L'esploratore Bernanke

Paola Peduzzi

Quando Ben Bernanke prese il posto di Alan Greenspan alla guida della Federal Reserve, all'inizio del 2006, disse che il suo primo obiettivo era quello di rendere la Banca centrale americana più trasparente, più aperta, potremmo dire più pop. Quelle parole, dette da un professore di Princeton con l'aria di un topo da biblioteca che di pop – se così si può dire – aveva soltanto la passione per il sassofono e le partite di basket con i colleghi nel raro tempo libero, suonarono quasi come una battuta.

    Quando Ben Bernanke prese il posto di Alan Greenspan alla guida della Federal Reserve, all'inizio del 2006, disse che il suo primo obiettivo era quello di rendere la Banca centrale americana più trasparente, più aperta, potremmo dire più pop. Quelle parole, dette da un professore di Princeton con l'aria di un topo da biblioteca che di pop – se così si può dire – aveva soltanto la passione per il sassofono e le partite di basket con i colleghi nel raro tempo libero, suonarono quasi come una battuta, e comunque pochi presero nota, erano ormai abituati alle frasi tortuose del ventennio di Greenspan, governatore criptico ma con parecchio senso dell'umorismo, che si prendeva in giro dicendo: “Da quando sono diventato banchiere centrale, mi sono messo anche a borbottare con grande incoerenza”.

    Bernanke ha poi fatto quel che aveva promesso e oggi la Fed non è più quel misterioso club di economisti accessibile soltanto agli addetti ai lavori più esperti. Il problema è che in gran parte Bernanke è stato costretto a mettere in pratica la sua promessa, perché si è trovato a un certo punto della sua carriera a dover difendere la Fed, e se vuoi difendere un prodotto devi saperlo spiegare, mostrare, vendere. Così se oggi il governatore cita John Maynard Keynes – come ha fatto all'Economic Club di Washington lunedì – quando sosteneva che gli economisti devono essere utili come dei dentisti, non chiudersi in torri d'avorio, il perché va ricercato nella trasformazione, una rivoluzione, che Bernanke ha dovuto imporre alla Fed, guadagnando un potere enorme, ma anche un'enorme quantità di critiche.

    Questa rivoluzione è oggi sotto processo. Il Congresso, che deve confermare Bernanke per il suo secondo mandato come ha chiesto il presidente Barack Obama, ha deciso di complicare la vita al governatore. Esiste un'opposizione trasversale, che va dai libertari che vorrebbero abolire la Fed ai liberal più radicali che si aspettavano più fondi da parte della Banca centrale e ora si battono per un secondo pacchetto di stimolo. Ma Bernanke ha nel frattempo affinato la sua arte oratoria, è uscito dalla torre d'avorio, ha imparato a gestire politica e politici, soprattutto tiene dalla parte del manico un'arma potentissima, l'arma dell'incertezza. Come spiega Luigi Zingales al Foglio, non c'è mai stata una Fed come quella di oggi, “non c'è proprio mai stata una Banca centrale in tutto il mondo strutturata come la Fed oggi, siamo in un territorio inesplorato, in una situazione senza precedenti”.

    E poiché nessuno sa come uscirne, ci si affida a chi in questa terra ci ha portato, “è la stessa logica valsa nel 2004 con la rielezione di George W. Bush – ricorda Zingales – Molti dicevano: ‘Bush ci ha portati nel ‘mess', nel caos iracheno, saprà anche come tirarci fuori'”. Non è detto che questa logica funzioni, anzi, ma nell'incertezza vince lo status quo (cioè Bernanke). Zingales, Robert C. McCormack Professor of Entrepreneurship and Finance alla Graduate School of Business dell'Università di Chicago ed editorialista del Sole 24 Ore, è stato inserito nel gruppo degli economisti che dovranno ridefinire la strategia economica del Partito repubblicano americano. E' stato fin da subito critico nei confronti di un “Bernanke 2” alla Fed, quando invece la maggior parte di economisti e commentatori tirava un sospiro di sollievo, un po' per via dell'incertezza un po' perché l'alternativa sarebbe stata – dicevano i rumors di Washington – Larry Summers, il controverso capo degli economisti della Casa Bianca di Obama. Ma se ora molti mettono Bernanke a processo per la gestione della crisi, Zingales sottolinea che in realtà, nel periodo centrale dello choc finanziario, dal settembre del 2008 al marzo del 2009, “il governatore non ha fatto bene, ha fatto benissimo”. E' quel che è accaduto prima e dopo a preoccupare i critici della prima e dell'ultima ora, come ha spiegato anche il Wall Street Journal in un editoriale della settimana scorsa: “Il vero problema è quel che il governatore della Fed ha fatto prima del panico”.

    Ci sono tre Bernanke a processo: quello prima della crisi, quello della crisi, quello del primissimo post crisi. Secondo Zingales, il primo è stato un disastro, il secondo è stato bravissimo e il terzo è un punto di domanda. Di fronte allo choc di Wall Street e al crollo di Lehman Brothers, Bernanke ha reagito con determinazione: “Ha avuto il coraggio di ampliare il mandato della Fed, stampando moneta e applicando quel che diceva la teoria di Milton Friedman: durante una crisi finanziaria, aumenta la domanda di moneta per cui la Fed deve rispondere aumentandone l'offerta per controllare il panico”. Una reazione da manuale insomma, non certo sorprendente per uno dei massimi esperti viventi di Grande Depressione (non a caso una delle rarissime scuse che Bernanke si è concesso, lui che non si scusa mai di nulla, è sulla mancata reattività della Fed negli anni Trenta che aggravò la crisi finanziaria).

    C'è però voluto parecchio coraggio, perché la Banca centrale americana ha cambiato completamente faccia: se nell'agosto del 2008 aveva a bilancio circa 900 miliardi di dollari, a metà novembre dello stesso anno, poco più di tre mesi dopo, aveva 2,2 trilioni di dollari, cioè aveva più che raddoppiato il suo bilancio. Era l'unica cosa da fare, spiega Zingales e con lui molti altri economisti, e Bernanke l'ha fatta alla grande, senza tentennamenti né ripensamenti. “Interrogato” già 16 volte in un anno dal Congresso in merito a questa minirivoluzione, il governatore non ha mai mostrato l'ombra di un ripensamento. E per questo si è conquistato la conferma da parte del presidente Obama. Al di fuori di questi mesi cruciali, l'operato di Bernanke non è considerato affatto impeccabile. Simon Johnson – economista che in quest'ultimo anno è diventato molto di moda soprattutto per aver denunciato tra i primi il “quiet coup” del sistema bancario sull'Amministrazione di Washington – spiega che il Bernanke “collapse or rescue” ha fatto un ottimo lavoro. Ma come la mettiamo con il Bernanke che ha sottovalutato – se non innescato, “vittima della Greenspan Illusion” – la bolla immobiliare? E con il Bernanke che non ha fatto nulla per regolamentare quella terra di nessuno “dove i mercati incontrano le banche”? Zingales è ancora più definitivo: “Il primo Bernanke è stato un disastro”.

    Ha abbracciato in pieno la politica monetaria espansiva di Greenspan, senza preoccuparsi di mettere qualche paletto nel mercato dei mutui, nonostante fossero evidenti i segnali di una crisi – “crisi che Bernanke più volte negò”, sottolinea Zingales. Non si è mai opposto a Hank Paulson, allora ministro del Tesoro, e ha lasciato che panico e incertezza contaminassero fino al collasso i mercati. “Non ci fosse stato il caso di Bear Stearns – spiega Zingales – l'analisi potrebbe essere differente. Ma quando nel marzo del 2008 le autorità, governo e Fed, decidono il salvataggio di Bear Stearns è evidente che c'è un problema di sistema. Ma, finita l'emergenza, nessuno si mette a studiare una strategia per evitare che si ripetano le condizioni che hanno portato al fallimento di quella banca d'affari”. Non c'è dibattito, non c'è progettualità. Nel momento di massima difficoltà, quando il sistema scricchiola pericolosamente, gli economisti non vengono interpellati, la riflessione è ridotta a zero, decidono soltanto Paulson e Bernanke, trattano una crisi di insolvenza come se fosse una crisi di liquidità, in una fase di fine impero peraltro, quando la campagna elettorale obamiana è nel suo vivo e la presidenza Bush nella sua fase terminale. “Questa – ribadisce Zingales – è la più grande responsabilità che grava sull'operato di Bernanke”.

    A marzo, il governatore si prende un altro, grande rischio. Obama ha già sfondato le casse del governo approvando uno stimolo da 800 miliardi e lasciando mano libera al suo ministro del Tesoro, Tim Geithner, per il salvataggio di Wall Street (una mano libera che vale più di un trilione di dollari) e Bernanke raddoppia il rischio e mette un'ipoteca sulla sua stessa “exit strategy”. Fino a quel momento infatti il governatore immette liquidità comprando carta commerciale a breve, cioè si dà tempo qualche mese per riassorbire l'eccesso di moneta, mossa necessaria per evitare che i prezzi si alzino e s'inneschi un fenomeno inflattivo. A marzo, anche a causa delle pressioni politiche, la Fed inizia a comprare titoli immobiliari e titoli di stato a lunga scadenza, modificando ancora una volta la composizione del suo bilancio, nel quale ora i titoli a lunga scadenza pesano per oltre il 70 per cento. Il beneficio immediato è chiaro: Bernanke vuole ridurre i tassi dei mutui sulle case per stabilizzare il mercato immobiliare. Ma nel lungo periodo, spiega Zingales, per evitare una crisi di liquidità, la Fed dovrà vendere i titoli prima della loro scadenza, creando un innalzamento dei tassi di interesse proprio quando i prezzi, a causa dell'inflazione, inizieranno a risalire. “Avrà un grosso problema politico, Bernanke”, dice Zingales.

    L'Amministrazione Obama ha un obiettivo a breve termine: le elezioni di mid-term, tra meno di un anno. I democratici vogliono arrivarci con un tasso di disoccupazione non certo a due cifre come è oggi. Come dimostra il piano per i posti di lavoro annunciato ieri da Obama, il governo è disposto a usare qualunque mezzo contro il problema occupazionale, e quindi farà pressioni per alimentare l'inflazione. Ma con il deficit a nove trilioni di dollari nei prossimi dieci anni, un aumento dei tassi di interesse implica un aumento del costo del debito, quindi un ulteriore guaio per Obama. L'“exit strategy” della Fed è destinata a intrecciarsi in modo promiscuo con le esigenze della politica. Ma poiché nessun altro governatore è mai arrivato dove si trova oggi Bernanke, non resta che affidarsi a lui. E' uno degli effetti dell'arma dell'incertezza.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi