Tutte le pellicole del festival appena terminato recensite dalla Mancuso

Vincitori e vinti da Cannes

Mariarosa Mancuso

Il film Uncle Bonomee who can recall his past life, del regista thailandese quarantenne Hapichatpong Weerasethakul, è il vincitore della palma d'oro alla sessantatreesima edizione del festival di Cannes. Il premio come migliore attore è andato a Elio Germano protagonista di La nostra vita di Daniele Luchetti a parimerito con Xavier Bardem, interprete di Biutiful di Alejandro Gonzales Inarritu.

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    Il film Uncle Bonomee who can recall his past life, del regista thailandese quarantenne Hapichatpong Weerasethakul, è il vincitore della palma d'oro alla sessantatreesima edizione del festival di Cannes. Il premio come migliore attore è andato a Elio Germano protagonista di La nostra vita di Daniele Luchetti a parimerito con Xavier Bardem, interprete di Biutiful di Alejandro Gonzales Inarritu.

    HORS-LA-LOI di Rachid Bouchareb, con Jamel Debbouze, Sami Bouajila (concorso)
    Due perquisizioni a distanza di cinque minuti e cinquanta metri proteggevano dai malintenzionati la proiezione del film franco- algerino che inizia con la strage di Sétif. Era l'8 maggio del 1945, quando i nazisti si arresero e gli algerini arruolati nell'esercito francese volevano partecipare alla festa (vedi il precedente film del regista: “Indigènes”, girato nel 2006). I francesi non ci fanno una gran figura, e francamente neppure gli algerini emigrati che tra Nanterre e Parigi strangolano con una corda chiunque si opponga al Fronte di Liberazione Nazionale, anche un poveretto che si compra il frigo togliendo soldi alla causa. Più che la vicenda, infastidisce la retorica.

    LUNG BOONMEE RALUEK CHAT (Uncle Boonmee Who Can Recall His Past Lives) di Apichatpong Weerasethakul
    Siamo stati svegli tutto il tempo prendendo appunti. Il thailandese piace da morire alle giurie, mai farsi cogliere impreparati. Abbiamo visto un paio di dialisi condotte con mezzi di fortuna; una cena in famiglia allietata da due fantasmi, uno a forma umana e l'altro con occhi di bragia e fattezze da Chewbacca in “Guerre stellari”. Abbiamo visto una donna sfigurata in portantina, un servo innamorato e un pesce gatto parlante. Abbiamo visto una lentissima imitazione di “Amabili resti” (nei momenti migliori) e visitato una grotta semibuia con stalattiti, stalagmiti e pozze d'acqua con pescetti (nei momenti peggiori). Abbiamo visto un monaco buddista spogliarsi, farsi una lunga doccia dopo aver annusato il sapone e infilarsi i jeans. Applausi più che calorosi, anche il cinefilo quando non capisce si innamora.  

    ROUTE IRISH di Ken Loach, con Mark Womack, Andrea Lowe (concorso)
    Il musicista iracheno in esilio a Liverpool prima di metter mano allo strumento spiega che la Mesopotamia è la culla della civiltà, augurandosi che possa presto tornare a esserlo. Ken Loach invecchia ma non si placa, neanche dopo aver fatto partire un film in maniera originale, con attori bravi: dopo la prima mezz'ora, arriva puntuale la botta di retorica. In scena, due amici proletari diventati contractor a diecimila sterline mensili esentasse. Uno muore nel tratto di strada che unisce l'aeroporto di Baghdad alla Green Zone, l'altro indaga con l'aiuto di un telefonino (il musicista iracheno serve da interprete). Verrà applicata la legge del taglione, dopo un po' di waterboarding. L'Iraq è soprattutto nei filmati d'archivio, scelti tra i più cruenti per ben manipolare lo spettatore.

