Alla ricerca della parola perfetta

Mariarosa Mancuso

Aldo Grasso lettore di Arbasino si fa trovare pronto con una pila di libri sottolineati, schedine, appunti e comincia con un ricordo personale. “Ero ancora all'università quando il mio maestro Giovanni Buttafava mi portò a vedere uno spettacolo dei Legnanesi. Confesso di non averci capito granché. Poi mi capitò di leggere sull'Espresso un articolo di Alberto Arbasino, che degli spettacoli con la Teresa e la Mabilia, dello straniamento di Brecht, del cabarettista Karl Valentin".

    Aldo Grasso lettore di Arbasino si fa trovare pronto con una pila di libri sottolineati, schedine, appunti e comincia con un ricordo personale. “Ero ancora all'università quando il mio maestro Giovanni Buttafava mi portò a vedere uno spettacolo dei Legnanesi. Confesso di non averci capito granché. Poi mi capitò di leggere sull'Espresso un articolo di Alberto Arbasino, che degli spettacoli con la Teresa e la Mabilia, dello straniamento di Brecht, del cabarettista Karl Valentin. Mi si spalancò un mondo: non sospettavo che all'oratorio potesse nascondersi tanta cultura, e che si riuscissero a collegare cose tanto diverse”.
    I Legnanesi avevano debuttato in parrocchia a Legnarello, era il 1949. Attori dialettali per scelta, travestiti per necessità. Lo spettacolo commemorativo dei loro primi venti anni – titolo: “Famm fümm frecc… e fastidi” – ricostruiva così la scena inaugurale. Mostrarono il copione dello spettacolo al parroco, che subito andò su tutte le furie: “Teresa, Mabilia, Chetta… ma queste sono donne, donne”. E indicò la scappatoia: “Se volete fare del teatro promiscuo, vestitevi voi da donna e… placet!”. Dopo i maschi imparruccati dell'oratorio, Aldo Grasso racconta un secondo incontro, ancora più decisivo.

    “Fernaldo Di Giammatteo mi aveva chiesto di scrivere per la rivista Bianco e Nero un saggio su Luchino Visconti. Ero tra due fuochi. Da una parte impazzava l'ideologia di sinistra: il primo cattedratico italiano di storia del cinema si chiamava Guido Aristarco, era un lucacksiano di riporto, i film non li andava a vedere o se li vedeva non li capiva, considerava Visconti un'icona intoccabile. Dall'altra parte impazzava la semiologia, allora di gran moda tra gli universitari. A tirarmi fuori dai pasticci fu ‘L'Anonimo Lombardo', eccolo qua (Aldo Grasso prende il volumetto pieno di note, Einaudi Nuovi Coralli, e lo apre a pagina 102): ‘Sappiamo benissimo che i blue jeans sono la più grande scoperta del dopoguerra, più del nylon e del DDT, che inventare Marilyn Monroe è almeno importante come scrivere il ‘Mito di Sisifo' e i ‘Quattro Quartetti', e che studiare i testi di sociologia va forse bene (quando non si sbagliano le deduzioni e le previsioni), ma non andando poi a vedere i ‘Poveri ma belli' ci si precludono fonti di conoscenza insostituibili, si rimane tagliati fuori dal resto del paese e si rischia di non capir più che il Festival di Sanremo può essere un tema più vivo, per chissà quanti, che non le noiose discussioni su un realismo che, poi, è falso patetico e cheap'”. Fine della citazione, commento ammirato: “Fu un'illuminazione: un libro di finte lettere, ‘caro Emilio' o ‘caro Roberto', che allora neppure sapevo chi fossero, e più tardi ho capito che erano molto più importanti di Deleuze e Guattari. Ho imparato che per fare il critico non serve la metodologia, meno ancora l'ideologia che acceca. Serve la scrittura”.

