Parla Carlo Callieri

La cura Marchionne farà risvegliare pure la lenta Confindustria

Stefano Cingolani

C'è un'Italia che resiste alla modernizzazione, prima ancora che alla globalizzazione, resiste all'impegno sul lavoro, ritiene che tutto sia dovuto una volta per sempre. E' questa che Sergio Marchionne prende di petto con le sue scelte traumatiche. Secondo Carlo Callieri, “è un'Italia variamente presente nel pubblico, ma anche nel privato, al sud e in alcuni nuclei dell'industria, tra i quali anche Mirafiori.

    C'è un'Italia che resiste alla modernizzazione, prima ancora che alla globalizzazione, resiste all'impegno sul lavoro, ritiene che tutto sia dovuto una volta per sempre. E' questa che Sergio Marchionne prende di petto con le sue scelte traumatiche. Secondo Carlo Callieri, “è un'Italia variamente presente nel pubblico, ma anche nel privato, al sud e in alcuni nuclei dell'industria, tra i quali anche Mirafiori. Un'Italia la cui cultura scambia il diritto con l'abuso. Ebbene, il sindacato ha ignorato questi comportamenti oggettivamente inaccettabili. Certi settori del sindacato, in modo particolare: credo che la Fiom, tanto per essere chiari, abbia grandissime colpe”.

    Top manager della Fiat, l'uomo che tra il 1979 e il 1980 fu protagonista della svolta, prima contro la violenza terroristica poi con la marcia dei capi e la sconfitta del sindacalismo antagonista, per otto anni vicepresidente di Confindustria per i rapporti sindacali con i presidenti Abete e Fossa, Callieri critica – nel giorno in cui si riunisce il direttivo di Confindustria – anche la rappresentanza degli imprenditori “arcaica, sovradimensionata, autoreferente. Le confederazioni debbono rappresentare gli interessi dei lavoratori e dell'impresa, nell'ottica dell'interesse generale. In passato cio è accaduto, per esempio nel caso della tanto vituperata concertazione. Quando non c'era più nessuna classe politica, in rotta di fuga, inseguita dai magistrati, le rappresentanze generali hanno fatto la loro parte e anche molto di più. Raggiungendo un accordo che ha aiutato in modo fondamentale il risanamento economico e l'integrazione monetaria. Con la rivincita della politica, invece, è tornata la logica della lobby”.

    C'è bisogno di un ripensamento anche nel modo d'essere e nella struttura della rappresentanza: “Via tutta la fuffa associativa. Migliaia di persone che oggi operano in associazioni di categoria o territoriali formano un apparato burocratico che non serve né alle imprese né ai lavoratori”. La difficoltà più evidente riguarda proprio i rapporti contrattuali: “Siamo in pieno labirinto di Dedalo. Troppi livelli e troppo confusi, mentre il nuovo mercato del lavoro sfugge alla rappresentanza. La stessa divisione per mestieri è un guazzabuglio. Prenda l'elettronica che è assolutamente pervasiva, cosa c'entra con la meccanica?”.

    “Tutti i settori nevralgici s'intrecciano – dice Callieri – quindi non ha più molto senso fare dei contratti di categoria”. Dunque bisogna ricominciare da capo? “No, dobbiamo ricominciare dal 1993. Allora affrontammo la riforma del sistema contrattuale. Venne messa sul tavolo una proposta di modello su due livelli alternativi: un contratto generale dell'industria e un contratto aziendale. E non fu ben accolta. Spettava all'impresa optare per l'uno o per l'altro. E' chiaro che le piccole preferiscono il contratto nazionale che assicura loro un'omogeneità di trattamento e un punto di riferimento per tutti. Le grandi, che competono sul mercato mondiale, scelgono un contratto aderente alla loro situazione specifica”. Adesso, in fondo, viene recuperata proprio quella filosofia. “Non del tutto. Per esempio non capisco cosa voglia dire contratto in deroga. Meglio scegliere fino in fondo la libertà di trattare le condizioni coerenti con le caratteristiche e le esigenze dell'azienda”.

    E' questo il modello all'americana di Marchionne? “L'americanismo di cui si parla oggi è stato sempre molto presente in Fiat. La Uaw non ci è affatto sconosciuta, né i rapporti di lavoro negli Stati Uniti. Io e Paolo Annibaldi siamo andati a Detroit per studiarli nel 1970. La Fiat è stata sempre attenta e ha cercato di adattare il modello americano alla realtà italiana, complicata e barocca. E' naturale che chi viene dall'esterno voglia tagliare il nodo gordiano...”. Ma rischia di trovarsi poi avviluppato in queste barocche complessità. “Rischia di avvolgersi in questa camicia di Nesso. Come con il contratto dell'auto. Stento a capirne il senso. Se è una sorta di matrioska, cioè un accordo che scaturisce da altri accordi, è perfido. Se è un contratto di comparto, c'è un'unica azienda produttrice di auto, gli altri sono fornitori o comprimari”.

    L'uscita della Fiat crea uno choc in Confindustria: “Tra Fiat e Confindustria i rapporti non sono mai stati facili, anzi sono stati caratterizzati in alternanza anche da forti tensioni. Vorrei ricordare, e Cesare Romiti l'ha detto e scritto in più occasioni, che nel 1980, nella sua battaglia per la sopravvivenza, la Fiat non si è sentita sostenuta e dopo ci fu un obiettivo raffreddamento. Fino ai primi anni Settanta, il contratto dei meccanici lo faceva la Confindustria, la delegazione Fiat partecipava, ma per lo più restava in panchina. E, quindi, insoddisfatta. Poi venne creata Federmeccanica con cui i metalmeccanici avevano conquistato una loro autonomia. Certo, adesso l'uscita della Fiat è un conto salato. La Confindustria paga la lentezza con la quale si è mossa. Ben venga se serve ad accelerare il cambiamento e se spinge alla semplificazione”.

    Marchionne cambia le carte in tavola anche nei rapporti tra il mondo imprenditoriale, i governi, la politica. “Il fatto che un grande imprenditore sia anche il capo di un grande partito, e poi del governo, ha creato problemi. E' una delle ragioni della crisi confindustriale. Trovare, in occasione di convegni o grandi appuntamenti, un presidente del Consiglio che vuol fare anche il presidente degli imprenditori, non è buono, né per la Confindustria né per la Fiat. Ricordo quando Berlusconi impartiva consigli su come fare, suggerendo di buttare via tutto, tranne la Ferrari. Ebbene, oggi non vedo Marchionne recarsi ad Arcore in elicottero o in Maserati”.