La coscienza beata

Andrea Monda

Mentre a Birmingham il Papa beatificava John Henry Newman, dall'altra parte dell'oceano padre Michael Paul Gallagher, gesuita irlandese e uno dei massimi studiosi viventi di Newman, era in viaggio verso New York per tenere una conferenza proprio sul neo beato inglese. Invitato dalla Gregorian Foundation, il decano emerito di teologia dell'Università Gregoriana non si è potuto esimere.

Leggi la biografia di John Henry Newman.

    Mentre a Birmingham il Papa beatificava John Henry Newman, dall'altra parte dell'oceano padre Michael Paul Gallagher, gesuita irlandese e uno dei massimi studiosi viventi di Newman, era in viaggio verso New York per tenere una conferenza proprio sul neo beato inglese. Invitato dalla Gregorian Foundation, il decano emerito di teologia dell'Università Gregoriana non si è potuto esimere. Ma è quasi dispiaciuto, il padre gesuita, mentre racconta nella sua nuova stanza di rettore del Collegio Bellarmino in via del Seminario, o almeno c'è un pizzico di rammarico: “Avrei preferito vedermi dal vivo o almeno in televisione la messa del Santo Padre, e non vedo l'ora di leggere la sua omelia, sarà un piccolo capolavoro”. Per padre Gallagher quella di domenica è infatti la cronaca di una beatificazione annunciata, un appuntamento da non perdere, un momento saliente del pontificato di Benedetto XVI.

    Ma un altro motivo di maggiore rammarico, e anche di irritazione, per il teologo irlandese nasce dallo stupore che osserva in molti di fronte a questa beatificazione, come se i due, Ratzinger e Newman, fossero “incompatibili”. Per padre Gallagher c'è invece un filo rosso che collega e stringe con forza questi due grandi spiriti cristiani che per molte cose si assomigliano”. Non a caso Gallagher ha di recente pubblicato un libro, ancora solo in inglese, intitolato e dedicato a “Dieci esploratori della fede: da Newman a Ratzinger”: “C'è un nesso strettissimo tra i due, che si può facilmente cogliere, ma solo a patto di rinunciare alle etichette, agli stereotipi e alla pigrizia mentale”. Gli propongo una battuta: “Si può dire che Newman è più tedesco e Ratzinger più inglese di quanto si immagini?”. Ma il padre irlandese non ci si sofferma, è tutto preso dalla pars destruens del suo discorso per cui una prima etichetta da interpretare bene e sfumare è quella di Newman “teologo della coscienza”, il cardinale del brindisi che va fatto prima alla coscienza e solo dopo al Papa, come recita la celebre battuta contenuta nella lettera al Duca di Norfolk. Se Newman fosse ridotto a questo non si spiegherebbe, secondo Gallagher, il perché di un Papa come Benedetto XVI che si muove per andare in Inghilterra apposta per beatificarlo (contravvenendo a una regola da lui stesso emanata, relativa al rito delle beatificazioni non più di prerogativa papale). Ma per fortuna Newman è molto di più.

    “Quella battuta è l'ultima battuta,
    conclusiva del quinto capitolo della lettera in risposta al premier britannico dell'epoca Gladstone; si colloca quindi al termine di un lungo testo ed è espressione di quel talento di Newman che è la forza retorica, il suo gusto per la provocazione, per cui se si legge solo quella battuta estrapolandola e assolutizzandola non si comprende il significato del suo intero pensiero. Scrive Newman: ‘Se fossi obbligato a introdurre la religione nei brindisi dopo un pranzo (il che in verità non mi sembra la cosa migliore), brinderò, se volete, al Papa, tuttavia prima alla Coscienza, poi al Papa'. Ora, a parte il suo consueto humour, molto inglese, il punto è che qui sembra chiaro che Newman affermi la primazia della coscienza. Ma di quale coscienza sta parlando? Tutto il resto del capitolo risponde a questa domanda. Per Newman ci sono due modi, tra loro contrastanti, di intendere la coscienza: un modo religioso e un modo laico. Nel primo modo la coscienza è la voce di Dio nel cuore dell'uomo di ogni epoca, di ogni luogo, di ogni cultura. E' la rivelazione prima della Rivelazione. Questa coscienza, questa sensibilità è cruciale, è il frutto della Grazia, anche non riconosciuta, dentro ogni persona. E se è così, il Papa è semplicemente il servo di Dio, il servo dell'azione di Dio nelle persone. L'autorità del Papa non è autonoma, c'è per servire il Vangelo, è facile allora comprendere la priorità di questa coscienza. Ma se prendiamo l'altro tipo di coscienza, vista come ‘egoismo lungimirante', come ‘il desiderio di essere coerenti con se stessi', allora cambia tutto. Se la coscienza è autonoma, separata dalla fede e sta lì solo per vantare i suoi diritti, è qualcosa che si riduce a ‘the right of self-will' (la traduzione ufficiale non è perfetta: non direi infatti il diritto di agire a proprio piacimento ma, più letteralmente, il diritto all'auto-volontà); ebbene questa visione laica della coscienza non è quella che interessa a Newman, è una visione superficiale e magari molto diffusa, ma contro la quale Newman predica. Noi pensiamo alla coscienza come a una voce, ma per Newman è piuttosto l'eco di una voce, che in fondo è la voce timida, ‘sotto un velo', di Dio in noi. In sintesi, senza apprezzare ciò che Newman chiama il ‘senso alto' della coscienza, si corre il rischio di banalizzare la sua provocazione e di cadere nella posizione opposta alla sua, una versione di coscienza contraddistinta dalla dimenticanza di Dio”.

    C'è grande passione nel timbro della voce di Gallagher quanto cita un testo per lui illuminante tratto dal romanzo di Newman, “Callista” del 1855, “il suo romanzo migliore”, che Newman scrisse in parte attraversando l'Irish Sea viaggiando di continuo tra Birmingham e Dublino. E' la storia di Callista, una giovane filosofa greca che si convertirà al cristianesimo, ma prima ancora c'è un dialogo straordinario tra lei e un altro filosofo greco, molto sofisticato, molto “contemporaneo”, il quale non crede in Dio ma solo che ci sia Qualcosa, crede nel Mistero, in altre parole una figura di vaghezza spirituale. Callista invece descrive per lui un'esperienza molto più concreta, autentica e trasformatrice: “Io sento questo Dio nel mio cuore. Mi sento alla Sua presenza. Egli mi dice, ‘fa questo; non fare quello'. Tu puoi dirmi che questo dettato è semplicemente la legge della mia natura… No, è l'eco di una persona che mi parla… Esso contiene in sé la prova della sua origine divina… Io credo in ciò che è più di un semplice ‘qualcosa'. Io credo in una cosa che per me è più reale del sole, della luna, delle stelle, di questa bella terra e della voce degli amici. Tu dirai, ‘ma chi è. Ti ha mai detto qualcosa di Sé?'… No, purtroppo. Ma… un'eco richiede una voce; una voce qualcuno che parli. Questa persona che parla, io la amo e la temo”.

    La creatività letteraria di Newman, secondo Gallagher, riesce a mostrare in modo efficacissimo un'evocazione precisa della soglia tra la religione naturale e la religione rivelata, di cui parlerà ancora, quindici anni dopo, nella “Grammatica dell'Assenso”: “In questo brano narrativo troviamo il ruolo profondo e preparativo della coscienza secondo Newman il quale, non dimentichiamocelo, aveva avuto la sua formazione teologica al di fuori del cattolicesimo e quindi era poco avvezzo alle prove di Dio che partono dall'ordine del mondo. Per temperamento e per cultura religiosa ereditata, egli preferisce un altro cammino verso la fede, un cammino dove l'interiorità della coscienza come esperienza universale e personale abbia un ruolo centrale”. 
    Viene alla mente una citazione del francese Henri Brémond che definisce Newman un mistico per il quale “torna più facile ammettere l'esistenza di Dio che non la stessa realtà del mondo” e un “geometra, e al modo dello stesso Hume, col proprio gesto deciso dissipa le ciarle delle controversie e pone problemi tanto precisi da far tremare”. Il rettore del Bellarmino resta meditativo: “Questo è un punto molto delicato”, osserva padre Gallagher: “Nella sua Apologia Newman dice ‘se non fosse per questa voce che parla chiaramente nella mia coscienza e nel mio cuore, quando guardassi il mondo io diventerei ateo'. Qui egli prende le distanze dalla teologia cattolica dominante dell'epoca: la prova di Dio dall'osservazione del mondo. Non ne è convinto per niente, questo ‘oggettivismo' lascia freddo il suo temperamento introspettivo che lo spinge a parlare bene anche dell'egoismo nel senso che bisogna ascoltare l'ego, ciò che parla dentro di sé. Insomma, Newman è poco tomista; proprio come Ratzinger, il quale fa giustamente qualche inchino verso l'Aquinate, ma non c'è amore come per Agostino”.