    La folgorazione ebbe conseguenze.
    L'arbasinata di Aldo Grasso uscì su Bianco e Nero (fascicolo settembre-dicembre 1976 dedicato a “La controversia Visconti”) con il titolo “Signora contessa… Garibaldi… porca miseria”. Bricolage critico, testo poco serio, parodia, scrittura da passeggio nel senso di Robert Walser: l'autore mette subito le mani avanti, il testo non era minimamente in linea con gli standard accademici. Fuoco alle polveri con un finto resoconto epistolare – Caro Nostromo, alias Galvano Della Volpe – di una proiezione viscontiana al circolo del cinema, seguita da un interminabile dibattito sul paesaggio di “Ossessione” e da un grande interrogativo sulla figura dello Spagnolo: “Rappresenta egli il problema della disoccupazione? Oppure è una figura torbida, piena di allusioni che qui è bene tacere, uno che chiama ‘fratelli' gli altri uomini… Mi hai capito, no? Chi ha ragione?”.

    Il divertissement di Aldo Grasso su Visconti regala un paio di annotazioni definitive sulla critica, così come viene concepita in Italia: “Tutti quelli che ieri hanno imparato a scrivere di cinema facendo della sociologia da quattro soldi su Aci Trezza, oggi continuano a fare la solita svalutata sociologia, su Nashville naturalmente” (dopo Nashville, volendo aggiornare la lista, troviamo l'America di Bush e il precariato). Mette in scena un'intervista a Giovanni Verga, furioso per la “lingua inesistente” di don Luchino che gli stravolge “I Malavoglia” e neppure lo cita nei titoli di testa. Fa la parodia di uno slogan allora di moda, “bevo Visconti perché…”: ribattezzato “metodo Jägermeister”, sfotte l'ossequio incondizionato per l'amaro Visconti, con le più insulse motivazioni. Contiene un brano di “recensione passepartout”, senza una parola che non sia astratta: “Il discorso della narrazione rincorre il discorso della storia e tutti e due rischiano di cadere nella forma cava del mito” (ripetere a piacere, complicando la sintassi senza uscire dalle cinque parole chiave). Propone un sondaggio (“Senso” tradisce il neorealismo? “Sì, No, Non so”, mettere una crocetta su ciò che fa al caso, la maggioranza degli intervistati propende per la numero tre, e forse la prossima volta chiederà di essere esclusa dal campione), un quiz a premi, una lettera firmata Arbore e Boncompagni con l'intestazione “Caro Grasso”, uno zibaldone alla maniera di Carlo Dossi e delle sue “Note azzure” (secondo Arbasino, “il gin tonic della letteratura italiana”: per chi come noi era convinto che gli scrittori cari alla patria fosssero più del genere nocino o ratafià, fu una potentissima spinta alla lettura).

    La folgorazione ebbe conseguenze, non solo letterarie
    : “Il divertissement mi costò caro. Non era il tipo di saggio che aspettavano da un giovane intenzionato a far carriera universitaria”. Detto con parole nostre e minor diplomazia, a uso di chi l'accademia italiana non la conosce per esperienza diretta: molti dei bersagliati sedevano nelle commissioni di concorso. E Aldo Grasso si era laureato in storia del cinema con una tesi su Sergej M. Eisenstejn (una fotografia alla parete dello studio mostra il futuro critico televisivo con una cinepresa Arriflex in mano).

    Continuano le letture: “Arbasino mi fece scoprire Carlo Emilio Gadda e Carlo Dossi, oltre a Gianfranco Contini: una linea lombarda opposta a Roma e al moravismo. Scoprii che si poteva parlar di cose serie con allegria, e che in Italia c'era almeno uno scrittore che non cercava di spiegarti il mondo, mentre i ‘Quaderni Piacentini' facevano le liste dei libri da leggere e da non leggere, guai a chi sgarrava. ‘Le sessanta posizioni' sono state la mia personale gita a Chiasso. Esisteva almeno uno scrittore indifferente alle mode: non si può dire lo stesso di Italo Calvino, che cadde innamorato dell'intellettualismo francese, o di Umberto Eco, responsabile del Dams”.
    Poi venne “La bella di Lodi”, con il suo splendido attacco citato a memoria: “Le ragazze di Lodi, grandi, belle, con la loro pelle splendida e un appetito da uomo, quando son dritte possono essere molto più forti di quelle di Milano”. “Per tutta la vita speri di incontrare una di Lodi”, commenta Aldo Grasso. “Ne venne fuori un bel film diretto da Mario Missiroli, l'unico con Stefania Sandrelli brava, grazie alla voce di Adriana Asti”.

    “Avevo messo insieme a poco a poco una piccola pattuglia di scrittori.
    Oltre ad Arbasino c'erano Giuseppe Pontiggia, Guido Ceronetti, Ennio Flaiano, Carlo Fruttero. Non erano impegnati, non erano ideologi, non costruivano sistemi di pensiero. In ogni loro pagina, trovavo la contraddittorietà dell'esistere, le luci e le ombre. Cioran li definisce ‘scorticati': pensano a partire da ciò che li ferisce. Sono paragonabili ai moralisti francesi, mentre da noi la parola moralista indica certi personaggi di Alberto Sordi: finti intransigenti ma infingardi, chierichetti di giorno e puttanieri di notte. ‘Un paese senza' potrebbe essere stato scritto da La Rochefoucauld o da Chamfort”.
    Alla ricerca del “mot juste”, Arbasino scrive e riscrive, anche dopo che i libri sono stati pubblicati. “Fratelli d'Italia” ha (finora) tre versioni, sempre più lunghe e sempre più ricche. Chi abbia anche un minimo di frequentazione con il cinema, sa che un incubo moderno si chiama “director's cut”: il regista che restaura tutto quel che il produttore ha voluto togliere per rispetto verso lo spettatore. Non funziona così con Arbasino: la versione lunga di “Fratelli d'Italia” (Adelphi, 1.372 pagine) senza far torto alle precedenti che già ci deliziarono, è la migliore di tutte. Aldo Grasso: “Ammiro l'ossessione per la riscrittura. E ammiro i suoi ultimi libri, ‘La vita bassa' o ‘L'ingegnere in blu'. Ammiro l'uso delle citazioni, libero da teorie alla Guy Debord: non servono per far vedere quanto sei colto, né per dimostrare che tutto è di seconda mano. La citazione è un tizzone ardente che entra a far parte del tuo discorso. Ammiro l'uso che fa dei film e delle canzonette, il fatto che fosse l'unico a criticare o irridere Visconti o Strehler. Per me, un passo verso la modernità e la leggerezza vera. E in quanti l'hanno copiato o lo copiano senza riconoscere i suoi meriti. Pinocchio è una favola nera, ho letto qualche giorno fa in un articolo. Bella scoperta: lo aveva già scritto Arbasino, tanti anni fa. Condivido la sua battaglia contro il neorealismo: “Caro Emilio, dal giorno che la fine della guerra ci ha regalato quel certo ‘realismo' col ‘neo-', noi ci consideriamo in polemica con lui perché è davvero un po' troppo finto”.

    D'obbligo un riferimento alla casalinga di Voghera,
    oggi metro di misura della televisione popolare. Le rime “La casalinga di Voghera/ non è mai stata una vera signora/ dei salotti o salottini/ casotti o casini” erano in “Rap!”. Nella Cronologia del Meridiano Mondadori, dove Arbasino duetta con Raffaele Manica che gli fa da spalla, le zie di Voghera sono parte del romanzo familiare, presenza fissa in certe seratine-mondo racchiuse da cinque parole: “Perdinci. Perbacco. Caspita. Rosario. Radio”.
    In televisione, nel 1977, Arbasino condusse la trasmissione “Match”. Ricorda Aldo Grasso: “Era totalmente antitelevisivo, di un'educazione mai vista, e almeno due puntate sono da antologia. Nella prima Paola Borboni, in rappresentanza del teatro classico, distrugge Manuela Kusterman, che era lì in rappresentanza del teatro d'avanguardia. L'altra schierava Giorgio Albertazzi contro Memé Perlini. Poiché ognuno dei contendenti poteva portarsi qualche fan, per un aiutino nei momenti di difficoltà, Albertazzi invitò una sventola strepitosa, mentre Perlini serissimo si trascinò dietro i giovani critici”.

    La scenografia era ridotta all'osso.
    Sedia per il conduttore baffuto, sempre in cravatta e stivaletti, due sedie girevoli appena un po' più comode per gli ospiti (a dare un effetto alla “Mad Men”, posaceneri a colonna e pubblico che si accende ogni tanto la sigaretta). In genere, la vecchia guardia sta tranquilla e i giovani si agitano, come nello scontro tra Mario Monicelli e un Nanni Moretti con occhiali, clarks, maglione, capelli lunghissimi (la fumatrice sui gradoni è Zeudi Araya). Paola Borboni e Manuela Kusterman litigano sul nudo. “Noi ci spogliamo per arte”, sostiene l'avanguardista e accusa le colleghe del teatro classico di concorrenza sleale: ora si svestono in scena anche loro e per giunta a cinquant'anni come Rossella Falk (le parole della Kusterman sul nudo maturo sono irripetibili, in pieno femminismo nessuno la rintuzzò). Alla fine le dive litigano sui reumatismi, e nella rincorsa a dire “io di più” – grande momento in stile Mabilia dei Legnanesi – la Kusterman rivendica davanti a una Paola Borboni di anni 76 i propri acciacchi, frutto di troppe cantine e umidi camerini.

    Dopo gli incontri a distanza, qualche faccia a faccia?
    “Lo intervistai per una puntata speciale di Tuttilibri. Io ero timidissimo, come se non bastasse già sulla segreteria telefonica Arbasino parlava di soldi. Lo ha sempre teorizzato: se chiami un idraulico gli devi pagare almeno l'uscita, solo gli intellettuali vengono interpellati gratis. Mi consultai con il funzionario Rai, saputo a quanto ammontava il gettone lasciai un messaggio sulla segreteria con il mio numero e la cifra. Richiamò. Parlammo di Mario Praz, della sua casa, e della sua collezione che allora non si sapeva come sistemare, sfidando la fama sulfurea che circondava (e credo ancora circonda) il professore”.
    Circonda, circonda, confermiamo: nel nostro piccolo conosciamo parecchi che al nome hanno un sussulto, per tacer del resto. Noi però siamo cresciuti leggendo e rileggendo “La casa della vita”, fino a sfasciarne la rilegatura – oltre ai libri di Arbasino che in “La Belle Epoque per le scuole” fece Giovanni Pascoli a pezzettini, scrutandone le lettere e i diari: tutte faccende di soldi e di indigestioni – e i primi amori non si scordano mai. “Arbasino bisogna leggerlo a diciotto anni”, conferma Aldo Grasso. “Per non rischiare di sapere tutto di Derrida e niente di Praz. Per capire quanto conta lo stile: tutti sono capaci di dare il loro giudizietto, saper argomentare è un'altra cosa. Arbasino insegna che i libri vanno letti, i film visti, la musica ascoltata, contro una generazione di intellettuali tutti presi dal metodo, che leggevano poco e vedevano meno. Mettevano a regime l'affettatrice, poi prosciutto o spam erano la stessa cosa. Una generazione – scrive in ‘Un paese senza', anno 1980 – afflitta da ‘dissenteria del discorzo”.
    Arbasino la descrive così, a futura memoria, che in questo caso è la nostra: “L'impossibilità sopravvenuta di avvicinarsi a uno spettacolo, a un film, a una mostra, a qualunque episodio e fenomeno culturale senza che decine e centinaia di parassiti della cultura si posino sul corpo dei film, dei balletti, dei libri, delle musiche, per sistemarvi i loro convegni, i loro collettivi, i loro feticismi che coincidono col piccolo cespite e il piccolo reddito”.