Divine mondane d'antan

Nicoletta Tiliacos

Non “alla ricerca del tempo perduto”, ma semmai “alla ricerca del presente perduto”, dice il suo amico Raffaele La Capria, è la vera sigla di Alberto Arbasino. I racconti delle mondanità, delle scorribande cultural-sociali di cui è stato protagonista e testimone, nella loro incessante manipolazione restano materia letterariamente viva.

    Non “alla ricerca del tempo perduto”, ma semmai “alla ricerca del presente perduto”, dice il suo amico Raffaele La Capria, è la vera sigla di Alberto Arbasino. I racconti delle mondanità, delle scorribande cultural-sociali di cui è stato protagonista e testimone, nella loro incessante manipolazione restano materia letterariamente viva. Forse perché Arbasino va a teatro come se dovesse incontrare vecchi amici e fare nuove conoscenze e, viceversa, frequenta salotti (e gran simposi in trattoria) con lo stesso spirito con cui altri andrebbero a teatro.
    L'indizio lo fornisce lui stesso nella Cronologia del suo Meridiano Mondadori, a proposito di un Carnevale a Monaco, nel 1987, quando assiste alla rappresentazione del “Pipistrello” di Johann Strauss II, diretto da Carlos Kleiber, “forse lo spettacolo più mirabile di quegli anni”: “Ma quando il gran palco girevole incomincia a ruotare con tutti i festanti sopra, allora la contaminazione fra la scena e la sala diventa reciproca, assolutamente dionisiaca”.

    C'era un che di dionisiaco, certamente, e si annunciavano imprevedibili
    contaminazioni anche nel tempo nel quale il giovane Arbasino arrivò a Roma, nel 1957, e poi per tutti i Sessanta e oltre. Un dionisiaco quotidiano ma non per questo meno entusiasmante (nel senso letterale di “provocatore di ispirazione”). L'attrice Adriana Asti ricorda “un periodo eccezionale, e un grande gruppo di persone variegate e straordinarie che si muovevano sempre insieme, e che per me è stato un privilegio assoluto conoscere e frequentare. Insieme a colazione, a cena, in gita domenicale. Si poteva scegliere tra decine di cose da fare, da vedere, da inventare. E il mio amico Alberto era la quintessenza di quel mondo, anche per il ruolo di testimone che, per fortuna di tutti noi, si è dato”.
    Un testimone programmaticamente  lontano dall'aborrito “proustismo di maniera” e dall'insidioso effetto Commozione e Rievocazione, con il rischio sempre incombente di trovare inopinatamente sostituita “una pizzetta alla madeleine” (“Fratelli d'Italia”). Quel rischio è da Arbasino denunciato nella citata Cronologia del Meridiano – da lui stesso compilata con il curatore, Raffaele Manica – che è anche la cronaca di tempi ormai favolosi e necessariamente rimpianti.

    Tempi nei quali maturò e poi avvenne “quello ‘scatto', verso la metà degli anni Sessanta”
    (scrive Arbasino nel 1968 nell'introduzione di “Off-off”, Feltrinelli, 1968) “quando la Forza delle Cose – improvvisamente – sbloccò situazioni culturali intere; e le portò avanti come una mareggiata imprevista, facinorosa e felice… fino alla risacca successiva”.
    Sempre bando ai proustismi, però. Alla prima occasione utile (una “sommaria auto-cronologia” degli anni Cinquanta e Sessanta romani scritta per Repubblica: “Memorie quasi indiscrete”, 30 luglio 2003), Arbasino mette le mani avanti:  “Però, lasciando perdere soprattutto l'intimismo del Sé – i disturbi, i dispiaceri, i mangiarini, i babbi morti e le povere zie – si può dar l'impressione che una memoria ‘obiettiva' sia soprattutto elencatoria e fotografica. Pazienza. Fra noi, il vero ‘journal' si è sempre usato pochissimo. E volendo ricordare soprattutto i ‘contesti', si è cercato di attenersi tuttora a Roberto Longhi: esser brevi e veridici, con parole possibilmente ‘conte e acconce'”.
    Lo spirito giocoso, del resto, soccorre. A proposito di Proust, Arbasino si chiede (nel primo capitolo di “Parigi o cara”, Adelphi): se “non fosse morto nel 1922, e sepolto al Père Lachaise, che cosa avrebbe fatto al tempo dell'occupazione tedesca? Sulla settantina circa, avrebbe potuto combinare ancora parecchio; e l'amico Reynaldo, di poco più giovane, morrà infatti nel '47 (…). Durante la guerra non avrebbe lasciato Parigi per motivi di salute. (Del resto erano lì tutti).

    Sarebbe rimasto a casa sua sotto l'occupazione.
    Avrebbe ricevuto Ernst Jünger in divisa, avrebbero chiacchierato di fiori rari e poeti minori? Non avrebbe ricusato i posti a teatro offerti da Vaudoyer per una générale di Sartre”.
    Soccorre, contro il proustismo di maniera, anche il “realismo dell'antropologo” (alla Lévi-Strauss: più si studia, anche sul campo, più il mistero umano si infittisce). Eppure “fu impressionante, arrivando da Milano a Roma, la sensazione di ‘cominciare a esistere'”, ha scritto Arbasino. Per lui  l'invito mondano non è “il magico ‘sesamo apriti' a cui si spalancano le porte della vita” (Adorno dei “Minima moralia”, sempre a proposito di Proust, citato in “Fratelli d'Italia”, 1993), ma certo comincia a fare della mondanità il proprio elemento.
    E' di questa idea Mario D'Urso, amico da molti anni di Arbasino, così come lo era stato suo padre, l'avvocato napoletano Sandro D'Urso. Al Foglio, racconta “di aver incontrato da poco Alberto in occasione della gran festa per i cent'anni della contessa Giuseppina Emo (moglie del filosofo Andrea, nata principessa Ruspoli) nella splendida villa palladiana di famiglia. Ma mi diverte ricordare Alberto, una ventina d'anni fa, a Düsseldorf, al compleanno di Konrad Henkel, magnate della chimica tedesca. La moglie Gabriele, grande animatrice culturale, aveva organizzato due grandi serate e, durante la seconda, un leoncino mandò il festeggiato all'ospedale”. Fu quella volta, tra una festa e l'altra, che Arbasino consigliò ai D'Urso, padre e figlio, “di visitare una certa mostra, in un posto lontanissimo, fuori città, che ci deluse molto”. A distanza di anni, il dubbio che si trattasse di uno scherzo non è del tutto rimosso, “ma ad Arbasino si perdona tutto: è un gran conversatore, giovanotto perenne, prediletto di nobildonne: come la figlia di Andrea Emo, Marina, sua carissima amica, e come le tre sorelle Pecci”. 

    E' vero, ripetono in coro i suoi amici.
    Le nobildonne si addicono ad Arbasino. Gran cultore di genealogie – leggersi. per esempio, quella di Ludwig di Baviera, raccontata da Klaus in “Fratelli d'Italia” – non può che deliziarlo l'idea che le rappresentanti di antiche famiglie cariche di storia riescano ancor oggi a battibeccare su fatti che riguardano remotissimi antenati. E nell'apprendere (sempre dal Meridiano) che nel 1989, durante un viaggio a Vienna, Arbasino riuscì ad assistere,“per puro caso, alle esequie solenni dell'ex-imperatrice Zita, con gran pompe funebri asburgiche”, si è autorizzati a pensare che alla vedova di Carlo IV, morta novantasettenne, non potesse capitare testimone più adatto dell'evento.
    Arbasino stesso elenca nell'“auto-cronologia” scritta nel 2003 le “sue” divine mondane d'antan: “Impressionanti o affascinanti erano soprattutto le grandi bellezze nella ‘società' e ai primi festival di Spoleto: Domietta del Drago, Domitilla Ruspoli, Marella Agnelli, Kiki Brandolini, Irene Galitzine, Consuelo Crespi, Luciana Pignatelli, Afdera e Lorian Franchetti, Marizina e Nicoletta Odescalchi, Doris Pignatelli, Loredana Pavone, Francesca Strongoli, Laetitia Boncompagni, Gabriella Parisi, Sveva Romanoff…”.