    UN HOMME QUI CRIE di Mahamat-Saleh Haroun, con Youssouf Djaro, Diouc Koma (concorso)
    N'Diamena, capitale del Ciad. La piscina del grande albergo è affidata alle cure di Adam, sessantenne ex campione di nuoto. I proprietari cambiano – ora son cinesi – e vogliono gente giovane. Adam viene declassato a portiere e sostituito dal figlio (mentre il cuoco sempre ubriaco viene licenziato e basta). La guerra civile, che reclama soldi e soldati, offre l'occasione per un regolamento di conti familiare, mentre la mamma cucina e piange. Il concorso geograficamente corretto mette una bandierina sull'Africa, assente a Cannes da tredici anni.

    YOU WILL MEET A DARK, TALL STRANGER di Woody Allen, con Naomi Watts, Josh Brolin
    Non è il miglior film di Woody Allen, ma ha una leggerezza – e a essere sinceri anche un'aria di non finito – che lo rende simpatico. Non è impostato, non è stagionato, non è inverosimile come “Anything Else”. Non dà lezioni, tenta di scendere a patti con la vita. E con le chiromanti, le illusioni, le sedute spiritiche, le bugie. Senza dimenticare il Viagra.

    FAIR GAME di Doug Liman, con Naomi Watts (concorso)
    Ai fratelli Butterworth andrebbe ritirata la patente da sceneggiatori. Restituita solo dopo aver scritto sulla lavagna cento volte, alla maniera di Bart Simpson: “Le storie vere accadono, i film si scrivono, le polemiche giornalistiche non hanno struttura drammatica”. Primo brutto segno: l'ex agente CIA Valerie Plame ha molto apprezzato il film tratto dai libri suoi e del consorte Joe Wilson. Per fare il paragone con un altro biopic visto a Cannes: il terrorista Carlos ha molto protestato. Ultimo brutto segno: Sean Penn brizzolato che arringa gli studenti su “la verità è la cosa più importante per una democrazia”, gesticolando come Russell Crowe nel “Gladiatore” e in “Robin Hood”. In mezzo, scene scritte e recitate con prigrizia.

    PAL ADRIENN di Agnes Kocsis, con Eva Gabor (Un Certain Regard)
    L'infermiera passa le nottate guardando i monitor degli elettrocardiogrammi. Decine di monitor, sulle pareti di una cella rotonda provvista di scrivania. Intanto divora pasticcini o cioccolato. Appena una delle linee si appiattisce, e il cicalino suona, e la luce rossa lampeggia, la grassa Piroska sale nel reparto geriatrico per trasferire il cadavere dal letto all'obitorio. Quando una vecchietta appena morta ha lo stesso nome di una compagna di scuola, comincia a indagare sul passato. Ognuno racconta una cosa diversa, l'esperienza dice che non ci sarà finale (non c'è). Sempre uguali invece sono i passi nel corridoio e l'ascensore con la barella. In Ungheria “E. R.” non deve essere mai arrivato.

    STONES IN EXILE di Stephen Kijak con Mick Jagger (Quinzaine des Réalisateurs)
    Lo si guarda più che altro per levarsi dalla testa i Rolling Stones sessantenni che cantano e saltellano in “Shine A Light” di Martin Scorsese. Funziona. I filmini e le foto di famiglia raccontano il 1971 a Villefranche Sur Mer, nella villa affittata da Keith Richards. Ai piani nobili Anita Pallenberg preparava la colazione al piccolo Marlon (Bianca Jagger era incinta). Nel seminterrato, gli Stones strafatti registravano “Exile on Main Street”.

    LES AMOURS IMAGINAIRES
    di Xavier Dolan, con Monia Chokri (Un Certain Regard)
    Accanto a De Oliveira, il più venerato dei maestri, la seconda sezione competitiva ospita la più giovane delle promesse. Ha 21 anni, viene dal Québec, l'anno scorso il suo primo film – “J'ai tué ma mère” – vinse tutti i premi che poteva vincere alla Quinzaine. A sei anni faceva l'attore per la pubblicità delle farmacie, recita anche nel film, un “Jules e Jim” totalmente platonico (a differenza dell'originale, si fa l'amore solo fuori dal triangolo). Un gay pettinato alla James Dean e una ragazza vestita vintage si innamorano di un bel forestiero biondo e narciso – riedizione pop del viscontiano Tadzio in “Morte a Venezia” – che non guarda nessuno dei due. Colori e risate da fumetto.

