Chi ha paura di Steve Jobs

Claudio Cerasa

L'attacco spietato ai blogger puzzoni, la gagliarda difesa della carta stampata, la critica severa a quei furbacchioni di Google, l'occhiolino strizzato agli editori più famosi del mondo, e poi l'accusa di censura, la risposta a Barack Obama e la disapprovazione di uno dei manager più amati del pianeta. Diciamolo pure: il vecchio Steve Jobs ha creato un bel casino.

Leggi Il numero uno della Apple sgrida i blogger puzzoni e prepara la sua super battaglia contro Google

    L'attacco spietato ai blogger puzzoni, la gagliarda difesa della carta stampata, la critica severa a quei furbacchioni di Google, l'occhiolino strizzato agli editori più famosi del mondo, e poi l'accusa di censura, la risposta a Barack Obama e la disapprovazione di uno dei manager più amati del pianeta. Diciamolo pure: il vecchio Steve Jobs ha creato un bel casino. Lo ricorderete: pochi giorni fa il numero uno della Apple ha risposto in modo smaliziato alle domande di alcuni astuti giornalisti americani usando frasi che hanno lasciato sotto choc gli osservatori di mezzo mondo. Al convegno “All Things Digital” organizzato dal Wall Street Journal a Rancho Palos Verdes, a sud di Los Angeles, Jobs, nell'ordine, si è augurato che l'America non si trasformi in una nazione di blogger, ha sostenuto che ogni uomo di buona volontà dovrebbe aiutare la carta stampata a trovare nuove forme di espressione e ha persino abbracciato l'idea, per alcuni a quanto pare sconvolgente, che i contenuti dei giornali dovranno essere sempre di più a pagamento.

    Così, tra imprenditori estasiati, giornalisti affascinati,
    blogger incazzati e competitors terrorizzati, gli spunti di riflessione sollevati dal capo della Apple hanno dato vita a un gustoso dibattito relativo al futuro della rete, al destino del giornalismo e alle potenzialità delle nuove delizie tecnologiche, come per esempio l'appena arrivato iPad. Ma allo stesso tempo, in molti hanno notato come dietro ai ragionamenti offerti da Jobs si nasconda anche un'affascinante sfida lanciata al motore di ricerca più famoso del mondo: Google.

    Negli ultimi giorni si è spettegolato molto
    sulle ragioni nascoste dietro la rivalità tra due delle aziende più adorate del pianeta: ci sono ragioni commerciali, ci sono ragioni industriali, ci sono persino ragioni politiche, ma a confrontarsi tra loro sono soprattutto due modelli culturali che nel mondo del Web promettono di diventare sempre più l'uno antitetico all'altro. Da un lato troviamo infatti la tesi googolistica secondo la quale il futuro della rete è destinato a essere caratterizzato da un flusso di informazioni disponibili sempre più gratuitamente su Internet. Dall'altro lato lo Steve Jobs osannato dagli editori – non a caso ritratto sulla profetica copertina dell'Economist di qualche mese fa con una graziosa aureola poggiata sul capo, una morbida tunica celeste distesa sul corpo e una tavoletta divina tenuta gelosamente sotto braccio raffigurata come fosse stata appena partorita per grazia di Dio in cima al monte Sinai – crede che nel futuro di Internet sarà destinato a trionfare chi, come i giornali, garantirà sempre più contenuti di qualità e naturalmente a pagamento. In questo senso, oggi l'idea rivoluzionaria di Jobs è quella di presentarsi di fronte ai suoi clienti non più soltanto come il migliore interprete possibile delle strabilianti invenzioni delle nuove tecnologie, ma anche come un'affidabile guida a tutti i contenuti offerti dalla rete.

    E così, se Google oggi è una finestra
    che ti offre la possibilità di osservare liberamente il gran bazaar del Web, la Apple punta invece a trasformarsi in un bravo commesso capace di prenderti per mano suggerendoti di volta in volta che cosa merita di essere adocchiato e che cosa invece no. “Il capo della Apple – osserva Alberto Marinelli, docente di nuove tecnologie all'Università La Sapienza di Roma – in sostanza sta cercando di dirci una cosa semplice: il futuro dell'informazione smetterà di essere caratterizzato da persone che si collegheranno al Web per cercare quello che gli occorre, ma sarà sempre più qualificato da utenti che, una volta collegati, si aspettano che qualcuno gli offra direttamente quello di cui hanno bisogno”.

