Cronache da Milano

La dirigenza del Pd si dimette, mentre Pisapia festeggia

Sandro Fusina

Credo che abbia colto una luce di incredulità nel mio sguardo. Infatti si sente in dovere di precisare… Quando parlava della decisione di non occuparsi per un po' di politica, intendeva di politica nelle istituzioni, non della cosiddetta politica di base, nel sociale. Giuliano Pisapia, avvocato penalista alla Corte di cassazione, già presidente della commissione Giustizia della Camera, dove era stato eletto nel 1996, ha vinto le primarie del Pd per la corsa a sindaco di Milano.

Leggi le interviste agli altri candidati: Onida e Boeri.

    Il gruppo dirigente provinciale e cittadino del Pd di Milano, dopo la sconfitta alle primarie del candidato Stefano Boeri, ha deciso di rimettere il mandato. Il segretario provinciale, Roberto Cordelli, nel corso di una conferenza stampa ha detto: "Ci assumiamo la responsabilità politica. Ci siamo scontrati con alcuni pregiudizi e stravolgimenti del senso delle primarie che ad un certo punto sono diventate come un test pro o contro il Pd". Cordelli ha quindi spiegato che il Pd sosterrà senza indugio Giuliano Pisapia ma che in questa settimana all'interno del partito si aprirà una discussione per capire cosa è successo esattamente.

    Credo che abbia colto una luce di incredulità nel mio sguardo. Infatti si sente in dovere di precisare… Quando parlava della decisione di non occuparsi per un po' di politica, intendeva di politica nelle istituzioni, non della cosiddetta politica di base, nel sociale. Per Giuliano Pisapia, avvocato penalista alla Corte di cassazione, già presidente della commissione Giustizia della Camera, dove era stato eletto nel 1996 come indipendente nelle liste di Rifondazione, e presidente del comitato “carceri”, sempre della Camera, dove era ritornato con le elezioni del 2001, l'impegno sociale, se non è consustanziale alle fibre nervose, è un comportamento contratto negli anni del liceo e mai abbandonato.

    Aveva deciso di abbandonare per un po' la politica istituzionale, ma poi è rimasto impigliato letteralmente nella rete, o meglio nella ragnatela, nel Web. Qualcuno gli ha fatto uno scherzo. A sua insaputa lo ha proposto come sindaco di Milano su Facebook o un'altra diavoleria del genere. Qualcun altro, conoscendo la sua estraneità al mezzo, si è sentito in dovere di avvisarlo non solo di quella stramba iniziativa di uno sconosciuto, ma anche del fatto che molti altri sconosciuti e qualche conoscente stavano rispondendo con entusiasmo all'iniziativa. Giuliano, con il nome di battesimo e con il tu si riferiscono a lui i suoi sostenitori, si era trovato costretto a rinunciare al congedo sabbatico dalla politica istituzionale, per inchinarsi al richiamo della voce del popolo, sia pure il popolo della rete.

    Per non confondermi con i suoi sostenitori mi riferirò a lui chiamandolo Pisapia, o avvocato, o avvocato Pisapia. Non è bene che tra intervistato e intervistatore ci sia troppa confidenza. La chiacchierata avviene intorno all'ora di pranzo nel suo ampio studio a un piano alto di un palazzo del Dopoguerra, in una delle più stralunate tra le zone centrali di Milano. Si chiamava Porta Tosa un tempo, una delle porte nella cerchia delle mura spagnole. Si chiamava così non per via della tosa, che in milanese significa ragazza, ma per via della Tonsa, della rasata, di un bassorilievo in pietra che rappresentava una signorina che con la gonna sollevata radeva le pudenda. La porta continuò a chiamarsi Tosa anche dopo che san Carlo in persona la fece scalpellare dalla porta per proteggere la moralità dei milanesi. Cambiò il nome in Porta Vittoria solo quando per celebrare la vittoria sugli austriaci venne commissionato allo scultore un possente obelisco circondato alla base da un turbinio orgiastico di allegorie più o meno discinte. Dominano il Corso di Porta Vittoria due immani palazzi nel gusto del classicismo monumentale del fascismo, il palazzo delle Corporazioni, oggi sede della Camera del lavoro, e il palazzo di Giustizia di Marcello Piacentini, l'architetto più prolifico del regime. Più della Camera del lavoro è il palazzo di Giustizia a determinare l'atmosfera della zona. Nelle tavole calde fanno colazione avvocati e segretarie, nella bancarella di fronte dall'altra parte della strada il libraio mette in bella evidenza vecchi o antichi libri di diritto. I lombardi nutrono un vecchio sospetto per la giustizia. Non solo per i giudici, ma per tutto il sistema, che comprende gli avvocati. Conosco Pisapia e so che è un avvocato speciale, pronto ad adoperarsi per una buona causa, ma se si è cresciuti con un nonno che appendeva per casa caricature di Honoré Daumier delle Gens de justice, è difficile liberarsi del sospetto.

    Da buon penalista, Pisapia sa portare la conversazione dove vuole lui. Gli chiedo di illustrarmi la sua visione di città, della sua città, della mia città. Per accontentarmi ci vorrebbe poco, uno straccio di visione di città rosea e decente la può inventare chiunque. Ma Pisapia ha urgenza di comunicarmi la sua esperienza. Attacca con la clausola di ogni tema in classe su una gita con i genitori: tornammo stanchi, ma felici. Mi racconta di questa sua campagna per le primarie alla candidatura a sindaco di Milano per il centrosinistra come di un'esperienza massacrante fisicamente, ma elettrizzante dal punto punto di vista intellettuale. “Ho scoperto cose che non sapevo, che non sospettavo”, è il ritornello. Ha la stessa eccitazione, la stessa vertigine inattesa di chi torna a bere un bicchiere di vino dopo un lungo periodo di astinenza. Non sa se arriverà a essere il candidato sindaco del centrosinistra, ma è convinto di avere comunque già vinto, perché ha fatto un'esperienza entusiasmante. Ha scoperto, in primo luogo, la voglia dei giovani di tornare a fare politica, di tornare a occuparsi in modo diretto del proprio destino. Ha partecipato a decine di incontri, anche due o tre al giorno. Spesso in luoghi e spazi che non conosceva neppure, invitato da gruppi e associazioni di cui non sospettava l'esistenza. L'ultimo ricordo che aveva di quel tipo di incontri erano sale e salette deserte, dove tutti gli intervenuti potevano trovare posto nella prima fila sotto al tavolo della presidenza.

    Erano esperienze mortificanti che mettevano alla prova l'ostinazione di continuare a fare politica. Sembrava una china solo in discesa, impossibile da risalire. Invece all'improvviso, senza che potesse prevederlo, come se la lunga pratica politica non gli avesse lasciato alcuno strumento per rilevare la temperatura dell'ambiente, ha trovato non solo le sale piene, strapiene, ma anche un'inaspettata vitalità e una insospettabile determinazione dei giovani a tornare a impegnarsi. Ha conosciuto gente che non votava più o che non aveva mai votato decisa questa volta a votare. Saranno le primarie a smentire o a confermare le sue sensazioni. Intanto ha scoperto che in città, nella grande città, nella città metropolitana che non esiste ancora, ci sono due grandi ricchezze che devono essere messe in relazione. C'è una grande quantità di esperienze associative, a volte microscopiche, intese molte alla solidarietà, ma altre anche a sviluppare la creatività o l'impresa, che non aspettano che le condizioni per espandersi, interagire. C'è una grande quantità di spazi pubblici, utilizzati per niente o malamente che potrebbero diventare il terreno di sviluppo e di coltura di quelle esperienze: sale parrocchiali o comunali, cinematografiche o teatrali e vecchi laboratori artigianali. Ci sono migliaia di alloggi popolari murati che potrebbero essere ripristinati con poche migliaia di euro. C'è una quantità di piccoli interventi che costerebbero nulla ma che contribuirebbero a migliorare la qualità della vita. Roba minima, come diceva una vecchia canzone di Enzo Jannacci, soprattutto di fronte alla grandezza del Gpt, del piano di governo territoriale dell'attuale giunta. Roba così minima che potrebbe permettersela persino una città con le casse misere. Parola di avvocato.

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