Oh mio welfare, sì bello e perduto.

Giuliano Ferrara

La globalizzazione non è una rapina, è il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente (per usare la lingua del marxismo cara ai nostalgici del compromesso socialdemocratico), è lo sviluppo nell'epoca tecnologica e dell'informazione digitale, è l'immissione di masse storicamente diseredate in un mercato nel quale si pagano alti prezzi sociali, ma in vista di una eredità finalmente positiva, fattiva, vitale.

    Al direttore - Roma locuta, causa finita. Roma (il Corriere della Sera) ha parlato, la causa (il socialismo) è finita. Era già finito il socialismo reale (il comunismo) e i moderati di tutto il mondo attendevano la fine del “socialismo della spesa” (traduzione maligna della antica e osannata espressione: “Compromesso socialdemocratico”). Perché il “compromesso socialdemocratico” è in agonia? Perché la travolgente globalizzazione del capitalismo finanziario ha travolto gli equilibri istituzionali, politici e sociali nazionali e ha scaricato sul capitalismo della produzione reale e sulle aree del lavoro nazionale il peso delle sue rapine.
    Il prof. Panebianco annuncia austerità e conservazione di un minimo di stato sociale residuale, ma non ci spiega perché siamo ridotti in queste condizioni. Non siamo vetero se affermiamo che il decisore di prima istanza (il capitalismo finanziario) ha rotto il patto dei decisori nazionali (capitalismo e lavoro). E se le cose stanno così, è illusorio immaginare che il sacrificio di massa possa passare pacificamente senza che non vi sia una profonda rottura sociale. Ma ciò non è già scritto nel grande libro della storia. Vi è un'altra strada maestra: portare tra i decisori globali di prima istanza il mondo del capitalismo della produzione e quello del lavoro. In politica gli errori si pagano con uno spostamento dell'asse del potere di decisione. Chi ha sbagliato deve pagare.
    Il revisionismo socialdemocratico tedesco negli anni Venti del secolo scorso aveva già parlato dei pericoli del capitalismo finanziario. I conservatori italiani sono sempre in ritardo.
    La nostra sinistra è disorientata.  Per fortuna ne comincia a parlare Papa Ratzinger! Fraterni saluti   

    Rino Formica, leader socialista ed ex ministro delle Finanze

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     Al direttore - Nell'ondata speculativa contro l'euro e le economie dell'Unione è assai probabile che fin dall'inizio vi sia stato un obiettivo ideologico, oltre che l'attesa di un ingente guadagno: l'attacco allo stato sociale, condotto anche grazie a uno straordinario ribaltamento della realtà. All'improvviso la crisi nata dall'incoscienza e dalla sregolatezza dei colossi della finanza, i campioni del capitalismo d'assalto, è diventata nella narrazione corrente il prodotto del welfare state. Quello europeo in prima battuta, ma poi, per estensione, anche quello a cui ha cominciato appena a pensare il presidente Usa, Barack Obama. 
    I conti pubblici della Grecia e degli altri paesi latini, Italia compresa, così come l'egoismo dei principali popoli del Vecchio continente di fronte alla necessità di una decisione di responsabilità collettiva, hanno certamente fornito ai fondi di investimento statunitensi e ai principali operatori finanziari internazionali l'occasione di un incasso straordinario attraverso un attacco speculativo senza precedenti. Ma l'avvio di una così vasta offensiva e le dichiarazioni a mercati aperti di tanti economisti, guru e perfino di politici Usa ed europei sarebbero stati almeno in parte irragionevoli, se in questi comportamenti non vi fosse stata anche una spinta di natura diversa, culturale prima che politica.
    Da molto tempo è noto che i conti pubblici degli Stati Uniti e della Gran Bretagna non stanno meglio di quelli greci. Secondo il Congressional Budget Office, il deficit pubblico degli Usa nel 2009 ha toccato gli 1,4 trilioni di dollari, pari all'11,2 per cento del pil. Il buco prodotto dalla differenza tra le entrate e le spese pubbliche scenderà, se tutto andrà per il meglio, al 9,6 per cento del pil nel 2010, al 6,1 nel 2011 e al 3,7 nel 2012. Il debito pubblico statunitense è inoltre passato da un ammontare pari al 41 per cento del pil Usa nel 2008 al 68 per cento. Ma soprattutto, tra i diversi scenari disegnati per il futuro l'ufficio studi sul bilancio Usa ne ha previsto uno particolarmente pessimistico: se vi saranno altri intoppi, si rischia che nel 2039 il debito pubblico Usa possa essere pari al 215 per cento del pil. Perché dunque non sono stati messi nel mirino anche gli Usa? Perché Moody's non ha declassato le emissioni di Usa e Uk? Sarebbe stato ragionevole, almeno a giudicare da come le agenzie di rating si sono comportate nei confronti degli europei. Se la spesa pubblica era il parametro della paura, lo doveva essere per la Grecia e la Spagna come per la Gran Bretagna. A meno che nelle iniziative dei principali operatori finanziari del pianeta, dalle grandi banche d'affari Usa ai fondi transnazionali di cultura e di ispirazione anglosassone, non fosse implicito anche un atteggiamento di tipo appunto ideologico: l'idea che in fondo un'economia non può essere solida se, come quelle europee, si basa sul welfare state.
    Basti ricordare in proposito le difficoltà che ha dovuto superare il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, per far approvare la riforma sanitaria nel proprio paese, l'allarme sul rischio di una crescita eslosiva del deficit e del debito pubblico negli States, il grido di dolore dei repubblicani e di molti democratici per la discesa in campo dello stato in un mercato che per decenni ha garantito enormi ricavi ai colossi privati delle assicurazioni e della finanza nordamericana, e anche il richiamo alla necessità di mantenere intatte le risorse finanziarie per difendere la leadership Usa. Niall Ferguson, professore alla Università di Harvard, su questo punto ha scritto un lungo e cristallino articolo su Aspenia, rivista dell'Aspen Institute Italia: “Ecco come si verifica il declino di un impero. Inizia con l'esplosione del debito e termina con una inesorabile riduzione delle risorse per le forze armate. E' per questo che gli elettori fanno bene a preoccuparsi per la crisi del debito Usa”. Più chiaro di così non poteva essere. Per queste ragioni il moltiplicarsi dei commenti sulla necessità (ineluttabilità) di superare l'impasse della crisi finanziaria “solo” o soprattutto con nuovi e decisivi tagli allo stato sociale andrebbe considerato con qualche diffidenza. Perché è necessario tagliare gli sprechi. E' sano pensare di ripulire la spesa pubblica, evitando clientele, trucchi, mazzette. E' giusto mantenere in ordine i conti pubblici e rilanciare la produttività. E' un'idea sacrosanta quella di fare in modo che lo stato sociale non abbia un costo superiore alle proprie, concrete possibilità. Ma non è sano venir meno così facilmente e docilmente alla propria cultura, alle proprie idee e tradizioni, al proprio mondo, in questo caso quello dell'Europa che è stata costruita nel secondo Dopoguerra. Repubblicani e democratici Usa, contrari alla riforma sanitaria, non hanno abbassato le proprie bandiere dopo l'approvazione della legge. La Gran Bretagna, che pure è nei guai per la dissennatezza dimostrata dalle grandi centrali finanziarie, non ha cambiato idea sul fatto che non vuole regole troppo stringenti. Non solo. Diffidente dei partner continentali, ha ribadito che dell'euro non vuol nemmeno sentir parlare. Perché dunque dovremmo essere noi europei ad abbandonare le nostre idee, la tradizione di un'economia per quanto possibile “gentile”? Perché lo vuole la Goldman Sachs o Warren Buffet, impauriti dalle scelte compiute da Barack Obama? E infine: perché dobbiamo così docilmente fare nostra (almeno a leggere gli editoriali dei principali quotidiani italiani) la spiegazione della crisi che ci stanno fornendo i turbocapitalisti che hanno portato il mondo al disastro a causa della propria bulimia? Forse è venuto il momento di rimettere la realtà con i piedi per terra: lo stato sociale andrà pure reso compatibile con le risorse finanziarie disponibili, ma non è stato il welfare la causa della drammatica crisi che stiamo vivendo.