    CHANTRAPAS di Otar Iosseliani, con Dato Tarielashvili (fuori concorso)
    I ricchi pietroburghesi dell'Ottocento affidavano i fanciulli a maestri di canto. Gli insegnanti selezionavano i bravi dicendo “chantera” e gli stonati dicendo “chantera pas”. Da allora “chantrapas” in russo sta per “buono a nulla”. Il film racconta la censura sovietica sul cinema, vista da un regista georgiano che emigrò a Parigi nel 1979. “Prima vietavano i miei film ma ero molto rispettato”, spiega. Lo stesso accade a Nicholas: il censore sbriga il suo lavoro, poi stringe la mano al giovane regista in segno di ammirazione. Il montaggio si fa senza moviola, scorrendo la pellicola velocemente tra le dita. Lavoravano così anche Eisenstein e Pudovkin.

    CARLOS di Olivier Assayas, con Edgar Ramirez (fuori concorso)
    Era in concorso, poi l'hanno tolto dalla serie A per le proteste dei registi duri e puri. Trattasi infatti di film prodotto e finanziato dalla pay tv francese Canal +. Dirige Olivier Assayas, che negli anni Ottanta faceva il critico per i Cahiers du Cinéma: vuol dire che c'è sempre tempo per ravvedersi. La biografia di Carlos lo Sciacallo, terrorista di origine venezuelana che sta scontando l'ergastolo in Francia, è scritta bene e girata meglio. Cinque ore, con dieci minuti di intervallo, passano più veloci delle due penose orette di certi film in concorso (titoli a richiesta, più facile dire quelli che non vanno al rallentatore). La retrograda guerra contro la televisione leva di mezzo un pericoloso concorrente.

    SCHASTYE MOE di Sergei Loznitsa, con Olga Shulakova (concorso)
    E' nato in Bielorussia, allora Urss, nel 1964. Ha finito il liceo a Kiev. Ha studiato cibernetica e fatto lo scienziato per qualche anno. Per arrotondare, traduceva dal giapponese. Il cinema lo ha scoperto dieci anni fa: scuola con lode, documentari (uno sull'assedio di Stalingrado, 900 giorni), trasferimento a Berlino. Con questo suo primo film, si aggiudica il premio tristezza & cupaggine. Assieme al biglietto per “La mia felicità”, lo spettatore avrà in omaggio un flacone di Prozac. Una camionista viene fermato dalla polizia, incontra una prostituta bambina, si perde nel bosco, viene aggredito da tre ladri che lo tramortiscono. Seguono altre teste fracassate e molte violenze assortite, mentre arriva l'inverno. Poi sembra che la botta in testa l'abbiano data a noi, tanto la seconda parte risulta difficile da decifrare. Si sospetta la metafora.

    BLUE VALENTINE
    di Derek Cianfrance, con Michelle Williams (Un Certain Regard)
    Indipendenti, ancora. Del tipo che fa venire voglia di un bel film da studio: macchina da presa ferma, attori sotto controllo, dialoghi ben scanditi, una storia magari vecchia ma con un plot. “Nessun peggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria” ammonisce il regista, consentendo a Michelle Williams e a Ryan Gosling di dare sfogo ai rispettivi manierismi. In ordine sparso, scene dal primo incontro (casa di riposo, lei è lì per la nonna lui per un trasloco di vecchietto), dal corteggiamento, dall'ultimo litigio conosciuto.

    TOURNÉE di Mathieu Amalric, con Mathieu Amalric, Dirty Martini (concorso)
    A volte confessano, senza neppure bisogno di interrogarli. Il regista e attore non aveva una storia per un film, le produttrici insistevano. Da tempo si rigirava in tasca “I retroscena del music hall”: le esperienze di Colette sui palcoscenici di inizio secolo, dove si esibiva in baci lesbici e numeri orientali. Bocciata l'idea di ammodernare il testo con lo striptease (come in “Gypsy”, autobiografia di Gypsy Rose Lee, regina dello spogliarello anni 30). Bocciata pure la lap dance (come in “Candy Girl” di Diablo Cody). Promosso, per l'odore di cipria e fondotinta, unito allo splendore di piume e lustrini, il burlesque. Sempre signorine in mutande e stelline sul seno, nobilitate dal revival e da Dita von Teese. Queste sono bionde e grassocce, arruolate negli Stati Uniti da un produttore televisivo che vorrebbe tornare alla ribalta dopo un momentaccio. Non si può parlar di trama, a rigore neanche di regia. Per la statistica, è il secondo film in memoria del produttore indipendente (a volte donchisciottesco nel finanziare film da quindici spettatori in sala) Humbert Balsan, morto suicida. L'altro è “Il padre dei miei figli” di Mia Hansen-Løve, nelle sale l'11 giugno.

    DRAQUILA – L'ITALIA CHE TREMA di Sabina Guzzanti (evento speciale)
    C'era una volta un documentario girato con poca arte e molta parte. Parlava di un terremoto, era stato invitato a Cannes, lo avrebbe visto una manciata di persone (chi segue i documentari, nei giornali con più inviati, non è esattamente in cima alla catena alimentare). Ora è il film che secondo il ministro Bondi offende l'Italia: tutti lo vogliono vedere, i giornalisti fanno la fila per un'intervista, i fotografi fanno a gara per immortalare Sabina Guzzanti sulla spiaggia in abitino fucsia (secondo Franca Valeri: “Il colore che alle altre ci sbatte e a me mi dona”). Ottima copertura stampa a costo zero, dentro e fuori dalle pagine degli spettacoli. Cercasi con urgenza un consulente alla comunicazione che insegni a dire, in diretta televisiva e fuori: “Non ho visto il film per intero, lo farò quanto prima, molti auguri per Cannes”.

    O ESTRANHO CASO DE ANGELICA di Manoel De Oliveira, con Pilar López de Ayala, Ricardo Trepa (Un certain regard)
    A 101 anni compiuti, il più anziano regista in attività dovrebbe suscitare solo tenerezza. Se soltanto non continuasse a sfornare film fatti con lo stampino. A base di musica classica, tempi rarefatti, voci fuori campo che declamano poesie, attori e attrici dalla raggelante fissità. Sotto la pioggia qualcuno cerca un fotografo, per ritrarre una giovane sposa defunta all'improvviso. Inquadrata dall'obiettivo, la bella sembra riprendere vita. Il fotografo rimane turbato, poi si distrae documentando il lavoro degli zappatori nella vigna. Quando il ritrattista e la morta, entrambi vestiti di bianco, si librano in volo sul Portogallo, abbiamo avuto la certezza che le spose cadavere riescono molto meglio a Tim Burton.

    CHONGQING BLUES di Wang Xiaoshuai, con Wang Xueqì, Qin Hao (concorso)
    Mai un raggio di sole, a Chongqing, nella provincia di Sichuan. Il cielo è più cupo che in “The Road”, grigi sono i grattacieli, l'acqua del fiume, la teleferica per passare da una riva all'altra. I padri si separano, si risposano, vanno per mare, tornano in città quando il figlio venticinquenne viene ucciso dalla polizia dopo aver preso una ragazza in ostaggio. L'istinto paterno rinasce ai ritmi pacati del cinema cinese. Il fattaccio di cronaca viene raccontato a ripetizione, mostrato dalle telecamere di sorveglianza, ricostruito nei flashback.

