Conformisti e saccenti

Alfonso Berardinelli

Il conformismo degli intellettuali su cui si concentra Battista è politico. Quanto all'estinzione degli intellettuali in Italia, l'espressione mi sembra ambivalente. Siamo, cioè, fra la constatazione desolata e l'augurio: come dire che se i nostri intellettuali sono così come sono e sono quelli che abbiamo intorno, sarebbe meglio che non ci fossero.

    Me ne sto a casa rimuginando, sfogliando libri, prendendo appunti e cercando di scrivere un libro sugli intellettuali che non riesco a scrivere: quando ecco che, verso le sei di sera, suona il postino per la consegna urgente del libro sugli intellettuali di Pierluigi Battista. Esulto. Ha scritto lui, posso evitare di scrivere io!
    Il titolo del libro è: “I conformisti. L'estinzione degli intellettuali d'Italia” (Rizzoli, 222 pagine, 18 euro). Il conformismo degli intellettuali su cui si concentra Battista è politico. Quanto all'estinzione degli intellettuali in Italia, l'espressione mi sembra ambivalente. Siamo, cioè, fra la constatazione desolata e l'augurio: come dire che se i nostri intellettuali sono così come sono e sono quelli che abbiamo intorno, sarebbe meglio che non ci fossero: anzi ci sarebbe da augurarsi che si estinguessero del tutto, dal momento che falsificano le idee, rumoreggiano inutilmente e in sostanza fanno danno.

    Per manifestare con maggiore efficacia e oggettività la propria complessa antipatia per gli intellettuali venerati, vigenti, supponenti e senza dubbi su se stessi, Battista ha scelto di concentrarsi sul loro conformismo politico, sulla loro ottusità politica, sulla loro malafede, disonestà e viltà morale in campo politico. Agli esempi che fa (e sono molti, tutti da leggere) non ho da obiettare niente: si tratta di episodi e aneddoti penosi, desolanti, soprattutto perché mostrano la categoria intellettuale come una specie di “branco” che si accanisce contro i pochi che osano contraddire o “tradire” le convinzioni politiche che di volta in volta sembrano obbligatorie. L'effetto generale del dossier messo insieme da Battista è tristissimo. Sapevamo molte cose, quasi tutte. Ma sebbene Battista sia tornato ripetutamente in questi anni sul rapporto fra intellettuali e politica, quello che ci offre è un promemoria la cui attualità non invecchierà facilmente.

    Battista loda gli “irregolari”, coloro che non sono stati troppo solerti nel cercarsi a tutti i costi appartenenze politiche. Oggi la sinistra antiberlusconiana (quella che spiega tutto con la malefica persona di Berlusconi, trascurando i motivi sociali del suo successo politico) continua a dare spettacolo con la sua mania di schierarsi e di vedere schierati tutti su ogni questione non solo politica, ma estetica, morale, religiosa, scientifica. Intorno al nome di Berlusconi sono stati fatti svolazzare di continuo i nomi di Mussolini e di Hitler. Si è ripetuto che il suo governo equivale al fascismo storico, anzi è peggio. Si è arrivati a dire, per furore oppositivo, che l'opposizione non esiste più e si è proclamato nelle piazze, in tv e sui giornali che non c'è più libertà di opinione. Ora, è vero, Berlusconi non è l'uomo politico dei miei sogni. Ma credo di intuire perché gli italiani sono riusciti a preferire lui alla sinistra: fra una cosa evidente e reale e una cosa irreale e fumosa, l'elettore tende a scegliere ciò che capisce meglio. Avere un nemico esterno come Berlusconi è stata per la sinistra una doppia sciagura, perché le ha anche impedito di fare apertamente i conti con se stessa, con la propria storia, con le ragioni del proprio declino, della propria sordità ai problemi della “gente comune”. Non è una buona idea credere che il centrodestra si possa combattere mobilitando i professori universitari e gli artisti. Sarebbe meglio capire quali mutazioni ha prodotto nella nostra società la modernizzazione culturale (mode, mentalità, nuovi media) e le grandi migrazioni.

    Parlo di questo perché il libro di Battista guarda al passato tenendo d'occhio il presente. Il mosaico di vicende che ha messo insieme, se non è una vera e propria storia, è certo un eloquente campionario di come la politica, così idolatrata dalla sinistra, possa essere un vero “oppio degli intellettuali”. La tesi di Battista è che in politica, per capire le cose, è meglio essere semplici che complessi, è meglio essere pensatori onesti che pensatori profondi e sofisticati. Di fronte al nazismo e allo stalinismo, filosofi del calibro di Martin Heidegger e György Lukács non hanno mostrato particolare chiaroveggenza, accecati, più che illuminati, dalle loro filosofie.  Autori isolati come Orwell, Simone Weil, Bernanos e Camus rifiutarono invece le dittature sia di destra che di sinistra, non per equidistanza farisaica, ma perché videro le catastrofi annunciate da due tipi opposti e complementari di regimi criminali.

    La furia di Battista a volte si scatena in formule totalizzanti e piuttosto apocalittiche, che sembrano scaricare sugli intellettuali tutti i vizi, le ottusità, le acquiescenze del genere umano. Mi limito a citare le righe in cui stigmatizza “la peculiare fatuità degli intellettuali, perennemente ammaliati dalle dittature. Votati a mille cause sbagliate. Culturalmente schiavi di ogni seduzione totalitaria. Impermeabili a ogni principio di realtà”. Noto a questo punto che Battista dimentica almeno due cose: 1) che la cultura, le arti, le filosofie del Novecento sono state affette da malattie molto simili a quelle politiche (anzitutto l'estremismo e l'eccesso estremistico di coerenza), e 2) che quando dei regimi liberal-democratici non mantengono le loro promesse, sparano su operai e contadini, li riducono alla fame e li costringono all'emigrazione (nel corso del Novecento questo è accaduto), allora le reazioni possono essere violente, nonché sconsiderate. Silone, Simone Weil, Koestler, Orwell, Camus, prima di diventare degli “ex” sono stati socialisti, anarchici e comunisti, non per caso, non senza ragioni (a volte tuttora valide): sono stati antiborghesi e anticapitalisti prima di essere antifascisti, anticomunisti e antimarxisti.

    Come pamphlet politico il libro di Battista è un prezioso promemoria. Come saggio sugli intellettuali paradossalmente pecca di politicismo. Sulla qualità culturale degli intellettuali chiamati in causa si poteva dire di più, e un giornalista colto come Battista poteva farlo. Le acute osservazioni singole non mancano e i giudizi negativi sono spesso impliciti. Ma per fare solo alcuni esempi, aggiungerei che il maggiore difetto di Heidegger è filosofico, non politico: nel suo linguaggio parlare di nazismo è letteralmente impossibile. Il perbenismo etico-politico di Calvino, che definì Orwell un pamphlettista di quart'ordine, è stato un perbenismo anche culturale e letterario: la sua narrativa ha sempre cercato di non disturbare ma di blandire il lettore, evitandogli ogni dispiacere. L'autobiografia di Rossana Rossanda non è solo politicamente, ma soprattutto letterariamente, psicologicamente debole e confusa.

    Insomma il rischio del libro è che si giudichino gli intellettuali solo per le loro scelte politiche sbagliate, trascurando che a volte i loro libri sono perfino peggio.