Bachelet ha lasciato la “concertazione” cilena senza concerto

Maurizio Stefanini

Grazie alla crisi, Michelle Bachelet è passata in due anni da essere il presidente più impopolare dal ritorno alla democrazia al presidente più popolare di tutta la storia del Cile. Ma non riesce a trasmettere questo consenso ad alcun erede, e le aspettative per le presidenziali di oggi sono incerte. Dal 1990 è al governo la “concertazione”, la coalizione dei partiti di centrosinistra che gestì la transizione alla democrazia.

    Grazie alla crisi, Michelle Bachelet è passata in due anni da essere il presidente più impopolare dal ritorno alla democrazia al presidente più popolare di tutta la storia del Cile. Ma non riesce a trasmettere questo consenso ad alcun erede, e le aspettative per le presidenziali di oggi sono incerte. Dal 1990 è al governo la “concertazione”, la coalizione dei partiti di centrosinistra che gestì la transizione alla democrazia. Il suo primo presidente fu Patricio Aylwin, democristiano scialbo, ma per questo adatto a rassicurare un elettorato bisognoso di certezze, dopo il triennio tempestoso di Allende e i successivi diciassette anni di Pinochet.

    Seguì, nel 1995, l'altro democristiano Eduardo Frei Ruiz-Tagle: con in più il carisma del quasi omonimo padre, quell'Eduardo Frei Montalva fondatore della Dc cilena; presidente della “rivoluzione in libertà” del 1964-70; poi avversario di Allende, fino ad appoggiare il golpe di Pinochet; e da ultimo avversario del regime militare quando vide che il generale non si sognava affatto di restituire il potere ai civili, fino alla morte improvvisa nel 1982. Quella morte che – questo il colpo a sorpresa di quest'ultima settimana di campagna elettorale – è ora attribuita ad avvelenamento lento da parte di agenti del regime. Terzo presidente della “concertazione”, nel 2000, fu Ricardo Lagos. Per rinnovare l'immagine della formula dopo il logorio di dieci anni al potere, si scelse di riportare alla Moneda un socialista, per la prima volta dai tempi di Allende. Infine nel 2005, con un logorio da potere evidentemente ancora maggiore, si portò la Bachelet: a sua volta socialista, ma soprattutto donna.

    La prima donna presidente del Cile, e la prima eletta a suffragio universale diretto in America del Sud. Anche in seguito alla blindatura della Costituzione ereditata dal regime militare, il Cile in quel momento aveva il problema di una società civile e politica ancora arretrata rispetto al progresso dell'economia (qualcosa tipo l'Italia alla vigilia del 1968). Bachelet partì dunque con un 60 per cento di popolarità, perché aveva promesso di saldare questi ritardi a colpi di riforme: “36 misure nei primi 100 giorni”. Ma le difficoltà a mantenere questi impegni la fecero quasi subito incartare: proteste studentesche, sommosse di baraccati, cattiva gestione di disastri ambientali, scandali, scioperi, un impopolare piano di riforma del trasporto della capitale… Insomma, dal luglio del 2007 la percentuale dei cileni a lei ostile aveva superato quella dei favorevoli: 42,8 contro 41,5. E dall'agosto successivo l'approvazione arrivò a un minimo del 39,1. Come riflesso della sua impopolarità, alle municipali dell'ottobre del 2008, la destra ex pinochettista effettuò uno storico sorpasso sulla “concertazione”, con il 40,24 per cento contro il 38,46. Conquistando tutte le principali città del paese.

    Poi è arrivata la crisi. E si è scoperto che Bachelet aveva avuto ragione a non spendere gli alti introiti del rame, tenendo da parte le risorse: i ceti più umili colpiti dalla crisi si sono avvantaggiati grazie alla rete di ammortizzatori sociali voluti dalla presidentessa. A febbraio la Bachelet era già risalita a un'accettazione del 58,5. A maggio stava al 67: superando quel 61 per cento di Ricardo Lagos nell'ultimo anno del suo mandato, che era stato il precedente record dei presidenti cileni. A luglio al 74. E a novembre era arrivata al 78. Il rovescio della medaglia è che Bachelet ha usato i suoi ministri come scudo alla mancanza di consenso, facendo rimpasti a ripetizione e scatenando una catena di scissioni che ha devastato la “concertazione”. Mentre dunque Lagos si era segnalato come ministro dell'Educazione di Aylwin e ministro delle Opere Pubbliche di Frei, mentre la stessa Bachelet era emersa alla Difesa e alla Sanità, nessun ministro in quest'ultimo mandato è riuscito a conquistarsi il carisma che sarebbe servito per lanciarsi a propria volta. Dal momento che la Costituzione vieta espressamente una ricandidatura immediata e d'altra parte dopo due socialisti di fila i democristiani imponevano uno dei loro, si è tornati al nome dell'ormai sessantasettenne Frei.

    Da un anno i sondaggi danno ostinatamente in testa Sebastián Piñera Echenique, che già nel 2005 aveva costretto Bachelet al ballottaggio. Fratello di quel Juan Piñera che da ministro di Pinochet inventò la famosa riforma pensionistica poi copiata da mezzo mondo, esponente di quel partito di Renovación Nacional che raccoglie la destra cilena tradizionale già alleata a Pinochet, alleato di quell'altro partito dell'Unione democratica indipendente che raccoglie il pinochettismo più ideologico, lui personalmente però al referendum del 1988 fece un famoso appello a votare contro la permanenza del generale al potere, e ha cercato in queste ultime elezioni di rafforzare questa immagine post-pinochettista in tutti i modi. Ad esempio, nella sua Coalizione per il Cambio c'è ora anche un partito ChilePrimero che è composto da ex socialisti e altri fuoriusciti dalla “concertazione” in polemica contro gli ultimi scandali: tutta gente dalle credenziali anti dittatura incontestabile. L'inno della sua campagna elettorale, “Un Cile così”, è accompagnato da strumenti come il charango o la quena, tradizionalmente associati al folk di sinistra degli Inti Illimani o dei Quilapayún. E nel suo programma ci sono proposte dal sapore “progressista” come la priorità alle energie rinnovabili; una forma di “Dico” per coppie omosessuali (ma non il matrimonio); l'estensione del congedo pagato alle madri dai tre a sei mesi dopo il parto.

    Soprattutto Piñera promette un milione di nuovi posti di lavoro. Ma non ha vita facile perché, più che collusioni con la dittatura gli rimproverano il conflitto di interessi: è l'uomo più ricco del Cile. Proprietario di una fortuna stimata a 1,2 miliardi di dollari, fin da aprile ha risposto col cedere in fidocommesso cieco volontario alle istituzioni finanziarie Bice, Celfin, LarraínVial e Moneda il controllo di 36 società anonime, per un totale di 400 milioni di dollari di valore. Sono tutti fondi amministrati dallo stato, che non potranno informare Piñera sul suo denaro. Quanto alla linea aerea Lan Chile, ha invece promesso che venderà il 25 per cento di pacchetto azionario che vi possiede se e quando diventerà presidente. Ma dice però di voler mantenere sia la squadra di calcio del Colo Colo sia il canale Chilevisión, pur rinunciando al suo posto nella direzione. E quindi le accuse di conflitto di interessi sono continuate.

    Oltre a quelli che sono andati con Piñera, però, i socialisti hanno perso altri due candidati a sinistra, che in polemica contro la scelta di appoggiare il democristiano Frei hanno deciso di correre da soli: Jorge Arrate Mac Niven, un vecchio arnese che fu ministro di Allende, oltre che di Aylwin e di Frei, e presidente del Partito Socialista. Ora lo appoggiano comunisti e Sinistra Cristiana, su una piattaforma che prevede la nazionalizzazione dell'acqua, un calmiere sui tassi di interesse, una riforma fiscale, medicine gratis  e sussidi ai disoccupati. L'altro, il 36enne Marco Enríquez-Ominami, è invece il figlio di un guerrigliero di estrema sinistra ucciso in conflitto al fuoco durante la dittatura e di una giornalista: quest'ultima, che poi si risposò nell'esilio francese con un leader socialista divenuto in seguito senatore e ministro di Aylwin. Miguel Enríquez era infatti il padre guerrigliero, Carlos Ominami il patrigno ministro, e lui porta i nomi di tutti e due. Laurea in Filosofia in Cile e studi di Cine a Parigi, ha fatto fino al 2005 il regista televisivo, prima di farsi eleggere deputato socialista e diventare un  famoso stakanovista di progetti leggi: oltre 150 in quattro anni, prima di andarsene dal partito a giugno sbattendo la porta. Privo di un proprio partito, qualcuno lo sospetta di possibile cavallo di Troia del chávismo in Cile, anche se lui verso il colonnello venezuelano è ondivago: lo critica quando attacca le ong per i diritti umani, lo appoggia quando chiude “televisioni reazionarie”. Ma più che un uomo di sinistra, lui per l'elettorato è il giovane che è sceso in campo contro le “mummie”.

    E il suo successo è stato folgorante, con nei sondaggi una forchetta tra il 17,3 e il 22,3 per cento dei voti: contro il 18,62-28,6 di Frei, il 30,3-47 di Piñera e il 3-9 di Arate. Addirittura, qualche istituto gli dà qualche chance di battere sul filo di lana Frei nella corsa per il secondo posto, affrontando poi Piñera al secondo turno del 17 gennaio. In teoria, la sommatoria tra i voti di Frei, di Rodríguez-Ominami e di Arate dovrebbe poi al secondo turno sconfiggere l'uomo della destra. In pratica, però, tutti i sondaggi danno Piñera vincente: sia contro Frei; sia contro Rodríguez-Ominami. O, per lo meno, lo davano. Prima dell'ultima bomba, col giudice Alejandro Madrid che dopo sei anni di indagini giusto a sei giorni dal voto afferma che il papà di Frei fu assassinato, disponendo l'arresto di un agente della polizia segreta di Pinochet, di un medico e dell'autista della vittima. Immaginabile il contraccolpo: sia sull'immagine della coalizione di destra; sia sulle emozioni profonde degli elettori di Arate e di Rodríguez-Ominami. Proprio il capo della campagna elettorale di quest'ultimo ha subito dichiarato di considerare “curiosa” questa improvvisa accelerazione di un giudizio “che andava avanti da anni con molto poca attività”.