    BIUTIFUL di Alejandro Gonzáles Iñárritu (concorso)
    La differenza tra un film e un grande film la fa il regista. Lo sceneggiatore fa la differenza tra un film e nessun film. Così ripete Robert McKee negli Story Seminar che tiene da 25 anni. Gli hanno fatto guadagnare – per interposti allievi – 32 Oscar e 158 Emmy, più una valanga di insulti all'indirizzo dell'orribile Procuste che impone regole castranti alla creatività. Senza i copioni di Guillermo Arriaga, che lo ha mollato per debuttare come (mediocre) regista con “The Burning Plain”, Iñarritu gira a vuoto. Segue Javier Bardem per le strade di Barcellona, dal dottore (pessime notizie) e dalla ciclotimica madre dei suoi figli. Orgoglio messicano e categoriale a parte, a stare in coppia ci guadagnavano entrambi.
     
    ANOTHER YEAR
    di Mike Leigh (concorso)
    Splendido, perfetto, universale, raccontato alla vecchia maniera, con personaggi tanto veri e attori tanto naturali che lo spettatore quasi si vergogna a far la parte del guardone. Racconta un anno nella vita di Tom e Gerri, lui geologo lei psicologa con l'hobby dell'orto. Una nascita, un matrimonio, un funerale: la semplicità fatta film, e solo Mike Leigh sa quanti mesi di prove sono serviti per ottenerla. Merita la Palma d'oro (sarebbe la seconda, dopo “Segreti e Bugie” nel 1996) e un premio per la migliore attrice da destinarsi a Lesley Manville, imbattibile nella parte dell'amica che cerca un uomo e deve accontentarsi di una macchina usata.

    OUTRAGE di Takeshi Kitano (concorso)
    Dopo la prima scena – famiglie della yakuza vengono convocate al cospetto del supercapo – procede così. Due o tre gangster confabulano, poi entrano in una stanza (o circondano un'auto, o si presentano al chioschetto) e fanno fuori uno, due o tre altri gangster. Variazioni: invece di confabulare urlano, invece di sparare adoperano il trapano del dentista, o una mitraglia. Per punteggiatura, mignoli mozzati. Vale quel che Jan Kott scrisse del “Tito Andronico” di Shakespeare: se durasse altri venti minuti comincerebbero a morire ammazzati gli spettatori delle prime file.

    TAMARA DREWE
    di Stephen Frears, con Gemma Arterton (fuori concorso)
    Divertimento campagnolo, liberamente ispirato a “Via dalla pazza folla” di Thomas Hardy passando per il fumetto di Rosy Simmonds (dopo “Chéri”, tratto da Colette, è un bel salto). Molto divertente la residenza per scrittori tra le mucche, con la padrona – moglie di un romanziere di successo – che tiene a pensione una banda di scribacchini e aspiranti tali. Due ragazzine innamorate di una rock star mettono in moto l'intreccio. Sì, c'è anche il bel giardiniere con i pettorali in vista.

    AURORA di Cristi Puiu (un certain regard)
    L'etichetta “Un Travis Bickle sotto valium” si applica bene a queste interminabili tre ore. Aggiungiamo che manca pure il taxi, oltre ai dialoghi. Una pistola compare dopo un'ora, serve un'altra mezz'ora prima che cechovianamente spari. A chi, non è chiaro. Altro sparo, altra incertezza sulle vittime. Esistenzialismo rumeno, in bilico tra il delitto gratuito e l'assassino dentro ognuno di noi.

    KABOOM di Gregg Araki (fuori concorso)
    Sconnesso, folle, demenziale, ispirato alla gamma dei B-movies con un nobile tocco di Lynch. Una strega lesbica, un sogno premonitore, una banda di assassini con le maschere di animali, il compagno di stanza biondo e surfista, il profeta di sventura. Gli attori adolescenti sono tanto belli (oltre che bravi) e il Gregg Araki di “Mysterious Skin” tanto scatenato che guardiamo l'ora per la prima volta a dieci minuti dalla fine.