    E come un innamorato anche Gallagher parla di Newman, non risparmiandogli qualche critica: “C'è un aspetto che non mi piace tanto di Newman, e che sembra distante dalla nostra sensibilità di oggi; mi riferisco al Newman giovane e ai suoi primi sermoni in cui sottolinea troppo marcatamente l'aspetto di giudizio negativo della coscienza per cui essa sta lì sempre a incolpare. Un'eccessiva austerità e severità che solo col tempo si mitigherà, questo aspetto (frutto forse del suo periodo di influsso calvinista) sparirà quasi del tutto nel Newman maturo. Eppure da giovane e leader del Movimento di Oxford egli era ben consapevole di questa sua severità al punto che quando un amico anglicano lo ha rimproverato in tal senso ha risposto: ‘La nostra cultura ha bisogno di un mercoledì delle Ceneri permanente. Oggi c'è bisogno di questo'. E' la sua lettura della superficialità della cultura inglese dell'epoca. Oggi ci appare forse una visione della coscienza un po' tendente al pessimismo. Ma questo è il Newman giovane”. “E forse”, aggiungo io, “c'è qualcosa di questo in Papa Benedetto XVI, nel suo aspetto ‘penitenziale', il suo insistere sulla necessità di vivere ‘in ginocchio', come credenti e anche come teologi”.

    Padre Gallagher, ripulita l'immagine di Newman, vuole togliere anche certi stereotipi dalla figura di Joseph Ratzinger. “Anche questo Papa è il Papa della coscienza – come intesa da Newman – e non solo il truce nemico del soggettivismo e del relativismo. E' necessario sapere un po' della sua biografia per comprenderlo. Ratzinger ha conosciuto e ammirato Newman sin dalla giovinezza, quando era studente in seminario, ancora prima della sua ordinazione. Tre nomi di tre docenti che hanno avuto un'influenza decisiva sul pensiero del giovane teologo bavarese: quello di Alfred Läpple che teneva un corso su ‘l'individuo nella chiesa' partendo da un approccio personalista in Newman; quello di Gottlieb Söhngen specialista della Grammatica dell'Assenso e quello di Heinrich Fries con il suo corso sulla teoria di Newman sullo sviluppo del dogma. Sin da giovane Ratzinger quindi conosce e apprezza il pensiero di Newman e più tardi ha sempre espresso questa sua grande ammirazione, rivolgendogli forse la lode, per lui, più alta possibile: ‘Nessun teologo, dai tempi di Agostino, ha preso sul serio, come Newman, il soggetto'. Questo non è soggettivismo. Questo è mettere a fuoco il dramma dell'humanum, che include la ricerca della verità, concentrarsi sulla coscienza nel senso profondo. Ciò che Ratzinger ama di Newman è ciò che Newman fa per tutta la sua vita: approfondire il discorso, contro ogni superficialità, rendere giustizia al dramma umano nella ricerca della fede. Che cos'è il relativismo se non il dominio del ‘right of self-will', l'egoismo lungimirante di cui parla Newman?  Cioè la chiusura dell'io, che porta al relativismo conoscitivo e al relativismo etico. Le espressioni di Newman forse sono più letterarie, ma ci troviamo nella stessa zona. Questo personalismo, questa enfasi sul soggetto e sull'interiorità, è a un tempo sia Ratzinger che Newman, o se vogliamo, Ratzinger sotto l'influsso di Newman. Spesso i media non hanno colto questa dimensione però fondamentale dell'attuale pontefice per cui non c'è nessuna sorpresa in questa beatificazione”.
    Per Gallagher non solo Newman getta una luce chiarificatrice su Ratzinger ma è vero anche il contrario: “Ratzinger, che ha fatto negli anni Novanta almeno due discorsi importanti su Newman, coglie una cosa che già c'è in Newman ma con una nettezza straordinaria: il legame, forte, intrinseco, tra coscienza e verità. Newman ha scritto, già quando aveva ventitré anni, ‘Credo veramente di avere un profondo desiderio della verità, e l'abbraccerei dovunque la incontrassi'. Questo è l'altro lato di Newman, che Ratzinger ha sempre messo in luce e fatto suo: non solo la questione sulla coscienza (e i due modi diversi di intenderla), ma anche il legame indissolubile tra coscienza e verità”.

    Se Ratzinger, alla luce di Newman,
    risulta più inglese e più morbido, è anche vero che Newman può rivelarsi più tedesco e tagliente di quanto si possa immaginare considerando la sua “gentilezza” che lo porta a comporre la celebre poesia-preghiera “Lead me, Gentle Light”. Ad esempio Newman ha litigato bruscamente “con ben due primi ministri britannici” ricorda padre Gallagher: “Con Gladstone, sul tema della coscienza, come è noto, ma anche con Robert Peel. Conosceva bene tutti e due, eppure con garbo e fermezza ha litigato con entrambi.  Nel 1841 con Robert Peel (l'inventore della polizia, in Inghilterra i poliziotti vengono chiamati i ‘peelers') il quale era credente e aveva aperto una nuova biblioteca per gli operai e le fasce più basse della società sostenendo pubblicamente che ‘così queste persone potevano trovare un senso di stupore quasi religioso leggendo le scienze e gli altri libri'. Newman si infuriò; scrisse sette lunghe lettere al Times di Londra, firmandosi Catholicus (quando sarebbe diventato tale solo quattro anni più tardi) in cui ha distrutto l'approccio filosofico di Peel con un feroce tono satirico. A un certo punto afferma che ‘la religione non è questione di stupore, altrimenti dovremmo adorare le ferrovie!'. Uno stupore vago non è la religione; la religione è ‘un messaggio, una storia, una visione', una concretezza. Si scaglia quindi contro il facile ottimismo di Peel dimostrandone tutta la superficialità. La stessa superficialità del filosofo greco di Callista, la stessa superficialità culturale che oggi il Papa critica. Il punto è semmai un altro: ci sono interlocutori laici all'altezza di queste persone che pongono ‘problemi tanto precisi da far tremare?”.

    Quando Newman morì il quotidiano laico Manchester Guardian scrisse di lui che era stato “il più grande maestro della lingua inglese del nostro tempo, e ha reso impossibile alle persone colte respingere la sua religione quale miscuglio di assurdità che non meritano di essere prese in considerazione”. Newman insomma costringe a riflettere sulla fede in maniera più responsabile e pertinente, perché il suo non è un discorso astratto, ma che parla attraverso l'immaginazione direttamente al cuore degli individui. Contro ogni vago spiritualismo, Newman si staglia con il suo humour e pragmatismo molto inglesi; egli si rivolge all'empiria di Locke e di Hume, di sicuro non ha mai letto Kant, e così fa anche Joseph Ratzinger (che pure Kant lo ha letto molto bene). In breve cosa hanno Newman e Ratzinger in comune? Secondo padre Gallagher “tante cose, ma principalmente la passione di rendere esistenzialmente ‘reale' il cammino verso la fede, di allargare la ragione, e di evocare in maniera convincente l'interiorità in attesa di una Parola di Dio”.

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