Italia - Detroit/4

Le potenzialità eversive dell'ultima rupture marchionnesca - Intervista a Rino Formica

Stefano Cingolani

Una frattura che può avere esiti imprevisti, per tutti i protagonisti. Rino Formica, socialista, più volte ministro, ha spesso incrociato i ferri con la potente Fiat di Gianni Agnelli e Cesare Romiti. Analista attento dei processi sociali, non sottovalutata la portata politica della linea Marchionne

    Una frattura che può avere esiti imprevisti, per tutti i protagonisti. Rino Formica, socialista, più volte ministro, ha spesso incrociato i ferri con la potente Fiat di Gianni Agnelli e Cesare Romiti. Analista attento dei processi sociali, non sottovalutata la portata politica della linea Marchionne. Anzi, allunga lo sguardo al passato e non si fa prendere dall'entusiasmo. "Ci sono indubbiamente elementi di novità – spiega al Foglio -  il problema è capire se essi introducono a un ciclo regolato dalla legge del più forte. In tal caso, la sfida della Fiat diventa un invito a una esasperazione di classe. Abbiamo alle spalle un secolo di esperienze terribili, un secolo che ci ha detto: la ricomposizione vale molto più del conflitto. Abbiamo visto le conclusioni positive della ricomposizione, hanno creato soluzioni evolutive, mentre l'esasperazione dello scontro ha prodotto ferite difficilmente risanabili senza pagare prezzi molto alti. La riflessione da fare, dunque, è se questa sia, nelle intenzioni di Marchionne, una sorta di soluzione finale. In tal caso essa o è regressiva o è l'avvio di una rivoluzione". Addirittura? "Sì, nel senso di un cambio dell'ordine tale da mettere in discussione ruoli che vanno al di là della normale dialettica sociale. Insomma, vedo il rischio di sottovalutare le conseguenze della rottura".

    Anche nel 1980 ci fu una lacerazione drammatica. "Ma era pur sempre all'interno delle regole. Insomma eravamo dentro un conflitto regolato come previsto dalla Costituzione. In un rapporto stretto tra accordi sindacali e intervento legislativo”. Il modello Marchionne vuole metter fine a questa triangolazione neocorporativa. "Va più in là: infrange non solo la regolazione legislativa, ma persino le norme di categoria, ed esce dalla Confindustria". Formica non è un conservatore e non esclude certo che la rottura di sistemi ormai vecchi e instabili, possa preludere a nuovi equilibri. Per non essere frainteso, precisa: "Può darsi ci sia una crescita della coscienza che riesca a far comportare da statisti, pur senza essere nello stato, anche i rappresentanti dei lavoratori da un lato e del padronato dall'altro". Il conflitto è utile, serve da stimolo, fa da levatrice del nuovo; Formica lo riconosce. "Si tratta di calcolare i costi sociali di quel che avviene. Il problema è chi pagherà il cambiamento. I conti si fanno dopo, non prima. Se i costi vengono trasferiti sulla parte più debole della società, allora si crea una carica esplosiva".

    Ciò non dipende anche dalla risposta politica? "La politica non ha più strumenti per intervenire. Ha rinunciato. Da vent'anni ha praticato il laissez-faire, aderendo all'idea del ‘mercato è bello' e accettando implicitamente il criterio del più forte. Lo sforzo, a destra come a sinistra, è stato di fingere di accantonare le ideologie; perché esse non sono state sostituite da un empirismo equilibrato, bensì dall'ideologia che il più forte vince. In fondo, il principio basilare del mercato non è che la selezione fa morire i più deboli?" Questa è la visione attribuita a Herbert Spencer e al positivismo ottocentesco. "Ebbene, dalla critica a quella visione è nato un movimento che ha portato alla democrazia e a nuove conquiste sociali".