    Mentre, enumera sempre Arbasino, “le signore più intellettuali – fra i salotti degli Astaldi e dei Bellonci e dei Graziadei e dei D'Avack – erano soprattutto Paola Masino, Irene Brin, Alba de Céspedes, Linda Chittaro, la bellissima Livia de Stefani, l'estrosa Elsa de Giorgi che festeggiava i compleanni ballando il Bolero di Ravel in costume da ‘rat d'hôtel' (e cambiando da sé i dischi a 78 giri) davanti a Levi, Argan, Sapegno, Petrassi, attori dei telefoni bianchi e illustri Lincei. Gadda temeva che lo chiedesse in marito: ‘Tenta di invitarmi nelle sale da tè coi due lascivi cani Rosaura e Florindo, ma a suo tempo già sedusse Calvino con la sua signorilità, estraendo dalla borsetta un baby champagne che poi beveva tutto da sé'”.
    Per Arbasino, nessun contrasto potrebbe essere più grande tra la socialità fantasmagorica di quegli anni e i recinti austeri del salotto esclusivamente domenicale della “tremenda nonna Carolina”, la nonna Arbasino nella cui casa confluivano “giocondi reverendi e cugini radicali ‘pieni di aghi in corpo' in coretti e mottetti davanti alle mensola-bar con specchi e lampadine e liquori soltanto festivi”. E per esemplificare l'idea della grande fuga nel mondo che si realizzò per il giovane di Voghera nel giro di boa del secolo, niente di meglio del rispecchiamento nell'amato Gadda. Nell'“Ingegnere in blu” (Adelphi), ritratto di Gadda che “forse è anche un autoritratto”, Arbasino farà risalire “l'opus dell'Ingegnere agli interdetti agonici e dai tabù tetanici delle famiglie appiccicate e recluse che borbottano meccanicamente rosari, al buio per economia, e considerano ogni spesa una calamità, ogni scampanellata un annunzio di sventura, ogni viaggio uno sperpero inammissibile, ogni divertimento una vergogna insensata; e tengono come solo metro di giudizio che cosa ne penserebbero gli altri, i vicini, le vicine, le zie, le cugine, le vecchine, e una certa famiglia di conoscenza che funziona (da decenni, reciprocamente) come esempio, come controllo, come giudice”.

    Un mondo in cui lo shimmy ballato dai genitori di Arbasino
    negli anni Venti poteva apparire il massimo della trasgressione possibile.
    Poi, a un certo punto, tutto finito. Nella Roma accogliente di un dopoguerra in attesa di boom, arrivano la più totale libertà, le porte spalancate, la civiltà della conversazione. Un Paese dei balocchi senza Grilli parlanti e con molte Fate turchine scatenatissime. Il programma quotidiano era questo: in fine pomeriggio, nella redazione del Mondo, grandi conversari “sui giornali inglesi con Sandro De Feo, Nicola Chiaromonte, Giulia Massari, Nina Ruffini, Vittorio Gorresio, Vittorio De Caprariis, Rodolfo Wilcock, Francesco Compagna, ed eleganti avvocati liberali e repubblicani (Libonati, Cattani, Ferrara, Battaglia) in gessati o grisailles e baffetti bianchi, come i tenenti colonnelli a Voghera. A colazione, ogni giorno, alla Trattoria Romana, in via Frattina, soprattutto tra gente di spettacolo – Bolognini, Zeffirelli, Tosi, Asti, Betti, Pizzi, Missiroli, Tirelli – e continui motti di spirito”. Mentre “per la sera si preferiva Cesaretto: con Flaiano e Comisso e La Capria e Soldati e gli eleganti Giovanni Urbani e Sandro Viola e Antonio Delfini ed eventuali relitti fiumani vagamente diabolici e cattolici amici di Comisso e Soldati come Henry Furst e Archie Colquhun, traduttore di Manzoni. Più tardi, dopo gli spettacoli e i pranzi, a via Veneto: Patti, De Feo, Pannunzio, Gorresio, Carlo Levi, Franca Valeri, Caprioli, Nora Ricci, Flaiano, Gassman, Gian Gaspare Napolitano, talvolta Saragat, fra ‘personaggi balzachiani', ‘pittoreschi produttori', ‘caratteristici siculi', ‘Hollywood sul Tevere', e i paparazzi, e i soprannomi… Da Canova, i vecchi artisti: Francalancia, Trombadori, Mazzacurati, Turcato, Monachesi, Cagli, Mafai. In seguito, fra la Tartaruga e Rosati, la ‘Scuola di Piazza del Popolo': Schifano, Fioroni, Angeli, Pascali, Tacchi, Festa, Mattiacci, Marotta, E. Novelli, Perilli…”. Spesso “più carini e belli delle loro opere pop: come risulta dalle foto di Elisabetta Catalano (un genio dell'immagine), fra stupende ragazze (Marina Lante, Talitha Getty, Graziella Lonardi, Marta Marzotto, Nancy Ruspoli…) con Moravia e Morante e Gadda e Parise e Levi e Palma Bucarelli (come ‘Grande Falciatrice') e Tristan Tzara (conferenziere su Villon esoterico all'Open Gate) sovente nello sfondo”.