    COPIE CONFORME di Abbas Kiarostami, con Juliette Binoche (concorso)
    Uno storico dell'arte tiene una conferenza sul vero e il falso nell'arte (già arriva il primo sbadiglio). Juliette Binoche e lo storico dell'arte salgono in auto e continuano a parlare di vero e di falso (altri sbadigli). Vanno a prendere un caffè, lo fanno raffreddare, intanto chiacchierano in inglese (sbadiglissimi). Lui risponde al cellulare, Binoche parla in italiano con la padrona (lo spettatore che ama il cinema ha ormai la mascella slogata). Kiarostami in trasferta toscana è come Wenders in trasferta a Palermo: inutile, anche come richiamo per le vacanze intelligenti.

    CARANCHO di Pablo Trapero, con Martina Gusman (Un Certain Regard)
    “Carancho” sta per avvoltoio. In questo caso, per il tipo di avvocato che organizza finti incidenti stradali per truffare le assicurazioni. Amoreggiare con la dottoressa dell'ambulanza non giova alla carriera. Soprattutto quando un vecchietto con la gamba rotta a martellate muore sfondando il parabrezza di un'auto. Realismo da pronto soccorso argentino, troppi inutili primi piani.

    AUTOBIOGRAFIA LUI NICOLAE CEAUSESCU di Andrei Ujica (fuori concorso)
    Abbiamo visto poche parate in vita nostra, quindi manca l'esperienza. Che sfilassero davanti a Ceausecu i militari, lo potevamo immaginare. Che sfilassero carri dedicati agli sport, con uno sciatore bella statuina in posa da discesa e uno in fase di lancio, pure era immaginabile (intanto un diavoletto fa venire in mente Calvino che parla a Fruttero dei carri allegorici del Pci). Che sfilassero campi mobili di pallavolo e di calcio – recinti semoventi, porte e reti come sopra, giocatori impegnati nella partitella senza perdere il passo – è stata una sorpresa. Puro materiale d'archivio, senza voce fuori campo, per tre ore.

    DES HOMMES ET DES DIEUX di Xavier Beauvois, con Lambert Wilson (concorso)
    Monaci francesi nel Maghreb contro integralisti algerini. Siamo negli anni Novanta, solo un pazzo potrebbe sperare in un lieto fine. La routine di studio, preghiera, legna da spaccare, bambini poveri da curare viene interrotta da un ceffo armato e inturbantato che vuole medicine. Operai croati vengono sgozzati al cantiere. Il dramma ci sarebbe, il regista perde tempo in conversazioni multiculturali e inni al Signore.

    LA PRINCESSE DE MONTPENSIER
    di Bertrand Tavernier, con Mélanie Thierry (concorso)
    Pranzo di nozze alla corte di Francia, anno 1592: la principessa di Mezières va sposa al Principe di Montpensier. Viene annunciato il menu e vantata davanti agli ospiti la qualità dell'olio d'oliva, manca solo che dicano “prima spremitura” e aggiungano il cru. Siccome non stiamo in “Marie-Antoinette” di Sofia Coppola, ma in un film in costume della vecchia scuola, cominciamo a non credere più a niente. Meno che mai all'amore contrastato della principessa per lo sfregiato Duca di Guisa.

    FILM SOCIALISME di Jean-Luc Godard, con Patti Smith (Un Certain Regard)
    Perfino il New York Times lo trova “denso”, salvo poi confessare che dei sottotitoli in “navajo english” (la lingua parlata dagli indiani nei film di Hollywood) ha capito pochissimo, e del francese ancora meno. A bordo di una nave Costa crociere, poi nei pressi di una pompa di benzina, tra Odessa e la Corazzata Potemkin, il maestro non perde occasione per ribadire – a slogan o frasi smozzicate – il male che pensa degli Stati Uniti (e di Israele). “Quo vadis Europa?” è la grande domanda. Risposte a scelta: a) vaga senza bussola; b) sta andando contro l'iceberg mentre noi balliamo al suon dell'orchestrina. Cose che capitano, a furia di trattare Godard come un genio del cinema e un brillante filosofo. 
     
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