Vendere al cubo

Ernesto Felli e Giovanni Tria

Sull'esortazione cubica (“vendere, vendere, vendere”) che Giuliano Ferrara ha rivolto lunedì 18 ottobre al nostro ministro dell'Economia, ci sono da dire un po' di cose. Anche se a sostegno di una politica di gestione più attiva del patrimonio pubblico ci sono molte buone ragioni di principio, che rendono di per sé condivisibile quell'esortazione, gli aspetti quantitativi hanno la loro importanza. Anche per capire l'eventuale rilevanza pratica dell'auspicato cambio di policy.

    Sull'esortazione cubica (“vendere, vendere, vendere”) che Giuliano Ferrara ha rivolto lunedì 18 ottobre al nostro ministro dell'Economia, ci sono da dire un po' di cose. Anche se a sostegno di una politica di gestione più attiva del patrimonio pubblico ci sono molte buone ragioni di principio, che rendono di per sé condivisibile quell'esortazione, gli aspetti quantitativi hanno la loro importanza. Anche per capire l'eventuale rilevanza pratica dell'auspicato cambio di policy. Se il patrimonio immobiliare complessivo dello stato italiano (centrale e periferico) fosse davvero il 130 per cento del debito pubblico, lo si potrebbe usare per allentare in modo tangibile la morsa del debito pubblico che distorce l'allocazione delle risorse in questo paese. Sfortunatamente, il patrimonio immobiliare complessivo pubblico è di una grandezza molto minore, e conseguentemente è molto più piccola la parte di esso eventualmente alienabile.

    Secondo un “conto sperimentale” del Tesoro effettuato nel 2007 e riferito al 2004, il patrimonio immobiliare dello stato ammonterebbe a 203 miliardi. Di tale consistenza, la parte che potrebbe essere messa sul mercato sarebbe pari, al massimo, a un quinto, ossia una quarantina di miliardi. Non un'inezia – tra 2 e 3 punti percentuali di pil – ma in ogni caso poco più della metà degli interessi passivi che gravano sul debito pubblico. Tuttavia i beni materiali, di cui quelli immobiliari sono una parte, sono a loro volta solo una parte del patrimonio pubblico complessivo. Se consideriamo anche la parte “intangibile” di tale patrimonio (attività finanziarie e partecipazioni), e tutti gli altri asset non finanziari in mano pubblica, la dimensione di questo stock aumenta. Di quanto? Anche se può apparire sorprendente, la risposta non è immediata. Circolano stime di vario genere e attendibilità, come i lettori del Foglio hanno potuto osservare leggendo il fall-out dell'editoriale dell'Elefantino. Tuttavia, compulsando il sito del Tesoro, si scopre un interessante documento chiamato “Conto Patrimoniale e Prospetto dei Flussi delle Amministrazioni pubbliche”. Vi si trova una risposta, apparentemente, esauriente.

    Data la fonte, la risposta dovrebbe essere anche attendibile e tale la consideriamo. Ma è la data a cui si riferiscono le stime contenute nel documento che è da annotare: agosto 2004. E non tanto per la relativa “anzianità” di questi dati (che nel corso degli ultimi anni non dovrebbero avere subito cambiamenti radicali), quanto perché si riferiscono a un periodo in cui lo stesso Tremonti sembrava prendere molto più sul serio proprio quella sua idea che oggi Giuliano Ferrara gli rilancia. Era infatti l'epoca di Patrimonio spa, delle cartolarizzazioni e così via. In ogni caso, all'epoca il Tesoro stimava che il rapporto tra attività pubbliche totali e pil fosse pari al 137 per cento. Il che implica, usando il dato Istat sul pil, un patrimonio pubblico di oltre 1,8 trilioni, superiore allo stock del debito pubblico dell'epoca (1,4 trilioni). Di più, il rapporto patrimonio/debito sarebbe pari al 129 per cento. E così siamo tornati al quel “numero” (130 per cento) da cui eravamo partiti. Numeri che, come ha enunciato Tremonti nei giorni scorsi, hanno la priorità sulla politica. Quindi la rilevanza pratica del cambio di policy invocato da questo giornale non può essere messa in discussione. Naturalmente, non è che il patrimonio pubblico possa essere messo tutto sul mercato. Né che convenga farlo sempre e a qualsiasi condizione. Ma, per una gestione più attiva del patrimonio pubblico, la “ciccia”, per così dire, c'è.

    C'è anche un'altra notazione che questi numeri suggeriscono. Se, in analogia con le pratiche di finanza aziendale, la solvibilità di un debitore fosse misurata da parametri patrimoniali, il debito pubblico italiano, che oggi ammonta al 118 per cento del pil, sarebbe “solo” del 77 per cento se rapportato al patrimonio pubblico. Ciò posto, ci sono aspetti problematici. Sui principi, c'è poco da aggiungere a quanto scritto da Ferrara. D'altra parte questo Diario è fatto per metà da un economista che è impulsivamente mercatista e per l'altra da un economista che lo è riflessivamente, e quindi il tema delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni ha occupato spesso la rubrica. Tuttavia, il passaggio dai principi alla loro applicazione concreta non è senza difficoltà. E sono le specificità di ogni singola operazione che rendono la partita vantaggiosa oppure no.

    Facciamo un esempio, le frequenze oggi occupate dalle emittenti locali potrebbero essere messe all'asta. Comunque le si usino, le risorse ricavate rappresenterebbero un dividendo. Sulla cui entità, però, si dovrebbero calcolare gli effetti che ne deriverebbero sul grado di concorrenza nel mercato delle tlc. Problematiche simili sorgerebbero in un'eventuale privatizzazione della Rai. In conclusione, la riduzione dell'invadenza e dell'inefficienza della sfera pubblica è ottima cosa. Privatizzazioni e liberalizzazioni vanno in questa direzione. Ma bisogna guardare con attenzione che questo salutare ridimensionamento si traduca davvero in un aumento del mercato, inteso come aumento della concorrenza e del dinamismo.