Indovina chi ride adesso

Paola Peduzzi

Il 6 maggio 2010, giorno del cinquantasettesimo compleanno di Tony Blair, si terranno le prossime elezioni inglesi, le prime in tredici anni senza l'ex premier neolaburista come candidato. Per i nostalgici, ci sono alcune piccole consolazioni: c'è un simil Blair nel campo conservatore, il leader David Cameron, che ha avuto il merito (per ora più o meno l'unico, seppure decisivo) di riportare i Tory verso il centro e nei cuori dei britannici, togliendo quella patina di “brutti e cattivi” che si era appoggiata sopra al partito in tanti anni di opposizione.

    “18 marzo 1997. ‘Non so spiegare quanto mi si accartoccia lo stomaco se penso che dobbiamo farci sei settimane così', dice Tony Blair. Un giorno di pausa. Poi ricomincia l'ansia, lo stomaco chiuso. Benvenuti alla campagna elettorale inglese”.
        da “The Blair Years” di Alastair Campbell

    Il 6 maggio 2010, giorno del cinquantasettesimo compleanno di Tony Blair, si terranno le prossime elezioni inglesi, le prime in tredici anni senza l'ex premier neolaburista come candidato. Per i nostalgici, ci sono alcune piccole consolazioni: c'è un simil Blair nel campo conservatore, il leader David Cameron, che ha avuto il merito (per ora più o meno l'unico, seppure decisivo) di riportare i Tory verso il centro e nei cuori dei britannici, togliendo quella patina di “brutti e cattivi” che si era appoggiata sopra al partito in tanti anni di opposizione; il team di Cameron, tanto affiatato quanto litigioso, ricorda da vicino quello di Blair, con la sua forza, i suoi pasticci, le sue rivalità, la sua caccia a un tema che diventi “il tema”, la svolta nella campagna elettorale; se Cameron dovesse vincere – al momento il vantaggio varia dai quattro ai dieci punti percentuali –, a Downing Street a settembre si farebbe festa per l'arrivo di un bebè, proprio come accadde a Blair con l'arrivo del piccolo Leo nel 2000.

    Insomma c'è un pizzico di blairismo anche in quest'elezione, a dire il vero c'è pure Blair in persona che, poco più di una settimana fa, ha spiegato (senza nemmeno una smorfia) perché il New Labour di Gordon Brown si merita il quarto mandato. Persino Roman Polanski, con tutti i problemi che ha, sta contribuendo a spargere un po' di (anti)blairismo in giro, con il suo ultimo film – tratto dal libro “The Ghost” di Robert Harris – in cui si ritrae un ex premier inglese molto simile a Blair perfido, maligno, complottista e forse persino assassino.

    Dettagli per nostalgici a parte, la campagna elettorale che si è aperta ieri è tutta un'altra partita rispetto al passato, e il Regno Unito è tutto un altro paese rispetto a quello che incoronò Blair e il blairismo. Gli esperti dicono che ci sarà da divertirsi, perché il risultato è quanto mai imprevedibile, con sommo dispiacere dei conservatori, artefici finora del più grande spreco di vantaggio che la storia moderna ricordi. Soltanto qualche mese fa Cameron aveva una ventina di punti percentuali in più rispetto ai laburisti, alla convention di partito nell'ottobre scorso si brindò sciaguratamente a una vittoria certa, e ora ci si ritrova costretti a fare i conti: con quanto vantaggio si diventa il primo partito? Quanti “swing voters” ci vogliono perché il sistema elettorale non premi il partito che è già al potere?

    Da bravi contabili, i cameroniani si sono messi lì a spulciare statistiche, a studiare le tendenze di voto, a mettere a punto diverse strategie per diversi scenari con l'obiettivo di individuare quali saranno le circoscrizioni più delicate e per capire dove bisogna concentrare le forze (numeri utili da sapere per comprendere la valanga di sondaggi che i giornali inglesi producono quotidianamente: perché i conservatori siano il primo partito, ci deve essere un cambio di voto dal Labour ai Tory del 4,6 per cento; perché i Tory conquistino i 116 seggi che servono per avere la maggioranza ci deve essere un passaggio di voti del 6,9 per cento o un vantaggio di almeno dieci punti percentuali dei Tory sul Labour). Ogni tanto persino ai più fedeli scappa qualche maledizione, perché sarà pur vero che il Labour in tanti anni di governo ha consolidato una struttura elettorale granitica; sarà pur vero che Cameron ha dovuto lavorare sodo per conquistare il suo stesso partito, con tutte le remore che c'erano nei confronti di un giovane ricco con il capriccio della politica; sarà pur vero che la crisi ha cambiato tutti i punti di riferimento, con improvvisi populismi e tendenze antimercatiste; sarà tutto vero, ma questo voto era un rigore a porta vuota e Cameron l'ha trasformato, a essere ottimisti, in un calcio di punizione.

