Per Giuseppe Berta la vera novità dell'ad è la strategia del carciofo

Stefano Cingolani

La doppia sfida al sindacato e alla Confindustria: secondo lo storico Giuseppe Berta, l'americano Marchionne coglie nel segno. “La Confindustria celebra quest'anno il proprio centenario e a primavera subisce la contestazione dei più piccoli, mentre in autunno arriva la contestazione del più grande. Sfortuna? Non proprio. Arriva al dunque la crisi di questa forma di rappresentanza degli interessi”.

    La doppia sfida al sindacato e alla Confindustria: secondo lo storico Giuseppe Berta, l'americano Marchionne coglie nel segno. “La Confindustria celebra quest'anno il proprio centenario e a primavera subisce la contestazione dei più piccoli, mentre in autunno arriva la contestazione del più grande. Sfortuna? Non proprio. Arriva al dunque la crisi di questa forma di rappresentanza degli interessi”. Berta ricorda un articolo provocatorio scritto da Innocenzo Cipolletta prima dell'insediamento di Montezemolo. Era intitolato: “E se facessimo a meno di Confindustria?”. Oggi siamo a un redde rationem. Dunque, ciascun per sé, il padrone del vapore per tutti? Certo che no, ma l'organizzazione degli interessi va calata nelle realtà specifiche. “E' la struttura nazionale a non avere più senso. Il modello più semplice è quello che affida a un contratto dell'industria la griglia normativa e lascia poi salari e condizioni di lavoro alle realtà aziendali”.

    Ma per questo occorre un sindacato che sappia fare bene il proprio mestiere e non solo la politica. “Mi aspettavo che, di fronte al cambiamento nella organizzazione del lavoro, il world class manifacturing, i sindacati entrassero nel merito e contrattassero le condizioni per loro migliori, ma in base a una analisi del nuovo modo di operare. Come raccomandava sempre Bruno Trentin quando era capo della Fiom”. Non ci sono più i Trentin di una volta. “Sì e non c'è più nemmeno la Fiat di una volta”. In che senso? “Marchionne compie una rivoluzione strutturale. Non esisteva un modello italiano di corporate governance. Perché c'era sempre stato uno sconfinamento della proprietà nelle prerogative del manager. Certe volte serviva anche a risolvere delle difficoltà. E' successo spesso alla Fiat. In particolare negli anni '90: quando gli obiettivi non venivano realizzati, ci si appellava all'Avvocato Agnelli. Adesso questo non è più possibile. Non c'è una presenza familiare così forte”.

    L'americanizzazione, dunque, parte dalla separazione tra proprietà e gestione? “Esattamente. E' apparso chiaro a tutti che la Fiat non poteva andare avanti camminando solo sulle sue proprie gambe e occorreva un'alleanza internazionale. Ma la proprietà è stata un ostacolo fondamentale. Nel caso dell'alleanza con Ford nel 1985 e quando nel 1999 l'Avvocato rifiutò Daimler che voleva il 51 per cento della Fiat per ventimila miliardi di lire. A chi gli chiedeva il perché, rispondeva: ‘Fiat, Fabbrica italiana automobili Torino'”.

    Oggi bisognerebbe chiamarla “Fiad”, Fabbrica internazionale automobili Detroit. “Siamo in uno scenario di completa globalizzazione. Si pensava che la questione delle alleanze venisse risolta con l'accordo con General Motors. Ma non ha funzionato. L'occasione Chrysler consente di accelerare il passo”. E per questo Marchionne chiede mano libera. “Deve rispondere ai suoi azionisti che non sono più solo a Torino e in Italia, ma a Detroit e a Washington, sono i pensionati del sindacato e l'Aministrazione Obama. Non solo. Ha di fronte un'industria americana anch'essa fortemente managerializzata. Lo è Chrysler, lo è General Motors fin dalla sua creazione ad opera di un geniale manager come Alfred Sloan, lo è la stessa Ford ancora a proprietà familiare: Alan Mulally ha un'ampia autonomia e si è dimostrato senza dubbio il numero uno. Interessante notare che né lui, né Dan Akerson di Gm, né Marchionne vengono dall'auto. Ciò dà loro una certa distanza nel giudicare, senza cadere nelle pastoie di Detroit”.

    A cominciare dai vincoli sindacali. Il cambiamento dei contratti, per avvicinarsi al modello Toyota, è una condizione essenziale posta dalla Casa Bianca per salvare Gm e Chrysler. “Infatti. E ha portato anche a una svolta al vertice di Uaw, il vecchio Ron Gettelfinger ha lasciato la poltrona a Bob King in modo burrascoso, dopo aver accusato Fiat di avere distrutto un secolo di contrattazione”. Però il sindacato resta forte nel cuore dell'industria automobilistica. Nessuno vuole liquidare Uaw come Marchionne intende fare con Fiom. “E' importante anche politicamente, perché sostiene Obama. Quanto a Fiom credo che sia il simbolo di una situazione più generale. Marchionne vede una vischiosità del sistema italiano e la vuole eliminare”.

    Berta invita a non sottovalutare i cambiamenti avvenuti nella proprietà della Fiat. “Gli eredi Agnelli hanno messo limiti chiari al loro compito. E' inutile tirare John Elkann per la giacca come si faceva con l'Avvocato. La sua quota nell'auto è destinata a scendere con la fusione Fiat-Chrysler e ciò vale anche negli altri settori. Ci sono colloqui tra Iveco e Daimler che possono dar vita a un vero colosso mondiale, con il vantaggio che il gruppo italiano è ben posizionato in Cina”. Al contrario di Fiat auto. “Sì, è stato uno degli errori più gravi del passato”. Che incide sul presente: è un punto debole del piano Marchionne. “E' vero, sono d'accordo con molti dei suoi critici. Ma la politica del carciofo, affrontare la situazione stabilimento per stabilimento, è meglio dei megapiani generici. Mette tutti di fronte alle proprie responsabilità, presentando a sindacati e Confindustria i conti della globalizzazione. Non ci sono solo i vincoli dell'euro, ci sono anche i vincoli del mercato globale. Ciò vale anche per la politica che sembra aver accolto con distrazione e superficialità la provocazione della Fiat”.