Come liberarsi dalla gabbia europea senza farsi troppo male

Giuseppe Pennisi

Alla luce della crisi finanziaria dell'Irlanda, la provocazione di Paolo Savona sul Foglio del 10 novembre diventa di grande attualità e ha un indubbio merito: riapre quello che dal 1992 è considerato un dibattito proibito

    Alla luce della crisi finanziaria dell'Irlanda, la provocazione di Paolo Savona sul Foglio del 10 novembre diventa di grande attualità e ha un indubbio merito: riapre quello che dal 1992 è considerato un dibattito proibito, appropriato per libri e saggi da mettere nel vecchio indice e da non farsi in ambienti politically correct. Parte delle stime di allora (bassa crescita, difficoltà delle politiche di espansione della produzione, una gabbia di vincoli nuovi in aggiunta alla ragnatela di quella “nostrana” già in vigore) si sono purtroppo verificate. L'uscita dalla moneta unica da parte di uno o più paesi d'Eurolandia è una strada molto costosa, il cui onere viene aggravato dalla recessione degli ultimi tempi. Per questo motivo, da un lato, la Germania e altri paesi cercano di attivare la cintura di difesa definita il 9-10 maggio scorso (sulla scia della crisi greca); da un altro lato, proprio alcuni tra gli stati in maggiore difficoltà (oggi l'Irlanda) resistono ai finanziamenti del resto dell'Eurogruppo per il timore di essere considerati i “paria” del club e per il tremore delle reazioni interne alle drastiche misure di risanamento connesse agli aiuti.

    Una valutazione approssimativa del costo dell'uscita dal Club (la provocazione di Savona) può essere effettuata per analogia con quello pagato da altri paesi: il più significativo è il crollo dell'area della sterlina nel novembre 1967, seguìto poco dopo da quello dell'unione monetaria tra gli stati della Federazione malese e Singapore e cinque anni più tardi dalla East African Common Service. Allora il costo a breve termine venne valutato tra due e cinque punti percentuali del pil. Ove l'Italia volesse scegliere questa ipotesi o vi fosse costretta, il costo si aggiungerebbe a una recessione che ha comportato un calo di sei punti percentuali di pil dopo oltre dieci anni di crescita zero. Il percorso diventerebbe meno costoso in caso di un riassetto dell'Unione monetaria a ragione dello smottamento in corso, di cui la situazione dell'Irlanda oggi, della Grecia ieri e del Portogallo o della Spagna forse domani, sono sintomi eloquenti.

    Tale smottamento viene analizzato da un lavoro ancora in progress di Francesco Giavazzi e Luigi Spaventa in cui si prende lo spunto dall'accumularsi di disavanzi con l'estero di alcuni paesi dell'euro e di saldi attivi in altri. Tale divergenza riflette non solo differenze crescenti di produttività tra le economie dell'area, ma anche di credito totale interno (innescato dai deficit con l'estero), e, quindi, d'inflazione “nascosta”. Il differente valore dell'euro in varie parti dell'Unione monetaria è comunque dimostrato dall'ampliarsi dello spread. Giavazzi e Spaventa auspicano che le nuove agenzie europee di regolazione riescano a porre ordine mentre paventano, a ragione, la confusione aggiuntiva che provocherebbe la burocratica scoreboard (una pagella colma di indicatori anche di dubbia validità) proposta dalla Commissione Ue per premiare, o sanzionare, i governi degli stati dell'Unione monetaria. L'esito complessivo non potrebbe non essere una revisione dell'unione monetaria con una rinegoziazione delle parità centrali sottostanti l'euro (quanto un euro spagnolo o greco vale rispetto all'euro tedesco). Ne risulterebbe, su scala europea, un sistema analogo a quello di Bretton Woods sempre che se ne affidasse il funzionamento a una Bce riformata.