    Tutto questo accade a Roma, ma “senza dimenticare
    , magari, che in quegli stessi anni a Milano si trovavano Montale e Quasimodo, Buzzati e Vittorini, Bo e Bacchelli, Montanelli e Longanesi, Malaparte e Vergani, Luciana Peverelli e Franco Fortini, Ennio Morlotti e Wanda Osiris, Raffaele Mattioli e Giangiacomo Feltrinelli, Camilla Cederna e Piero Manzoni, Ugo Mulas e Gianni Testori, Cesare Musatti e i fratelli Pomodoro, Beniamino dal Fabbro e Mario Missiroli e Franco Fornari, Strehler, Ottieri, Gavazzeni, Baj, Bavagnoli, Gregotti, Pietrino Bianchi, Italo Pietra, Giuliano Gramigna, Emilio Tadini, Marco Valsecchi, Maria Callas…”.

    La stessa sensazione di libertà e di scoperta la ricorda bene anche Margherita Boniver. Figlia di un diplomatico, fino al '62 in giro tra Washington, Bucarest e Londra, arriva a Roma nel 1962, poco più che ventenne, e conosce “subito Alberto, che mi fu presentato da Mario Missiroli”, il regista che poco dopo avrebbe diretto l'unico film tratto da un romanzo di Arbasino, “La bella di Lodi”. Da allora, spiega al Foglio Margherita Boniver, “con Alberto abbiamo fatto mille cose insieme, in una specie di movida frenetica a cavallo tra Roma e Milano. Io lavoravo in una galleria d'arte di via Margutta (si chiamava Galleria Ottantotto) per poter restituire a mio padre i soldi di una bolletta telefonica da un milione e mezzo di lire: una cifra spaventosa per quell'epoca (avevo passato ore e ore al telefono con un fidanzato, tra Londra e Roma). Lavoravo, ma non saprei nemmeno dire come, visto che facevamo sempre le quattro del mattino. Era un momento straordinario per Roma, un periodo molto felice. Ogni sera c'erano almeno cinque o sei cose che ci aspettavano. Finito il lavoro, si beveva qualcosa dalle parti di piazza del Popolo e si faceva una prima ricognizione su che cosa fare della nostra notte. Si andava al ristorante e poi tutti al cinema (all'epoca i film cominciavano alle undici). Dopo il cinema, si andava a via Veneto, a bere un altro bicchiere. Alla fine, per effetto di una specie di selezione naturale, i più attempati andavano a casa e noi andavamo a ballare al Club 84 di via Emilia, dove si facevano sempre le ore piccole. Alberto naturalmente era sempre dei nostri. Poi c'erano il teatro, i concerti, le presentazioni di libri, le mostre: eravamo onnivori, presenzialisti, assetati di novità (anche se nessuno, nel nostro gruppo romano, seguiva Alberto all'Opera. E' invece capitato più volte che si facessero grandi trasferte a Parigi, per andare a vedere i film che qui la censura non faceva arrivare). Era anche l'epoca in cui nasceva il Gruppo 63, e Arbasino era un po' l'anima di tutto questo. Un trascinatore, una cometa che ti attirava nella sua scia luminosa. Ma dovevi stare al suo passo”.

    Margherita Boniver ne parla come di “uno straordinario compagno di giochi
    , di escursioni, di viaggi, di weekend. Colto e ironico come nessuno, pieno di mille curiosità, di energia, di intuizioni, mai un momento di down. Eravamo giovani, avevamo il privilegio di frequentare l'élite intellettuale del tempo e questo privilegio si confondeva con la nostra stessa giovinezza. Io lo chiamo il mio parco giochi romano, prima di Milano e della politica”.
    E poi c'era stata, nel 1966, quella famosa “Traviata” all'Opera del Cairo, regia di Arbasino, direttore Franco Mannino, e gli amici – la stessa Boniver, Letizia Paolozzi, Achille Mauri – a fare da trovarobe improvvisati, vista la totale autarchia dell'impresa: “Con Uberta Visconti, moglie di Mannino, portavamo avanti e indietro dall'albergo i necessari lieti calici”, scrive Arbasino. Furono in compenso acquistati “magnifici manti di cotone rasatello dorato, in vista di uno ‘storico' ballo benefico del Settecento veneziano a Ca' Rezzonico, ove con l'amico Stefano si andò abbigliati da mendicanti del Canaletto”.  E anni dopo, nel novembre del 1973, “estremo gran ballo veneziano per i diciotto anni di Olimpia Aldobrandini, a Palazzo Volpi (dalla contessa Nathalie, nonna della festeggiata). Impeccabile Andy Warhol: blue jeans sotto l'insieme-smoking”.

    Nella “tabula gratulatoria” inserita nella Cronologia del Meridiano, Arbasino attesta “le più gaie e liete serate (“Bei momenti”, Mozart), con le splendide Letizia Paolozzi e Gaia Servadio”. (“Dove sono i bei momenti/ Di dolcezza e di piacer”, canta la Contessa nelle “Nozze di Figaro”). La giornalista Letizia Paolozzi, a proposito della “Traviata” al Cairo, ricorda “grandi giri culturali, mentre Alberto tornava, dopo aver lavorato, con una messe di notizie, di immagini, di spigolature. Cose che aveva raccolto e visto solo lui, chissà come, e che ascoltavamo con stupore invidioso. Mi ricordo anch'io delle posate e dei bicchieri trasferiti di straforo dall'albergo per completare la scenografia dell'opera, e anche di un coro tutto in babbucce egiziane, mentre si brindava nei famosi lieti calici”. Arbasino lasciò a lei la sua casa “quando se ne andò da via del Consolato (lì si tenevano le riunioni del gruppo 63 e lì assistemmo tutti insieme allo sbarco sulla Luna). Un altro suo lascito è l'attaccapanni di ferro, comprato al mercato di Porta Portese, che divenne l'albero dei pullover, e che ancora conservo. Mi lasciò addirittura le chiavi della sua MG scoperta, nel periodo in cui ancora stava molto a Milano (a me, che praticamente non guidavo). Ma il vero regalo di Alberto e di altri amici del Gruppo 63, è stata la scoperta di un modo totalmente nuovo di leggere e di godere della letteratura. Ho imparato a guardare al linguaggio, prima di tutto, e a diffidare di quel ‘bello scrivere' che tanto perseguita la letteratura italiana. Di tutto questo Arbasino è stato un capofila, così come, poi, è stato anche un gran fustigatore degli eccessi”. Con lui, “non si sapeva mai quello che poteva succedere e chi poteva arrivare. Ci portava a casa mostri sacri come Viktor Sklovskij, per esempio, oppure Roland Barthes”. 

    Letizia Paolozzi fu della partita “oltre che per la ‘Traviata' al Cairo, anche in occasione dell'altra famosa regia operistica di Arbasino, la ‘Carmen' al Comunale di Bologna, con tutto il solito gruppone di amici che alloggiava al Baglioni. E non si contano le trasferte a Spoleto, per il Festival dei Due mondi. Eravamo liberi come forse nessuno prima di noi era stato, con l'idea che gli intrecci e le scelte potessero essere i più diversi, ma che non si dovesse mai tradire l'uso di mondo o superare il limite del cattivo gusto”. Arbasino, dice ancora Letizia Paolozzi, “a differenza di me, che ero quella faziosa – ma poi guarita, credo – ha sempre dimostrato un grande equilibrio e una grande stabilità nei giudizi. Perde la pazienza solo davanti a quello che non gli piace, e non conosce il partito preso, se non nelle cose che hanno a che fare con gli spettacoli o l'arte. Non conto le volte che mi ha trascinato via da un teatrino o da una cantina, perché diceva che l'audio era insopportabile o perché proprio si annoiava. Lui si è sempre dato l'autorevolezza e il ruolo di essere quello che dice per tutti: questo sì, questo no, questo basta. Sempre lontanissimo, per quanto fosse un suo grande amico, dal modo di guardare al passato di Pier Paolo Pasolini. Ad Arbasino le lucciole perdute non interessano, lui ha sempre accettato il flusso della modernità. Con il limite del rifiuto del cattivo gusto, come spiegavo prima”.

