Gli inglesi inventarono il calcio per la voluttà d'essere sconfitti

Antonio Gurrado

Il calcio è uno sport semplice”, diceva Gary Lineker: “Si gioca undici contro undici e alla fine vincono i tedeschi”. Ci si potrebbe spingere oltre e dichiarare che gli inglesi hanno inventato il calcio ma non hanno ancora capito come si gioca. Le date parlano chiaro: la parola “football” è apparsa per la prima volta nel 1486 per indicare un gioco assimilabile a quello contemporaneo, in voga sotto il regno di Enrico VII.

    Il calcio è uno sport semplice”, diceva Gary Lineker: “Si gioca undici contro undici e alla fine vincono i tedeschi”. Ci si potrebbe spingere oltre e dichiarare che gli inglesi hanno inventato il calcio ma non hanno ancora capito come si gioca. Le date parlano chiaro: la parola “football” è apparsa per la prima volta nel 1486 per indicare un gioco assimilabile a quello contemporaneo, in voga sotto il regno di Enrico VII; le regole basilari vennero codificate a Cambridge nel 1848, in piena età vittoriana; il solo mondiale vinto dall'Inghilterra risale al 1966, nell'unica edizione giocata in casa. Tutte le restanti competizioni si sono risolte in vergogna o ridicolo e il meglio che la nazionale sia stata in grado di produrre consiste nelle semifinali di Italia '90 e dell'Europeo del '96: entrambe perse, entrambe ai rigori, entrambe contro la Germania.

    Per gli inglesi la sconfitta è una coazione a ripetere che comporta un'iniziale fiducia cieca nella vittoria e una sgomenta incredulità alla fine come se l'eliminazione fosse un'eventualità mai presa in considerazione. Eppure sugli scaffali sportivi di tutte le librerie troneggiano due libri preoccupanti: “Why England Lose” di Simon Kuper e “Don't mention the score” di Simon Briggs, il cui significativo sottotitolo è “Storia della nazionale inglese per masochisti”. Le loro spiegazioni potranno risalire a motivi inconciliabili ma la sconfitta va ascritta all'essenza intrinseca dell'Inghilterra perché trascende il calcio e spiega un popolo intero. L'Inghilterra perde per definizione, per onorare cinque capisaldi della propria società: capitalismo, tradizione, imperialismo, buona educazione e masochismo.

    1. Questo Mondiale ha confermato che gli inglesi
    sono rimasti una nazione di bottegai, secondo la definizione fornita da Napoleone in tempi non sospetti: hanno pensato che per primeggiare bastasse appioppare ai migliori calciatori il miglior allenatore sul mercato senza considerare che per vincere si attinge a un bagaglio di energie inesplorate e fattori irrazionali. Ogni quattro anni gestiscono una minuziosa contabilità salvo scoprire che alla fine le uscite superano sempre le entrate per qualche inafferrabile voce non messa a registro.

    2. Si è capito che l'Inghilterra avrebbe perso
    anche stavolta non coi due pareggi iniziali ma con la vittoria sulla Slovenia, quando era stata ripescata la maglia rossa di riserva e con essa lo spirito eroico del '66 e l'aura immarcescibile dei vecchi campioni del mondo. Se per passare il primo turno c'era bisogno di simili stregonerie, ne conseguiva che il primo avversario serio avrebbe massacrato l'Inghilterra senza nemmeno notare la divisa fiammante.

    3. L'Inghilterra non è una nazione stricto sensu: rugby a parte, in tutti gli altri sport gareggia sotto la bandiera del Regno Unito. Il calcio è l'ultimo retaggio del generale complesso di superiorità dell'Inghilterra sulle altre nazioni britanniche che si riverbera di conseguenza sul resto del mondo. Avendo vinto 54 tornei interbritannici su 88, l'Inghilterra si presenta ai tornei internazionali con l'intima convinzione che i suoi avversari non saranno mai all'altezza di Scozia, Galles o Ulster e che come tali verranno sbaragliati.

    4. In Inghilterra l'agognata vittoria non è ben vista. Ciò che conta è il fair play così come nella società l'identità nazionale e i doveri degli individui devono sottostare alla tutela delle minoranze e a fumosi diritti universali: bisogna subordinare il risultato alla consapevolezza di non aver fatto nulla di disdicevole. In una nazione che si macera nel senso di colpa, vincere comporterebbe un intollerabile peso sulla coscienza.

    5. Alla fine, agli inglesi piace perdere. Ogni sconfitta dà adito a rimpianti e recriminazioni che ben si attagliano all'oscuro carattere nazionale, sempre sospeso fra commiserazione e rimprovero, e consente loro di sfogarsi accanendosi contro sé stessi e di compatirsi quale massima potenza mondiale il cui lustro è oscurato da un complotto di invidiosi. Dopo ogni sconfitta contro la Germania, allora, gli inglesi cambiano canale e guardano Wimbledon sicuri che sarà l'anno buono per un tennista inglese. L'ultimo è stato Fred Perry nel 1936.