    Se non fosse chiaro si tratta insomma di una piccola rivoluzione e non possono dunque stupire più di tanto le tonnellate di critiche ricevute in questi ultimi giorni dal numero uno della Apple. Critiche come quella arrivata dalla penna del seguitissimo blogger di Repubblica Vittorio Zambardino, che la scorsa settimana, con toni piuttosto polemici, ha accusato il capo di Cupertino di voler mettere un bavaglio alla rete: sostenendo che lo Steve Jobs che oggi si autodescrive come il custode ultimo della sacralità del giornalismo farebbe invece parte di una “nuova razza padrona creata dalla rete”, nata per “spaventare e comprimere quell'esplosione di soggettività delle persone che si è manifestata col cosiddetto Web 2.0”. “C'è – sostiene il responsabile di Nova 24 Luca De Biase – chi si preoccupa che il capo della Apple voglia controllare la rete e creare un mondo chiuso, fatto solo di utenti e consumatori di contenuti a pagamento, non più libero e spontaneo come l'Internet originaria. E' chiaro che nell'universo della Apple le regole le fa la Apple. E' sempre stato così. Non per niente il Mac ha vissuto in una dimensione tutta sua e per anni ha sofferto di non essere compatibile con la maggior parte dei computer. E la stessa logica ora si trova nell'insieme di prodotti-servizi che la Apple mette a disposizione. Compresi i giornali”.

    Allo stesso tempo, però, l'eccitazione dei giornalisti
    per le parole di uno degli uomini più amati del pianeta è legata a una ragione in particolare: al fatto che l'inventore della mela ha davvero creato quasi dal nulla un nuovo modello di business che promette di portare nelle tasche dei giornali quattrini insperati fino a poco tempo fa. A molti osservatori non è sfuggito che già alla fine di febbraio i vertici dell'Apple avevano deciso di spiegare la portata innovativa dell'iPad scegliendo di far visita ai più importanti quotidiani americani – Wall Street Journal, New York Post, New York Times – per studiare con i cronisti più esperti le strategie migliori per sincronizzare il “tablet” con i modelli commerciali del giornalismo. E qualcosa in effetti sembra essersi mosso: i giornali sono arrivati preparati all'appuntamento con la tavoletta e anche nelle ultime settimane gli editori non hanno perso occasione per lanciare messaggi d'amore al nuovo messia dell'editoria. Il più esplicito di tutti è stato Rupert Murdoch, che nel giro di poche settimane con il suo Wall Street Journal ha venduto qualcosa come 10 mila accessi a pagamento su iPad e che proprio la scorsa settimana, come per voler rendere ufficiale la liaison in corso tra i grandi padroni dei giornali e la mela di Jobs, ha usato parole più che significative: “Cosa sarebbe un iPod senza musica? E una televisione HD senza i programmi televisivi? E un e-reader senza libri? E ora, ditemi sinceramente, che cosa sarebbe un iPad senza notizie?”.

    Se ci si riflette un attimo, il messaggio che il numero uno della Apple sta tentando con le buone di spiegare ai sapientoni dell'informazione in fondo è molto semplice. Jobs infatti è come se stesse dicendo che le sue tavolette magiche saranno capaci di salvare i giornali soltanto se questi avranno capito in tempo come offrire contenuti per i quali valga la pena di spendere quattrini. Il tema è di grande attualità non soltanto per le polemiche nate attorno alle idee di Jobs – “sei un censore!”, “un traditore!”, “un venduto!” – ma anche perché molti editori, giusto in questi mesi, stanno tentando di rivedere i propri investimenti in relazione a tutto ciò che riguarda il favoloso mercato dell'online. E ad avere espresso concetti molto chiari su questo argomento è stato ancora una volta Rupert Murdoch. Poche settimane fa, per dire, il numero uno della News Corporation ha ammesso che dal prossimo autunno i siti di due tra i più importanti giornali in suo possesso (Times e Sunday Times) diventeranno in gran parte a pagamento e saranno di conseguenza costretti a migliorare le proprie performance giornalistiche per giustificare la coraggiosa, e a quanto pare inevitabile, scelta editoriale. Una scelta in perfetta sintonia con le tesi di Jobs, ma una scelta che ha ricevuto critiche piuttosto severe. Una su tutte è quella offerta dal direttore del Guardian Alan Rusbridger, che in occasione di una lectio magistralis in onore del giornalista britannico Hugh Cudlipp ha bocciato il modello Jobs-Murdoch e ha detto, molto semplicemente, che chiunque voglia introdurre delle sezioni a pagamento online è un irresponsabile, e “porterà il settore vicino al fallimento”.

    Prima ancora delle sue argomentazioni sul futuro dei giornali, ciò che in realtà ha fatto più sbuffare delle parole di Jobs riguarda le frasi con cui il numero uno della Apple ha lasciato intendere di essere preoccupato per la possibilità che il Web, anche per colpa di alcuni irresponsabili blog, si possa trasformare in una grande catena di sant'Antonio in cui il limite tra menzogna e verità risulti sempre più complicato da definire. Il richiamo severo del re di Cupertino contro il rischio della Sputtanopoli del Web (simile a quello lanciato lo scorso dicembre dal presidente degli Stati Uniti: “Mi auguro – ha detto Obama – che Internet non diventi il luogo dove anche le affermazioni più folli possono velocemente diffondersi”) è stato letto come un appello affinché sulla rete non si trascuri il diritto di vedersi garantito in qualsiasi occasione la salvaguardia della propria vita privata. Ecco: l'effetto non secondario delle parole di Jobs è stato quello di mettere in contrapposizione, anche su questo tema, le tesi del numero uno della Apple e quelle del numero uno di Google. In particolare – e in questo la dissonanza culturale con Jobs sembra essere piuttosto netta – Eric Schmidt (ceo di Google) sostiene che mettere troppi paletti nel mondo della rete equivalga a voler limitare la libertà dei naviganti di poter vivere serenamente nell'universo del Web. “Chi desidera salvaguardare la privacy – ha detto con toni minacciosi Schmidt in un'intervista rilasciata a fine dicembre alla Cnbc – evidentemente ha qualcosa da nascondere”.

    Si parla di privacy, naturalmente, ma forse in questo caso si parla anche di qualcosina di più. Fateci caso: ogni volta che è costretta a dover fare i conti con i garanti di mezzo mondo – che gli contestano ormai periodicamente violazioni della privacy per usi arbitrari delle informazioni personali – Google si difende evocando presunte aggressioni contro la democrazia del Web. E la minaccia alla democrazia ritorna ogni volta che i vertici del motore di ricerca vengono criticati per un motivo qualsiasi. Solo un caso? No, naturalmente. Schmidt, con una certa abilità, è infatti riuscito nella magistrale operazione di aver reso quasi sovrapponibili la parola Google e la parola Internet, contribuendo in modo decisivo all'affermazione universale di un teorema semplicemente geniale: la rete è uno spazio libero e chiunque tenti di toccarlo mette a repentaglio questa libertà; il custode di questa democrazia virtuale si chiama Google e chiunque metta in discussione Google, o, peggio, tenti di fargli la guerra, diventa nei fatti un nemico della democrazia e della libertà: quasi un tiranno. Vero o falso che sia il ragionamento, il risultato è che ogni volta che un garante, un giudice, un imprenditore o più semplicemente un giornalista tenta di esaminare in modo critico l'impero di Google si ritrova trattato come fosse affetto da una pericolosissima sindrome anti democratica.

    L'ultimo a fare le spese dell'atteggiamento di quei geniacci di Google è stato il giudice italiano Oscar Magi, che dopo aver condannato lo scorso 24 febbraio a sei mesi di carcere tre dirigenti di Google (ritenuti responsabili per un video caricato nel 2006 sulla piattaforma di Google Video nel quale un ragazzo autistico veniva picchiato da alcuni compagni) giusto pochi giorni fa si è sentito dire da Schmidt che quel verdetto è solo bullshit: una stronzata. “La libertà – ha detto Magi lo scorso 6 giugno in un'intervista rilasciata a Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera – non esiste senza responsabilità. Rispettare le sentenze è principio di libertà e di democrazia. Capirle aiuta a rispettarle. E in Italia e in Europa la libertà di espressione trova un suo confine nel rispetto dei diritti delle persone, tra i quali spicca quello alla privacy. Bisogna che Google se ne faccia una ragione”.
    Dietro la sfida lanciata da Jobs ai campioni di Google c'è però anche un duello squisitamente commerciale. Il numero uno della Apple ha ammesso più volte di aver iniziato a tenere sotto stretta osservazione i campioni di Mountain View dal giorno in cui i ragazzacci di Google avrebbero violato un patto non scritto con la Mela di Cupertino. Da quando cioè Schmidt è entrato in quel mercato degli smartphone in cui oggi è la Apple a farla da padrone. “Noi – ha confessato più volte Jobs ai suoi collaboratori – non siamo entrati nel business dei motori di ricerca, loro invece non si sono comportati come noi e sono entrati in quello della telefonia”. La stessa paura, lo stesso timore di vedere messo in discussione un monopolio conquistato partendo quasi da zero, oggi la Apple ce l'ha rispetto alla sua tavoletta magica: dato che Google presenterà presto la sua offensiva all'iPad, dato che la Sony farà partire tra pochi giorni un contrattacco dal Giappone e dato che persino Amazon (che con il suo Kindle è leader assoluto nel mercato degli e-reader) subito dopo l'uscita dell'iPad ha deciso di correre ai ripari acquistando un'azienda specializzata nella produzione di touchscreen – la Touchco – per creare una specie di super Kindle in grado di rispondere tempestivamente alla sfida della Apple.

    Ma a tutto questo va aggiunto anche un ulteriore spunto di riflessione
    che spiega bene il senso della battaglia combattuta dai due giganti americani. Una delle principali ragioni di insofferenza di Schmidt riguarda infatti il tentativo di Apple di voler intervenire in quel mercato dell'advertising in cui è Google a non far toccare la palla agli avversari. Secondo quanto denunciato la scorsa settimana da Schmidt (al caso, il Financial Times ha dedicato una lunga inchiesta), i regolamenti della tavoletta di Jobs prevedono una piccola clausola secondo la quale a fare pubblicità sull'iPad sarebbero autorizzati soltanto “i canali di advertising indipendenti non ricollegabili a gruppi che sviluppano sistemi operativi concorrenti alla Apple”. E così, giusto pochi giorni dopo l'arrivo dell'iPad sui mercati mondiali, i vertici del motore di ricerca si sono sentiti talmente minacciati da aver scelto di rivolgersi all'antitrust americana per difendersi dalle “barriere poste da Apple per impedire a noi di Google di mettere le nostre pubblicità su iPhone, iPad e iPod”.

    C'è poi però un altro aspetto interessante
    che vive sotto traccia nella contesa tra Google e Apple. In questi giorni molti osservatori hanno difatti notato come la battaglia tra Schmidt e Jobs sia molto simile a quella combattuta per anni dalla Apple contro la Microsoft, ed è difficile dargli torto. Il paragone può sembrare eccessivo ma un suo senso ce l'ha. Quando alla fine degli anni Ottanta la Mela di Jobs sfidò la Microsoft di Bill Gates, si decise di puntare tutto sull'idea che un giorno o l'altro i brand capaci di imporsi con nettezza sul mercato sarebbero stati quelli in grado di testimoniare contemporaneamente maggiore affidabilità e impareggiabile senso di appartenenza. All'inizio sembrava una sfida impossibile: la Microsoft fatturava cinque volte la Apple, Gates aveva trovato formule più competitive, i Mac erano ancora molto cari e Jobs veniva trattato come un geniale monellaccio destinato a offrire in eterno le sue delizie a una elitaria cerchia di appassionati megalomani.

    Col passare del tempo, però, la Apple ha dilatato il suo impero commerciale, ha inondato i negozi di invenzioni mozzafiato, ha consolidato la forza del suo brand, ha migliorato il fatturato e alla fine ha offerto a tutti una lezione non banale: ovvero che il destino di alcune fette di mercato è legato in modo sempre più vincolante all'unicità del prodotto piuttosto che alla sua abbordabilità. Insomma, meglio un prodotto da sballo piuttosto che uno così così ma a buon mercato. Un'idea simile a quella che oggi sembrano avere i grandi tycoon dei giornali, convinti che il futuro dell'editoria dipenderà da quanto i quotidiani saranno capaci di produrre contenuti migliori di quelli che si possono trovare gratuitamente qua e là su Internet. “Credo che l'iPad – ha ripetuto in questi giorni Jobs – sia una grande opportunità per fornire più valore di una semplice pagina Web: ritengo che si possa iniziare a chiedere dei piccoli ricarichi sulle notizie e su tutto ciò che la gente è disposta oggi a pagare per avere dei contenuti all'altezza della situazione”. E per giustificare il proprio ottimismo l'inventore della Apple ha recentemente utilizzato una metafora niente male. Jobs dice che quando l'America era una nazione agricola tutti quanti avevano un camion. Poi si è passati alle automobili di tutti i tipi e i camion sono rimasti nelle mani di chi li usa per lavori specifici. Oggi, sostiene Jobs, quei computer non solo assomigliano ai camion ma somigliano molto anche ai giornali. Un giorno ce ne saranno forse meno ma quelli migliori, quelli più utili, quelli più indispensabili, quelli che riescono a fare qualcosa come non riesce a nessun altro certamente resteranno. E' vero, qualcuno dice che questa è solo una balla, che i dati sull'editoria parlano chiaro, che il futuro non potrà mai essere di carta e che presto i giornalisti finiranno a scrivere soltanto per il Web; ma qualcun altro fa invece notare che in fondo, a voler essere sinceri, era impensabile immaginare che i camion sarebbero sopravvissuti all'esplosione delle automobili e che la Apple di Jobs un giorno avrebbe messo la freccia per superare la Microsoft. Impossibile, si diceva. Eppure è successo appena un mese fa, e quell'impensabile divenuto realtà Jobs, ai blogger puzzoni, l'ha ricordato a Los Angeles con un sorriso grande così.

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    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.