    Amiche preziose, come l'attrice Franca Valeri (in queste pagine, pubblichiamo il resoconto di un duetto teatrale mantovano con lo scrittore), la cui voce sembra risuonare in tanti passi arbasiniani. Di chi saranno figlie, per esempio, queste dame rinvenute in “Super-Eliogabalo”? “… e anche una di quelle magrissime alte, secche in tutto, estremamente chic sul semplicissimo, anzi sul disadorno, con le labbra di cuoio di Gucci, che dicono continuamente ‘ho un pranzo' e ‘a un pranzo' perché dal Sistema non ottengono mai altro”. E da dove arriverà “una di quelle coraggiose stanchissime che non hanno i soldi ma fanno le chic con fatica, sempre con l'abnegazione e la spossatezza, perché devono andare ai cocktails, pulire la casa, fare la beneficenza, far da mangiare, assistere al Festival di Sperlonga, mettere molto a posto i bambini per mandarli alle festine dei bambini molto più ricchi, e il marito non è neanche mondano”?
    Ma nel catalogo delle dame arbasiniane non può certo mancare l'editrice Inge Schoenthal Feltrinelli, che conobbe lo scrittore e ne divenne amica sempre nei fatali, primi anni Sessanta. Gli stessi della pubblicazione di “Fratelli d'Italia” (1963), con lo scrittore che traslocava per la prima volta da casa Einaudi (un inciso: quella versione del romanzo – 532 pagine in luogo delle 1.371 dell'ultima versione, pubblicata da Adelphi nel 1993 – ora si può leggere solo nel Meridiano Mondadori).

    Inge Feltrinelli dice al Foglio che “Alberto è l'ideale compagno di viaggio e d'avventura. Un Cicerone perfetto, ci stupisce ogni volta con la sua erudizione, che ci si trovi ad Amburgo o a Berlino, a Parigi o a Londra o a New York. Bisogna fidarsi e seguirlo, ne varrà sempre la pena. Tanti anni fa, ci trascinava per spettacoli off Broadway a cinque dollari a biglietto, alla scoperta di tutte le possibili avanguardie”. Anche se poi “erano più le volte che, dopo aver attraversato la città per raggiungere posti scomodissimi, Alberto si alzava dopo dieci minuti e diceva: ‘Andiamo via'. E'  stato in una sera di questo genere un po' caotico (dopo cocktail, ristorante, due diversi spettacoli), che fui invece io, per una volta, a stupirlo e a insegnargli qualcosa di cui vado davvero orgogliosa. Era già mezzanotte passata, ma proposi di raggiungere un certo hotel fuori mano di cui nessuno aveva mai sentito parlare, per uno spettacolo che cominciava a quell'ora. Arriviamo in una sala orrenda, piena di cow boy con gli stivali sui tavoli che bevono birra. E assistiamo allo spettacolo di uno sconosciuto che si chiamava Woody Allen: una prima assoluta”. Inge Feltrinelli crede di conoscere uno dei motivi della sintonia con l'amico Alberto: “Io sono di Göttingen, lui di Voghera. Proveniamo da due città di provincia. Per questo ci intendiamo e andiamo allo stesso modo alla scoperta del mondo”.
    La scoperta continua, e i resoconti, per Arbasino, assumono quella forma del saggio narrato che è diventato il suo marchio di fabbrica.

    “Che cosa sta facendo?” “Lavoro a un'elaborazione di varie memorie”: così si chiude la Cronologia del Meridiano dedicato ad Arbasino. Ora che anche lui è un mostro sacro, tornano in mente i monumenti delle lettere  che lui andava intervistando negli anni Sessanta, a Parigi, postulante geniale e incontenibile. Il quasi ottantenne François Mauriac, incontrato nell'inverno del 1961 nella sua casa di avenue Théophile Gautier, diceva ad Arbasino: “Che cosa me ne faccio, dei romanzi?… Piuttosto, come tutti i vecchi signori, leggo la Storia…”. E anche Julien Green (“soffice e pingue in doppiopetto marrone a tanti bottoni tutti allacciati”) gli ripeteva grosso modo la stessa cosa: “Ma a una certa età non si leggono più romanzi. Dopo i quarantacinque anni, meglio la Storia. Oppure, rileggere i libri già amati, come Montaigne… così seccante e così adorabile”. (“Parigi o cara”, Adelphi).