Il banchiere e il Colonnello

Stefano Cingolani

Eric Daniels, amministratore delegato del Lloyds Banking Group, banca numero 42 al mondo, ha annunciato le sue dimissioni. Ma lascerà la poltrona tra un anno, nel frattempo verrà scelto il successore. Daniels era sotto attacco, con la sconfitta di Gordon Brown aveva perso protezioni politiche e la Banca d'Inghilterra lo voleva fuori, scrive il Wall Street Journal. Per i giornali è un'importante notizia economica e finanziaria. Così funziona Londra. Sempre ieri ha gettato la spugna Alessandro Profumo.

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    Eric Daniels, amministratore delegato del Lloyds Banking Group, banca numero 42 al mondo, ha annunciato le sue dimissioni. Ma lascerà la poltrona tra un anno, nel frattempo verrà scelto il successore. Daniels era sotto attacco, con la sconfitta di Gordon Brown aveva perso protezioni politiche e la Banca d'Inghilterra lo voleva fuori, scrive il Wall Street Journal. Per i giornali è un'importante notizia economica e finanziaria. Così funziona Londra. Sempre ieri ha gettato la spugna Alessandro Profumo, ad di Unicredit, banca numero 102 nella lista di Fortune, dopo mesi di tiro incrociato e un'accelerazione settembrina. Così funziona a Milano. Ma qui dalla cronaca entriamo direttamente nell'epos tragico. Chi l'ha fatto fuori? La Lega, le fondazioni, gli azionisti tedeschi, magari complici gli americani (con il fondo BlackRock), le eterne beghe romane, il governo manovrando Gheddafi?

    Profumo, uno dei più brillanti banchieri della sua generazione,
    l'alfiere del mercato che sfida i poteri forti, la politica, l'establishment mediatico-finanziario. Non c'è dubbio, ha lanciato i suoi dadi con audacia, seppur non sempre con sagacia. Ma quel che si legge su autorevoli giornali, alla vigilia del lungo addio, alimenta una leggenda. “Sta combattendo una guerra di indipendenza – secondo Orazio Carabini sul Sole 24 Ore – Se perde, questo conflitto potrebbe avere un esito preoccupante, con la politica a tentare subito di riconquistare zone franche di potere nel sistema bancario italiano”. Per Massimo Giannini di Repubblica, Profumo è “l'ultimo dei mohicani” vittima di “un fuoco amico e trasversale di grandi azionisti della banca”. I “congiurati” sono: “Il numero uno della Fondazione Caritorino, Fabrizio Palenzona, il numero uno della Fondazione Cariverona, Paolo Biasi, il presidente di Unicredit Dieter Rampl, i rappresentanti di Allianz e, probabilmente, di Mediobanca”. Insomma, non rimane più nessuno. Anzi, qualcuno c'è ancora e Giannini ci arriva con sapiente climax: “Palenzona è la pedina strategica nella filiera Luigi Bisignani-Cesare Geronzi-Gianni Letta, che da mesi si muove per blindare il sistema dei poteri economici e finanziari attorno al presidente del Consiglio. Biasi è il nuovo pivot creditizio della Lega, gli uomini di Allianz e Mediobanca rispondono, probabilmente, a Geronzi”.

    La ricostruzione,
    che ha il vantaggio di evitare metafisiche battaglie tra mercato e politica, sfugge a un quesito: e i libici? Sono stati dei “sicari”, degli utili idioti, degli avventuristi che scalano Unicredit alla cieca? Erano diventati strumenti ciechi d'occhiuta rapina, docili e succubi in mano all'uomo che li usava perché voleva farsi re, rispondono i nemici di Profumo. Ma alla fine non l'hanno nemmeno difeso. I finanzieri del Colonnello arrivano in Unicredit attraverso Capitalia, in quel primo ottobre 2007. Nella banca romana sono stati “i migliori soci che io abbia avuto”, ha dichiarato Geronzi il 25 agosto al Meeting di Cl a Rimini. Erano entrati con il 5 per cento dopo un incontro tra lo stesso banchiere e Gheddafi nel 1997. Con la fusione la quota scende. Quando, poi, nell'autunno 2008, Profumo decide di lanciare un aumento di capitale per rafforzare Unicredit, duramente colpita dalla speculazione e dalle sue debolezze interne, i libici si fanno avanti mentre la Fondazione Cariverona si tira indietro. Dunque, se di conflitto tra padani e arabi vogliamo parlare, allora bisogna risalire almeno a due anni fa. Non ha niente a che fare con gli ultimi acquisti, dei quali, in ogni caso, il presidente Rampl era informato dagli stessi acquirenti e dal fatto che, per salire dal 5 al 7 per cento, una parte è passata attraverso i broker della stessa banca. Tripoli, del resto, non entra alla chetichella nel capitale di banche e industrie strategiche. Tripoli dialoga con Roma. Da un secolo. Certamente dall'operazione Fiat del 1976. Tanto più oggi che il riciclaggio dei petrodollari nel sistema economico italiano è una operazione dai chiari risvolti geopolitici e di sicurezza. Altrimenti perché gli americani drizzerebbero tanto le antenne?

    Che la Lega sia contraria, che Bossi voglia le banche, che Flavio Tosi sindaco di Verona guidi la riscossa in Unicredit come una nuova Lepanto, è evidente. Ma con quale risultato? Le fondazioni sono già molto esposte ed è difficile che possano aumentare il loro peso. Sono irritate, e giustamente, perché i loro investimenti non rendono più come un tempo. Nel 2007 la banca aveva utili per 6,5 miliardi, l'anno scorso ha chiuso a 1,7 e il primo semestre 2010 registra 669 milioni. Mentre le concorrenti, colpite duramente dalla crisi, sono tornate a macinare profitti. Non solo. I prossimi anni saranno magri. Per aumentare il capitale le banche hanno solo due strade: non distribuire i dividendi e aprirsi a nuovi soci. Forse faranno un po' dell'uno un po' dell'altro, riducendo così il peso di questi ircocervi inventati da Amato e Ciampi per non privatizzare pienamente il sistema. Cariverona si è ritirata da sola sotto quota 5 per cento. Quanto a Torino, impiega già un terzo delle proprie risorse in Unicredit, quota ai limiti della legge. Dunque, in che modo le due nemiche di Profumo potranno ottenere più potere dal suo successore?

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