    Che cosa è successo? Circolano spiegazioni diverse, naturalmente, ma al fondo tutte riportano a un'unica variabile: il “cameronismo” non esiste. Lo stesso leader conservatore ha più volte detto di essere allergico a etichette e “ismi”, e ha cercato fino all'ultimo di non farsi ingabbiare in qualsivoglia definizione. Il risultato è che la maggior parte degli inglesi non sa dire, a poche settimane dal voto, quali sono i punti fermi della campagna elettorale dei conservatori, se le tasse saranno tagliate e se sì quali, se le spese saranno ridimensionate e se sì quali e quando, se il sistema sociale sarà riformato e se sì come. Soprattutto non sanno dire se Cameron è l'uomo giusto per traghettare l'Inghilterra fuori dalla crisi, ora che si intravvedono all'orizzonte i primi segnali di ripresa. In questo senso il leader conservatore assomiglia molto più a Barack Obama che a Tony Blair, in quanto ha preferito puntare sul carisma personale e sulla capacità di confenzionare un “change” piuttosto che su un programma elettorale tradizionale. I sondaggi dicono che in parte l'obiettivo è stato centrato, ma con qualche riserva: un voto a scatola chiusa, in tempi di crisi, può essere un po' troppo rischioso.

    Nel frattempo anche Gordon Brown è uscito dal cono d'ombra in cui vive da quando è entrato al numero 10 di Downing Street e, complice una miniripresa economica e un tesoretto messo via con la famigerata tassa sui bonus della City, ha rosicchiato punti al rivale. L'Independent ieri scriveva che addirittura Brown avrebbe dovuto ridere sotto i baffi mentre tornava da Buckingham Palace dopo aver chiesto alla regina Elisabetta di sciogliere il Parlamento lunedì e di indire le elezioni per il 6 maggio. Perché per Brown il momento è propizio: è Cameron che deve spiegare come ha fatto a rovinarsi in questi mesi pre elettorali, è a Cameron che spetta l'onere della prova sulla sua effettiva capacità di essere premier. Brown, mai eletto e da sempre inviso al grande pubblico britannico, premier lo è già, gli basta dire – come sta facendo – che la ripresa è vicina, che i ragazzini di Eton suoi rivali non possono che fare danni e cercare di far leva sull'indecisione. Il compito non è certo semplice, il cambiamento dopo tredici anni è una scelta quasi fisiologica per il Regno Unito e il premier ha mostrato troppe volte la sua debolezza, la sua mancanza di leadership e di coraggio per poter ancora contare su una grande di credibilità. Ma Brown ha dalla sua un'arma in più: non deve per forza vincere, gli basta pareggiare, gli basta che i Tory non ottengano la maggioranza assoluta per poter tornare ad avere un peso.

    Il pareggio, il Parlamento bloccato, la necessità di trovare un compagno di coalizione: questo è l'incubo oggi dei Tory, e il motivo per cui Brown sorride e i Lib-Dems di Nick Clegg si sono infilati la casacca dei “kingmaker” del prossimo voto. Ci provano a tutte le elezioni, a dire il vero, perché il grande sogno del terzo partito in un sistema bipolare è quello di fare da ago della bilancia, però questa volta potrebbe essere quella buona, anche grazie ai primi dibattiti tv della storia elettorale inglese – il primo sulla politica interna si terrà il 15 aprile su ITV1 e sarà moderato da Alastair Stewart – al quale parteciperà Clegg a pari rango con Brown e Cameron. I Lib-Dems non hanno voluto siglare un patto con i Tory, perché vogliono lasciare aperte tutte le possibilità e perché con il tempo si sono spostati su posizioni più spendibili a sinistra che a destra.

    Nel 2005 cercarono di distinguersi dagli altri partiti facendo una furiosa campagna contro la guerra in Iraq, mentre oggi puntano sul taglio delle spese per ridurre il deficit, su una riforma del sistema bancario (la City è terrorizzata all'idea che i Lib-Dems possano avere un ruolo nel prossimo governo, dal momento che ancora non si è riuscita a far piacere George Osborne, attuale cancelliere dello Scacchiere ombra) e sull'aumento delle tasse per i più ricchi. Sulla politica estera fanno molto gli europeisti per distanziarsi dai conservatori ma sostengono di voler adottare una “linea più dura” con gli americani per distanziarsi dai laburisti. Soprattutto sono gli unici oggi che non sono stati colpiti dagli scandali sulle spese che hanno travolto parecchi parlamentari, il che consente a Clegg di dire: “La vera scelta è tra la vecchia politica di laburisti e conservatori e qualcosa di diverso che solo noi offriamo”. Se il sogno da “kingmaker” si realizzerà è tutto da vedere, per ora ha di certo marcato il primo punto la signora Clegg, la spagnola Miriam Gonzalez Durantez, grande esperta di diritto commerciale nel megastudio di avvocati Dla Piper, che ha detto di voler, sì, seguire suo marito, ma lei non è come le altre signore della politica inglese, lei è una cittadina normale, “lavoro, non posso prendermi cinque settimane di vacanza”.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi