Spagna contro Orange, un'antica guerra di malintesi e tattica

Sandro Fusina

Filippo II di Spagna non era come si sa di sangue spagnolo. Ma due cose odiava più di tutto: gli eretici e i sudditi poco rispettosi. Quanto agli eretici diceva che se avesse avuto un figlio sospetto di eresia avrebbe voluto consegnarlo egli stesso alla severità dell'inquisizione e se l'inquisizione fosse stata sguarnita di carnefici avrebbe voluto egli stesso svolgere quell'uffizio.

    Filippo II di Spagna non era come si sa di sangue spagnolo. Ma due cose odiava più di tutto: gli eretici e i sudditi poco rispettosi. Quanto agli eretici diceva che se avesse avuto un figlio sospetto di eresia avrebbe voluto consegnarlo egli stesso alla severità dell'inquisizione e se l'inquisizione fosse stata sguarnita di carnefici avrebbe voluto egli stesso svolgere quell'uffizio. Dei sudditi fiamminghi non capiva come mai non tributassero anche a lui le acclamazioni sincere che avevano accompagnato ogni apparizione in pubblico di suo padre Carlo V. Offeso dalle aperte manifestazioni di scontento dei Paesi Bassi, decise di trasferire la corte dalle Fiandre in Spagna, dove avrebbe trovato sudditi più cortigiani e più sottomessi. Ma prima di abbandonare i Paesi Bassi doveva pensare di affidarne il governo a una persona di cui potesse fidarsi. Tutti si aspettavano che il prescelto fosse Lamoral, conte di Egmont, prode, generoso, popolare, che non aveva avuto oltretutto alcun riconoscimento per le vittorie di san Quintino e di Gravelines contro la Francia. Ma erano proprio i tratti che lo facevano amare dai suoi compatrioti a renderlo inviso a Filippo. La seconda scelta poteva essere il principe Guglielmo d'Orange, conosciuto per le sue capacità politiche che lo indicavano come il governante più adatto a conciliare i contrasti religiosi ed economici che rischiavano di fare esplodere anche la società fiamminga. Ma era proprio la fermezza d'animo a spiacere al sovrano.

    E Filippo di Montmorency, conte di Horn, l'uomo più valoroso e più ricco dei Paesi Bassi, era troppo amato e potente per piacere all'Asburgo. Filippo scelse come governatore una donna, Margherita d'Austria, duchessa di Parma, sua sorellastra in quanto figlia naturale di Carlo V. Il titolo era del tutto decorativo in quanto il vero potere era nelle mani del cancelliere di Antoine Perrenot de Granvelle, grande collezionista d'arte e vescovo di Arras, depositario dei segreti e della confidenza del re.
    Quando poi gli stati, radunati a Bruges per votare un sussidio, gli fecero notare che era una violazione ai loro diritti mantenere un presidio straniero nelle loro fortezze e gli domandarono di mettere in mano ai fiamminghi tutti gli impieghi, Filippo propose a Guglielmo d'Orange di assumere il comando delle truppe spagnole. Il principe rispose che il governo dello stato doveva essere affidato a coloro che lo avevano difeso durante la guerra e che i grandi della nazione non dovevano comandare che truppe nazionali. Si fece così amico Egmont, mentre re Filippo partì sdegnato per la Spagna. Granvelle, abile politico, non si risparmiò. Invece di adoperarsi a rendere meno inviso il suo potere trattando i Grandi con quei riguardi che la nascita e i passati servigi richiedevano, scelse le maniere forti. Non perse occasione per coprire di insulti il principe d'Orange e il conte di Egmont, costringendoli a non intervenire più al Consiglio di stato. Ruppe poi le fila di ogni congiura dei nobili e riempì di sue creature il governo e l'esercito. Grazie all'incapacità della nobiltà di guadagnare l'appoggio del popolo e del clero, avrebbe controllato in modo efficace la provincia se per contenere la diffusione delle idee della riforma non avesse nominato dodici nuovi vescovi.

    Vedendosi diminuire in modo consistente prerogative e prebende, i vecchi vescovi e l'antico clero regolare portarono il popolo a unirsi alle proteste dei nobili. Si assistette così al fenomeno, in quegli anni piuttosto insolito, di un'alleanza tra cattolici e protestanti contro il potere del re. Tutti i malcontenti si raccolsero intorno al principe d'Orange. Granvelle equivocò o volle equivocare. Attribuì tutto lo scontento al diffondersi delle idee eretiche. Affidò la repressione alle truppe spagnole. Allora i contadini abbandonarono gli aratri, gli artigiani gli attrezzi, i commercianti i traffici, il popolo della Zelandia la cura delle dighe. Per sottrarsi alle attenzioni di truppe malpagate che trovavano nel saccheggio il mezzo di rifarsi, più di centomila abitanti abbandonarono le loro case. I signori chiesero la convocazione degli stati, Guglielmo d'Orange divenne l'anima dell'assemblea. Fu chiesto a Granvelle conto dell'impiego del denaro pubblico e si negò al governo ogni sovvenzione finché le truppe straniere non fossero allontanate dalle province. I rederykers, poeti teatranti, misero alla berlina clero e funzionari del governo. La corte proibì gli spettacoli. I nobili decisero allora di vestire i loro servi con livree di un solo colore. Unica decorazione era, ricamato sulle maniche, il bastoncino con in cima una testa che era chiamato lo scettro dei matti. La testa era coperta da un cappuccio come quello indossato da Granvelle.

    Dopo che la corte lo proibì,
    lo scettro dei matti fu sostituito da un fascio di frecce con la scritta “Vis unita fortior”, l'unità fa la forza. I cattolicissimi Orange, Egmont e Horn si lamentaro per posta presso il re delle brutalità di Granvelle. Filippo li invitò a Madrid, ma nessuno si arrischiò ad andarci. Il calvinista Enrico, conte di Brederode, si fece ricevere con quattrocento gentiluomini dalla governatrice Margherita. Durante l'udienza un cortigiano le sussurrò a un orecchio di non avere timore di quella gente. Altro non erano che pitocchi. Uno dei pitocchi lo udì e decise di fare dell'insulto una bandiera. Sui vestiti grigi o sul cappello gli insorti cucirono la scodelletta di legno dei mendicanti, al collo appesero medagliette d'oro con l'effigie del re su un lato e una bisaccia dall'altro. Chi non poteva permettersi l'oro girava con le nacchere in mano. Era nato l'esercito dei geuzen, dei geux, dei pezzenti, di terra e di mare. Gli storici chiameranno la guerra che ne seguì degli Ottant'anni. Né Filippo né Guglielmo ne videro la fine. Non si concluse davvero che nel 1648, insieme alla tremenda guerra dei Trent'anni: con la pace di Westfalia che sancì tra l'altro l'indipendenza dei Paesi Bassi.