha ricordato Massimo D'Alema con una punta di perfidia, “nemmeno lui lavora in fabbrica”. Airaudo non crede che la Fiat sia l'incarnazione di un piano del capitale di natura fascistoide, ma ritiene che persegua un modello aziendalista all'americana da contrastare. Un sistema di relazioni industriali che non piace nemmeno a Durante il quale, però, vuole giocare in campo aperto: “Sfidiamo Marchionne, sfidiamolo sulla partecipazione, sul modo di fare l'automobile – spiega al Foglio – Quando voleva la Opel, il capo dei sindacalisti gli ha detto chiaro e tondo che doveva accettare la sua presenza in consiglio. Ci chiede di lavorare come in Germania? Bene, applichiamo fino in fondo il modello tedesco”. La filosofia di Durante è che il sindacato non può smettere di fare il proprio mestiere. Basandosi sull'analisi della situazione concreta, come gli hanno insegnato i Trentin o i Lama, uomini diversi, con linee spesso differenti, ma che sapevano analizzare con coraggio le sconfitte e trarne le conseguenze, come avvenne nel 1980 a Mirafiori. Contrattazione e partecipazione, per il sindacalista che si è fatto le ossa nella Puglia dove è nato Giuseppe Di Vittorio, significa che bisogna sempre stare dentro i processi, non guardare al proprio ombelico, ma al mondo nel quale siamo immersi. E non ha dubbi sul fatto che la globalizzazione ha cambiato il modo di concepire il lavoro e l'industria. Durante condivide la posizione della Cgil e chiede alla Fiom, non alla confederazione, di cambiare linea. Di fronte all'orgoglio avanguardistico dell'ala radicale, ricorda che le altre categorie hanno sempre firmato i contratti e non esistono deroghe tra i chimici, i tessili, i siderurgici. Se per i meccanici la deroga è diventata regola, la colpa non è solo del perfido padrone. La crisi Fiat potrebbe rivelarsi persino salutare se non prevalesse l'aventinismo dei vertici Fiom. “Battiamoci accettando le regole democratiche – insiste Durante – Se vince il no, Marchionne dovrà ripartire da lì. Se vince il sì, firmiamo, così non saremo tagliati fuori. E attenti, persino negli Stati Uniti i sindacati si preparano a una nuova stagione rivendicativa. Il pendolo può sempre girare”.

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