    Formica ammette che non è in vista, oggi come oggi, nessun movimento nuovo. Ma non molla: "Può darsi che ci sia un esito virtuoso nella società. Forse larga parte del paese si accorgerà che distruggere la democrazia politica e la democrazia sociale organizzata è stato un atto autolesionistico per la parte più fragile della società, fragile in termine di isolamento in una società sempre più inselvatichita. Adesso, questa fragilità si allarga ai ceti medi e presto arriverà anche ai redditi alti. Come si è risposto nel Novecento? Con un principio di organizzazione che supera il limite corporativo: sindacato e Confindustria sono diventati generali. Ora, invece, tornano ad essere corporativi, come il quarto partito del quale parlava De Gasperi”. Un partito che non va da nessuna parte. Anzi. La Confindustria perde il suo associato più potente, quanto ai sindacati organizzano ormai una minoranza dei lavoratori attivi. "Il sindacato italiano è figlio del partito politico. Con la morte del padre è morto anche il figlio, per di più handicappato perché era nato accettando il principio della cinghia di trasmissione”. Eppure nel 1993, mentre crollava la prima repubblica, Cgil, Cisl e Uil, insieme alla Confindustria, sono riusciti a svolgere un ruolo nazionale, firmando un accordo che ha contribuito al risanamento economico. "La verità è un'altra: gruppi e partiti che stavano abusivamente occupando il terreno della democrazia politica organizzata, avevano bisogno di una copertura sociale e dettero l'offa ai rappresentanti del lavoro e del capitale, illudendoli di essere diventati esponenti di interessi generali". E' una lettura opposta alla vulgata dominante. "La vulgata di questi vent'anni è una delle più false che ci siano”.

    Un punto a favore di Marchionne è che mette fine alla Fiat come azienda di sistema e al collateralismo con la politica. "Io sarei più cauto. I grandi complessi economici hanno una obiettiva presa sui sistemi politici. Se la politica è robusta, è in grado di resistere, se è debole, cede. Oggi la Fiat è politicamente più forte di prima. Con un sistema politico che ha distrutto i suoi strumenti d'intervento, si presenta al tavolo e dice: o così o pomì, se mi passa una battuta pubblicitaria, e allora mi porto fuori i pomodori". Negli anni '80 era una grande potenza, forse aveva raggiunto il massimo nella sua storia, almeno da quando Mussolini la chiamava "uno stato nello stato". Romiti nel suo libro intervista racconta che nel 1980, in pieno scontro sindacale, Formica, allora ministro dei trasporti, lo mandò a chiamare e lo minacciò. "Io non minaccio mai nessuno. Gli dissi chiaramente la mia opinione: non penserete mica di ottenere tranquillamente le forniture per le ferrovie?". Però vinse la Fiat. "Vinse perché nelle fabbriche c'era il terrorismo e i colletti bianchi, presi come bersaglio, reagirono. L'azienda non sarebbe prevalsa in quel modo se non ci fosse stata l'esasperazione del terrorismo prodotto dal massimalismo della sinistra italiana, socialista e comunista. Dal massimalismo sono usciti sia Mussolini sia Bordiga, non va mai dimenticato".

    E tuttavia negli anni '80 Craxi e Romiti erano le personalità dominanti e avveniva un continuo scambio politico. La Fiat ottenne l'Alfa. Il Corriere, la Stampa, il Sole avevano un occhio di riguardo per I socialisti. Formica rilancia: "Le racconterò un fatto. Tra il 1988 e il 1989, il conflitto sociale era arrivato a un altro momento rovente. Antonio Bassolino, responsabile sindacale del Pci, inviò un esposto sulle condizioni di lavoro a me, ministro del lavoro e al presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Questi, che pure era amico della Fiat, mi chiamò chiedendomi di andare fino in fondo. Inviai 112 ispettori del lavoro negli stabilimenti del gruppo. Era la prima manifesta presenza dello stato in una azienda che si vantava della propria extraterritorialità politica. Sei mesi dopo venne presentato un rapporto in Parlamento. Emergeva una sorta di modello consociativo che legava grandi sindacati e azienda, mentre le testimonianze dei singoli o dei più piccoli sindacati denunciavano il disagio e l'asprezza delle condizioni di lavoro. Ecco, quel rapporto andrebbe riletto oggi al fine di capire meglio il modello Marchionne".