Così una riforma tutt'altro che radicale scatena gli istinti più radicali

Paola Peduzzi

"Non è una riforma radicale, ma è una riforma molto importante”, ha detto Barack Obama commentando esultante, domenica notte, il voto alla Camera della legge che estende a 32 milioni di americani la copertura sanitaria. Il presidente sa che dell'ispirazione originaria, della grande rivoluzione bipartisan, non si è salvato molto, ma poter mettere il proprio nome in calce alla riforma, dopo gli storici fallimenti dei Roosevelt dei Truman dei Johnson e dei Clinton, ha già un che di inebriante. “This is what change looks like”.

    "Non è una riforma radicale, ma è una riforma molto importante”, ha detto Barack Obama commentando esultante, domenica notte, il voto alla Camera della legge che estende a 32 milioni di americani la copertura sanitaria. Il presidente sa che dell'ispirazione originaria, della grande rivoluzione bipartisan, non si è salvato molto, ma poter mettere il proprio nome in calce alla riforma, dopo gli storici fallimenti dei Roosevelt dei Truman dei Johnson e dei Clinton, ha già un che di inebriante. “This is what change looks like”, il cambiamento è così, anche ai tempi di Obama, un passo in avanti verso il grande sogno democratico della sanità per tutti. Con quel che ha speso in questa battaglia, Obama non può che gioire, finalmente c'è qualcosa di concreto da mettere in curriculum, era da prima dell'estate scorsa che i grandi progetti della Casa Bianca ristagnavano nel gioco dei compromessi e non ne venivano fuori. Ora c'è l'Obamacare, cosa quasi insperata fino a un mese fa, e il suo peso si farà sentire subito e poi nel giro di qualche mese, alle elezioni di metà mandato a novembre. Il grande interrogativo, una volta firmata la legge, è tutto qui: i democratici usciranno rafforzati dalla riforma o no?

    Come scrive il New York Times, la legge può essere allo stesso tempo un risultato storico e un suicidio politico. Il paradosso non è eccessivo. L'esito finale non è né il cambiamento radicale originariamente sperato dai liberal – la famosa “public option”, l'introduzione dell'assicurazione pubblica – né l'arrivo del socialismo al potere come denunciano i conservatori. E' un compromesso, che non cambia sostanzialmente la natura del sistema – un sistema che è l'esatto contrario di quello europeo, è pagato e gestito dai privati, quando dalle nostre parti è pagato e gestito dal pubblico; che impone maggiori regole alle assicurazioni, oggi più o meno libere di fare quello che vogliono; che allarga a chi non ha alcuna copertura i benefici di Medicare e Medicaid, introducendo nuovi aiuti per chi non rientra né tra i poveri né tra gli anziani. E' una riforma moderata, insomma, che dovrebbe piacere a tutti i moderati, tra i repubblicani e tra i democratici, e semmai il dibattito dovrebbe essere su come trovare i finanziamenti. Su questo, infatti, i democratici hanno adottato stratagemmi non del tutto trasparenti, spostando in avanti nel tempo i costi derivanti dall'allargamento della copertura (a partire dal 2014) e conteggiando fin da subito invece i maggiori introiti derivanti dalle tasse. Così la manovra sarebbe addirittura di alleggerimento al deficit, nei prossimi dieci anni, quando invece calcoli non viziati da tifoserie di parte dimostrano che il costo in dieci anni si aggira sui 500 miliardi di dollari. Ma al di là dei finanziamenti, che andranno trovati, e non sarà facile, la riforma è tutt'altro che partigiana.

    “Il Congresso si è diviso per passare una versione repubblicana della riforma sanitaria, e i repubblicani voteranno contro”, ha scritto E.J. Dionne sul Washington Post alla vigilia del voto, illuminando il paradosso: l'Obamacare non è socialista né mercatista, è una via di mezzo. Non a caso l'ala liberal del Partito democratico è in rotta con la Casa Bianca da mesi, nonostante ancora oggi media conservatori come il Wall Street Journal sostengano che la riforma sia la quintessenza dello spirito liberal, come mostra il sostegno della speaker della Camera Nancy Pelosi. I repubblicani si sono accaniti contro questa legge e non hanno concesso nemmeno uno dei loro voti (mancano all'appello anche 34 voti democratici), seppellendo uno dei pilastri dell'obamismo: il dialogo e la collaborazione tra partiti. Il lavoro dell'opposizione sarà più facile: la riforma non s'ha da fare, se ci votate e ci riportate ad avere un peso al Congresso la ribalteremo. Questo slogan ha il dono della chiarezza, che manca ai democratici: molti di loro dovranno giustificarsi con i loro elettori per aver votato no alla legge salvo poi cambiare idea all'ultimo minuto.

    Al voto di novembre, che già si prospettava difficile per i democratici (sono sempre di più le defezioni di quelli che sanno di non poter mantenere il seggio), il paradosso potrebbe emergere in tutta la sua forza: una riforma moderata diventerà materiale elettorale buono per gli estremismi di entrambe le parti. E se l'economia non riparte, se l'occupazione non cresce, se trovare i soldi pure per la riforma sanitaria diventerà un problema, gli effetti si faranno sentire anche e soprattutto nel 2012.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi