Marchionne ai sindacati: "Se i sindacati vogliono chiudere lo stabilimento me lo dicano"

Processo alla Fiat

Stefano Cingolani

Ha ragione Guido Viale: c'è un'alternativa, c'è sempre un'alternativa soprattutto nell'industria che combina i fattori della produzione secondo forme e obiettivi mutevoli come i bisogni e gli umori degli uomini. Il piano A di Sergio Marchionne ha come via d'uscita il piano B, il quale introduce un piano C e via via in un gioco di porte che conduce al centro del labirinto. Viale scrive sul manifesto di mercoledì che il piano A, cioè 6 milioni di auto l'anno è un azzardo.

    Ha ragione Guido Viale: c'è un'alternativa, c'è sempre un'alternativa soprattutto nell'industria che combina i fattori della produzione secondo forme e obiettivi mutevoli come i bisogni e gli umori degli uomini. Il piano A di Sergio Marchionne ha come via d'uscita il piano B, il quale introduce un piano C e via via in un gioco di porte che conduce al centro del labirinto. Viale scrive sul manifesto di mercoledì che il piano A, cioè 6 milioni di auto l'anno (2,2 con Chrysler e 3,8 con Fiat, Alfa e Lancia), è un azzardo. Anche il manager italo-americano non ha mancato di mettere le mani avanti, sottolineando che tutto dipende dall'andamento della domanda. Raddoppiare la produzione sarà difficile; ma ammettiamo riesca, chi può garantire che le auto non restino sui piazzali? E quanto costeranno i nuovi modelli sfornati dalle catene di montaggio?

    Sul primo punto, presentando il suo piano quinquennale nell'aprile scorso, Marchionne ha sospeso il giudizio. Anzi, non smette di ricordare che in Europa la capacità produttiva è superiore di circa un terzo alle potenzialità di assorbimento, in condizioni normali, cioè anche quando la crisi sarà superata. Quindi, le nuove vetture dovranno essere vendute soprattutto nei mercati in via di sviluppo. In Cina la Fiat non c'è; ha perduto la sua chance una decina d'anni fa e adesso è difficile entrare. Anche Ford ha commesso lo stesso errore, ha fatto il suo ingresso in ritardo e ha rosicchiato una quota di mercato del 4 per cento appena. In India ha avuto una presenza storica e la casa torinese sta rimettendo piede anche attraverso l'alleanza con Tata. Per ora ci sono semi e non frutti. In Russia, dove con Togliattigrad fece nel 1966 un'operazione che lasciò a bocca aperta il mondo intero (“il più grande affare del secolo”, parola di Averell Harriman) si sta rimboccando le maniche. In Brasile è già al primo posto e deve difendersi dai concorrenti, quindi più che la quantità deve perseguire la qualità.

    E qui arriva la seconda domanda: i costi per unità di prodotto. Sappiamo che altrove sono inferiori. Come salvare, allora, Pomigliano d'Arco? Introducendo il sistema a ciclo continuo e una organizzazione chiamata World class manifacturing che adatta il modello Toyota. A questo punto, si apre la saracinesca che conduce al piano B. Bisogna produrre più pezzi per ora lavorata riducendo il costo unitario, a cominciare dal costo del lavoro. Si può fare con lo stabilimento a ciclo continuo, tagliando le pause, aumentando i ritmi, comprimendo gli organici. Insomma, spremere come limoni uomini e impianti: un'auto ogni 72 secondi. Tutto ciò richiede flessibilità, adattamento e pace sociale.

    Si è scritto che Marchionne vuol portare gli operai italiani al livello di quelli cinesi. Chi lo dice non ha idea dell'abisso nelle paghe e nelle condizioni di lavoro. Anche rispetto a Brasile e Polonia, Pomigliano sembra un paradiso. E' vero, nella fabbrica mondiale tutti sono in concorrenza con tutti, l'esercito industriale di riserva, come lo chiamava Karl Marx, si spalma su ogni continente. La Fiat, tuttavia, non pensa certo di tagliare il salario nominale. Anzi, con l'aumento della produttività, salgono anche le retribuzioni sia pure come variabili dipendenti. Il paragone più vicino, semmai, è con Detroit. Marchionne ha ottenuto tre anni di tregua dai sindacati Chrysler: vorrebbe almeno collaborazione da quelli italiani. Il problema è che la classe operaia a stelle e strisce, in particolare “l'aristocrazia dell'auto”, guadagna molto più di quella campana, torinese e persino milanese. E' disposto il manager americano a proporre uno scambio tra pace sociale e salario? La linea di Henry Ford negli anni 30? Evidentemente no, perché non se lo può permettere.

    Dunque, il piano B apre la porta al piano C.
    A che pro montare le Panda in queste condizioni? Non è solo questione di assenteismo per ragioni elettorali, ambientali, umane o altro. E' che un lavoro del genere ormai conviene farlo solo nei paesi in via di sviluppo. Certo, non si possono chiudere subito i battenti. L'impianto ha più che dimezzato gli addetti da quando entrò la Fiat nel 1986, tuttavia ci sono pur sempre cinquemila bocche da sfamare e altre diecimila nell'indotto.

    A questo punto, Viale tira fuori il suo piano D:
    facciamola finita con l'automobile e investiamo in energia pulita, assetto del territorio, edilizia sociale. Obamismo all'italiana. Ma chi ha i capelli bianchi e ha bazzicato la sinistra più o meno extraparlamentare, ricorda bene che a metà degli anni 70 si diceva la stessa cosa. In certe assemblee gauchiste c'era chi si alzava proponendo che la Fiat fornisse brandine agli ospedali. Si è attribuita a Umberto Agnelli l'idea di cambiare mestiere: glielo suggerivano gli intellettuali della Fondazione Agnelli, allora in mano a cattolici fanfanian-dossettiani come Vittorino Chiusano o Ubaldo Scassellati uscito dal Pci nel 1951 dopo la scomunica del Papa, insieme a Felice Balbo, Ceriani Sebregondi e altri catto-comunisti. Corsi e ricorsi, quando le cose vanno male spunta sempre un'utopia sociale pagata dai contribuenti.

    E se ci fosse invece un piano E? Stiamo discutendo di salvare Termini Imerese (ormai chiusa) o Pomigliano d'Arco. Cioè di salvare il montaggio di componenti prodotte altrove, la parte finale e a minor valore aggiunto, del ciclo produttivo. E se rovesciassimo la prospettiva? Se accettassimo che questa fase possa (anzi debba) passare agli operai dei paesi in via di sviluppo, giustamente vogliosi di uscire dalle loro multiple miserie, e tenessimo per noi la progettazione, l'ingegneria, il marketing, il design, insomma la testa e non le gambe? E' chiaro che i posti di lavoro debbono essere salvati, ma vanno riqualificati, magari moltiplicati, aprendo una prospettiva a giovani che hanno trascorso quindici-vent'anni sui banchi di scuola e non sanno ancora cosa fare da grandi.

    Il punto di forza della Fiat, del resto, è la tecnologia non il marketing (paradosso della cultura torinese degli ingegneri). Cosa offre Marchionne alla Chrysler? Non soldi che non ha, ma motori che sono il fiore all'occhiello. In altre fasi storiche, Fiat ha sprecato molti atout. Basti pensare che è arrivata prima della Mercedes a creare il motore diesel di nuova generazione, il common rail, nel 1997. Ma ha venduto il brevetto alla tedesca Bosch. Un errore del genere lo stava per commettere con General Motors. Adesso attenti a non replicare con Chrysler.

    L'azzardo Marchionne non sconta solo l'incognita degli sbocchi di mercato e dei costi. Il punto interrogativo più grande riguarda i nuovi modelli, la qualità dei prodotti, l'innovazione. Ridurre le emissioni di CO2, efficienza energetica, sicurezza, leggerezza, sono gli imperativi dei consumatori ai produttori. Nell'auto elettrica o in quella ibrida, la Fiat è indietro e rischia di perdere la battuta. Ciò significa investire, lavorare, assumere ingegneri e tecnici. Può e deve farlo in Italia. Non solo qui, certo, ma mantenendo qui il cervello pensante.

    Ecco una richiesta che i sindacati e le forze politiche hanno tutto il diritto di fare. La ri-localizzazione del montaggio è una battaglia di retroguardia e demagogica, usata per lisciare il pelo agli elettori e per lo più perdente. Non tiene conto della evoluzione, questa sì inevitabile, della tecnica, del mercato, ma anche della pressione sociale che viene dai dannati della terra. La globalizzazione ha realizzato cose che Frantz Fanon con le sue rivoluzioni terzomondiste o Willy Brandt con il suo riformismo distributivo dal nord al sud del mondo, non avrebbero mai nemmeno immaginato. A noi che resta? Molto, moltissimo. Il capitale della conoscenza e dell'innovazione, la vera molla del vero sviluppo. Non ne abbiamo il monopolio, e per fortuna. Ma questa sì è una battaglia che val la pena combattere.