    Roberto Seghetti, giornalista di Panorama

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    Caro Formica, la globalizzazione non è una rapina, è il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente (per usare la lingua del marxismo cara ai nostalgici del compromesso socialdemocratico), è lo sviluppo nell'epoca tecnologica e dell'informazione digitale, è l'immissione di masse storicamente diseredate in un mercato nel quale si pagano alti prezzi sociali, ma in vista di una eredità finalmente positiva, fattiva, vitale. La globalizzazione ha già ridotto le povertà da sottosviluppo, dice con buoni numeri e argomenti l'Economist.

    E non mi sembra una vulgata ideologica. Naturalmente la globalizzazione ha anche generato paurosi squilibri e pazze tendenze speculative, ma questo è il sale, in senso schumpeteriano, di un capitalismo che distrugge e ricostruisce, sistema semper reformandum, danzando intorno al tema della ricchezza e non, come il suo inverso storico-logico, intorno al fantasma della povertà egualitaria. Rottura sociale? E' nel conto. Ritorno al potere dei decisori nazionali? Mi sembra improbabile.

    A Roberto Seghetti vorrei dire che gli Stati Uniti, secondo le stime da lui raccolte, torneranno a un deficit del 3,7 per cento in due anni perché cresceranno, e cresceranno perché in quel continente capitalistico sviluppato, come in Cina e India d'altra parte, si lavora, il tasso di occupazione è solidamente competitivo con il nostro, i salari sono più alti, l'economia dei consumi determinante, la spesa “imperiale” ha uno spazio decisivo insieme con il suo fall out in ricerca e innovazione tecnica, e la prevalenza del capitale finanziario può essere più o meno demagogicamente regolata, ma nessun americano negherebbe che è un motore di sviluppo, prima che un agente di speculazione.

    Non voglio un'Europa americana o asiatica, ma dobbiamo riconoscere, a mio giudizio, che dietro la questione del welfare opulento e della sua razionalizzazione riformatrice, si colloca bene in vista la questione dirimente, non solo filosofica ma politica, del nesso tra libertà e responsabilità. lavoriamo meno, siamo meno liberi socialmente dallo stato, siamo meno responsabili. Non è solo la cattiva speculazione che ci mette in ginocchio: è anche la nostra buona coscienza, la nostra dolce vita. 

    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.