Supermamma sarai tu

Paola Peduzzi

Avevo giurato mai più. L'avevo detto a mio marito, assertiva: la questione dei figli si chiude qui, sono quasi morta di parto per mettere al mondo Anita, non so più che cosa vuole dire dormire tre ore di fila, devo passare dalla lista della spesa alle rotte delle navi da guerra nel canale di Suez fingendo di capirci qualcosa di entrambe, e poi tu non ci sei mai, i figli si fanno in due, altrimenti me ne torno dai miei.

    Avevo giurato mai più. L'avevo detto a mio marito, assertiva: la questione dei figli si chiude qui, sono quasi morta di parto per mettere al mondo Anita, non so più che cosa vuole dire dormire tre ore di fila, devo passare dalla lista della spesa alle rotte delle navi da guerra nel canale di Suez fingendo di capirci qualcosa di entrambe, e poi tu non ci sei mai, i figli si fanno in due, altrimenti me ne torno dai miei, così almeno alla sera non devo pensare a come cucinarti la solita fettina di carne comprata di corsa al supermercato mentre ascoltavo le lamentele mattutine di un collaboratore.

    Il marito mi guardava docile: amore, si fa come vuoi tu. E io m'illudevo che la smania del secondo figlio sarebbe svanita: del resto, una volta usciti dal tunnel del primo anno di vita di un bambino, non si può desiderare di tornare indietro.
    Mentiva. Quando ho scoperto di essere incinta ho avuto una crisi di nervi, gli gridavo che “non si ingravidano le donne così, a vanvera”, con il solito vizio che ho, e che il mio compagno di scrivania mi rimprovera sempre: prima di sbraitare, non mi chiedo mai dove voglio arrivare. Ci vogliono obiettivi, mi ripete. Non l'ho ascoltato, ho scalciato come un mulo, blaterato accuse irripetibili, pianto, urlato, e da oggi sono in maternità, per la seconda volta in tre anni, una gravidanza ancora più brutta di quell'altra, il che mi fa pensare che al parto, questa volta, ci resterò secca.

    ***

    Al Foglio l'hanno presa bene. Sono rassegnati: le gravidanze in redazione sono diventate una normalità, ci scambiamo libri, vestiti, numeri di telefono di agenzie per tate, consigli sui nomi da dare, gocce contro le nausee. Più che altro sono disarmati. Non si può essere il giornale più pro life del continente e poi prendersela se le ragazze s'impegnano a fare figli piuttosto che a scrivere articoli. Tocca sorridere, festeggiare, portare i pasticcini dopo la riunione, e intanto ignorare la faccenda fino a quando non scatta il permesso di maternità, che la legge – benedetta legge – vuole obbligatorio (ogni tanto, per non sembrare eccessivamente indifferenti, arrivano i complimenti, da mamma sei ancora più bella, la luce negli occhi delle donne incinte è straordinaria, sei luminosa come una dea: lo so che non era vero niente, ma grazie comunque, ho apprezzato moltissimo).

    Per fortuna quella stronza di Rachida Dati è finita com'è finita: ha fatto la splendida, tacchi a spillo con la bambina infagottata al collo a cinque giorni dal parto (cesareo poi, io per un mese non sono riuscita ad alzarmi dal divano), perché lei era la ministra più amata della République, non poteva certo deludere il suo datore di lavoro, c'era la riforma della giustizia da presentare, non vorrai che proprio ora, dopo tanto faticare, qualcuno si prenda meriti non suoi? Adesso è lì che sbadiglia nelle aule del Parlamento europeo, i suoi meriti sono stati messi nell'armadio assieme a tutte le corse fatte per essere sempre fintamente al meglio, e l'unica cosa eccitante che fa è mettere in giro voci sul presunto padre della figlioletta. Ben le sta. (Regola numero uno: mai assecondare il datore di lavoro quando tenta di sfondare i confini tra il lavoro e l'essere mamma, se ne approfitterà, se ne sta già approfittando).

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    Le supermamme mi danno sui nervi, sono inquietanti come i loro racconti di bambini angelici e di capi comprensivi, come il loro sorriso soave stampato in faccia, come la loro litania: “Va tutto a meraviglia, i bimbi stanno benissimo, la tata è perfetta, al lavoro mi danno molta fiducia, e al cinema l'altra sera ho incontrato tizia, che grassa che era, da quando ha partorito non si è più ripresa, non tutte possono fare le mamme”. Ti guardano con gli occhi spalancati se per caso mormori “sono stanca”, si offendono perché tu al cinema non ci vai mai, fissano con disprezzo le occhiaie nere, accavallando le gambe abbronzate. Non hanno mai un problema, ti vendono la favola della mamma felice e in carriera, tutto è possibile, nessuno ne risentirà, vissero per sempre felici e contenti. Poi però, se le ascolti bene, scopri che il trucco c'è, e si vede pure.

    Per sembrare umane, più simili a te, per farti credere che in fondo sono dalla tua parte, insinuano complici: “Poi, scusa, lavorare si deve, non vorrai stare a casa tutto il giorno con i bambini?”, come se l'alternativa alla casa fosse per forza il lavoro, come se una non potesse anche trovarsi qualcosa da fare mentre si fa allegramente mantenere, tipo il parrucchiere un giorno sì e uno no, un libro da leggere al parco in santa pace, il pilates, lo yoga, Beautiful, il fine settimana nel centro benessere in Trentino, la ricerca della stoffa giusta per rivestire il divano in salotto. “Non vorrai stare a casa tutto il giorno con i bambini?”, e l'incantesimo svanisce, capisci che vanno a lavorare per non rimanere in cucina a frullare verdure, per non sottoporsi all'incubo del bagnetto, per non dover raccontare dodici volte di fila la parte di “Biancaneve” in cui la regina si trasforma in vecchina e avvelena la mela. Altro che supermamme. (Regola numero due: non ascoltare il datore di lavoro quando elogia le supermamme, ti sta mandando messaggi subliminali del tipo “vedi che si può fare tutto?”, ignorali).

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    Culi di pietra. Così sono definiti quelli che fanno il mio lavoro. Invisibili, indispensabili, inchiodati alla sedia. Sono quelli che arrivano per primi alla mattina per preparare la riunione e quelli che alla sera vanno via per ultimi (poiché io sono già mamma, posso uscire prima: ho l'impressione che nascesse come una concessione a tempo determinato, ma non ne ho mai discusso con alcuno, né mai lo farò) per controllare le pagine del giornale prima che vadano in stampa. Hanno molte responsabilità, lavorano tanto, devono inventarsi un po' psicologi, un po' letterati e un po' creativi, sono obbligati a sapere tutto, dalla grammatica ai massimi sistemi di geopolitica globale. Non c'è giornalista al mondo che, interrogato, dica di voler fare il culo di pietra: come sfogare altrimenti il proprio narcisismo, tutto raccolto non tanto negli articoli, ma in quella firmetta là sotto, in grassetto, massimo sfoggio di vanità? (A proposito, caro direttore, colgo quest'estrema occasione per rivolgerle un appello, non può dirmi di no, ho gli ormoni sballati, mi metto a piangere facilmente. Mi farò dei nemici, anche tra gli amici che ho al Foglio, ma non importa: perché non torniamo come eravamo, senza le firme, salvo rare eccezioni, stile Economist? Era bellissimo, c'era un'armonia di fondo, di idee e di scrittura, si limitavano i vezzi stilistici, si favoriva lo sguardo sulle cose che accadono più che quello ossessivo su se stessi. Anche l'Economist è diventato autoreferenziale: sul numero di settimana scorsa l'autore della rubrica Bagehot salutava i lettori perché arriverà un suo sostituto, parlava parecchio di sé, ma la firma non c'era. Ci vuole un attimo per sapere chi è, però forse ai lettori non interessa, forse a loro basta leggere un'analisi interessante, un paio di firme di peso, e il resto è solo la nostra mania di farci notare. Per di più, se ancora fosse in vigore quell'antico spirito che ispirò il Foglio, lei, caro direttore, non avrebbe mai potuto commissionarmi la pagina che sto scrivendo, io mi sarei risparmiata questa tortura, i lettori non avrebbero dovuto sorbirsi tale overdose di “it's all about me journalism”, ci avremmo guadagnato tutti quanti).

    A me fare il culo di pietra piace, e non lo dico per consolarmi della vita sciamannata che conduco. Mi piace perché qui dietro, dove nessuno ci vede, dove è così facile nascondersi, nascono le idee, le provocazioni, le intuizioni che poi si trasformano in articoli, in dibattiti, in campagne. Sono più affezionata alle cose che penso piuttosto che a quelle che scrivo. Mi piace più organizzare che essere organizzata. Poi, essendo un giornale piccolo, si fa un po' di tutto, si scrive anche parecchio, senza firma possibilmente, ma tutte quelle colonne fitte fitte di parole qualcuno le dovrà pur riempire. Poiché la direzione è molto liberale, a volte si può persino mettere su carta quello che si pensa, a patto poi di saper stare al gioco: una volta, durante la campagna elettorale per l'Eliseo del 2007, scrissi un articolo in difesa di Ségolène Royal, la dama socialista che di lì a poco si sarebbe rivelata una sòla bestiale (non che Sarkozy stia facendo una figura migliore, comunque). Da quel momento sono diventata quella di sinistra, mezza femminista, che non capisce niente di politica, etichetta che ancora indosso con estrema disinvoltura, aspettando serenamente seduta sulla riva del fiume. (Regola numero tre: mai fidarsi troppo dei gesti di liberalità del tuo datore di lavoro).

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    Culo di pietra e mamma sono parole che non stanno bene assieme. A dire il vero sono ormai certa che non ci possa essere armonia tra il lavoro e la famiglia, non quando i bambini sono piccoli e il mestiere richiede dedizione a tempo pieno. E' una questione matematica del tutto banale: le ore di una giornata sono un tempo finito, se le usi per lavorare non le userai per i tuoi figli, e viceversa. Non si scappa. Dice: ma vale la qualità del tempo, non soltanto la quantità. Cazzate. Mia figlia sa che il sabato e la domenica la mamma è con lei, tutte le mattine si alza e la prima cosa che chiede è: che giorno è oggi? Non accetta risposta diversa da sabato o domenica (la sto convincendo che in realtà il giorno più bello è il venerdì, ma ancora non è sicura). Così come continua a ripetere che vuole andare a lavorare anche lei “all'ufficio”, perché lì sa che ci sono la mamma e il papà e può stare con loro tutto il tempo. Dice: sei massacrata dai sensi di colpa, smettila, se tu sei soddisfatta anche i tuoi figli lo saranno. Cazzate. A loro non interessa che tu sia soddisfatta perché non hai preso un buco sulle sanzioni all'Iran, a loro interessa che tu sia a disposizione ogni volta che hanno bisogno e voglia di te. E' una tirannia, certo, gli spazi vanno divisi con ampio anticipo, certo, ci vuole una definizione precisa di quello che un essere sotto il metro di altezza può pretendere o no dalla sua mamma, certo, ma non c'è rimprovero al mondo (e ne ricevo da ogni parte, ovviamente, ché il passo dalla madre lavoratrice alla madre degenere è brevissimo) che mi toglierà di testa la domanda di fondo: perché mettere al mondo delle creature se poi bisogna affidarle alle tate, parcheggiarle negli asili a età indicibili, vederle soltanto nei ritagli di tempo?

    Per di più devo prendermi la briga di sgridarla, la tata, quando scopro che la creatura mangia dai tre ai quattro gelati al giorno, guarda i cartoni sul divano prima di cena sgranocchiando patatine alle cipolle, non si alza da tavola se non le si dà un ovetto Kinder e ha più mollettine di Hello Kitty che riccioli sulla testa. E' evidente che c'è qualcosa che non torna in questa bufala colossale della conciliazione tra lavoro e famiglia. (Regola numero quattro: i figli andrebbero fatti a vent'anni o poco più, quando le gravidanze non ti stendono, quando le tre ore dormite a notte non lasciano danni permanenti sulla tua psiche, quando non ti poni nemmeno il problema di lasciare il neonato a tua sorella adolescente per andare a bere un aperitivo con le amiche, quando dopo due giorni dal parto hai subito voglia di fare un altro figlio, tanto già non si vede più niente, pancia piatta e tette perfette, quando nessuno ti ha inculcato in testa baggianate sulla carriera, sulla massima aspirazione di essere donne realizzate sul lavoro, mamme presenti, mogli affettuose).

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    Da oggi posso smettere di correre, il mio bimbo in arrivo apprezzerà, considerando che ho spesso temuto di partorire in mezzo alla strada rincorrendo qualche autobus (le fermate degli autobus senza panchina andrebbero abolite, se devo stare in piedi ad aspettare, tanto vale camminare fino a quella successiva, e se nel frattempo passa l'autobus sfido chiunque a trattenere le imprecazioni e mantenere l'andatura da gravida). Non rimpiangerò i rimproveri ininterrotti: datti una calmata, mettiti a riposo, non puoi sgambettare di qui e di là come una formica impazzita, c'è un bambino là dentro. Non devo essere particolarmente convincente quando tento di spiegare che alternative non ce ne sono, che se sei tutto il giorno fuori di casa non puoi che svegliarti e iniziare a correre: porta la bimba all'asilo, vai al supermercato che è finito il latte, pensa alla cena di stasera (e il marito detesta la pasta), passa dal panettiere che ha la focaccia buona, ricordati che c'è la festa del compagno di asilo domani e bisogna prendere un pensierino, leggi le newsletter dei siti stranieri per vedere se c'è un qualche attentato (sì, siamo cinici riempitori di colonne di giornali), chiama il collaboratore che ti aveva cercato ieri per proporti imperdibili articoli prima che si offenda e mandi e-mail lagnose con in copia anche il presidente della Repubblica.

    Il tutto prima di entrare in redazione,
    dove getti i panni della mamma, ti infili quelli da lavoro e ti trasformi in un culo di pietra. Alla sera ti ricambi, nel tragitto verso casa smaltisci le enormi incazzature che ti sei presa durante la giornata, suoni il campanello, la tata ti sorride, mormora “la bambina sembra stanca”, se ne va, la bambina recupera tutte le forze, dice “basta telefono”, prende la bacchetta magica, ti trasforma in un porcellino e ti trascina a nasconderti sotto al letto perché sta arrivando il lupo. (Regola numero cinque: non sprecare tempo a spiegare quel che il tuo interlocutore finge di non capire, rischi di perdere l'autobus).

    ***

    Ho detto ad Anita che da oggi sarà sempre sabato e domenica, la mamma starà a casa, per un po' non andrà più a lavorare. Mi guardava stranita, s'è rimessa a colorare l'album delle principesse. “Ma quindi mercoledì non esiste più?”, ha chiesto. Ho sorriso, le ho spiegato che le cose non stanno esattamente così, ma lei mi ha interrotto quasi subito: “Non preoccuparti, mamma, tanto non mi è mai piaciuto il mercoledì”.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi