Lula guida la fronda che sta facendo fallire Copenaghen

Maurizio Stefanini

Guidati dal brasiliano Lula e dal governo indiano, quasi tutti i paesi influenti del sud del mondo sono ormai in rivolta contro la conferenza sul clima di Copenaghen. La prima notizia è quella del documento comune che Cina, India, Brasile e Sudafrica porteranno al vertice Onu in programma dal 7 al 18 prossimi nella capitale danese per opporsi compatti a tutti gli obiettivi di cui i paesi sviluppati stanno parlando.

    Guidati dal brasiliano Lula e dal governo indiano, quasi tutti i paesi influenti del sud del mondo sono ormai in rivolta contro la conferenza sul clima di Copenaghen. La prima notizia è quella del documento comune che Cina, India, Brasile e Sudafrica porteranno al vertice Onu in programma dal 7 al 18 prossimi nella capitale danese per opporsi compatti a tutti gli obiettivi di cui i paesi sviluppati stanno parlando: sia il dimezzamento delle emissioni di gas a effetto serra entro il 2050; sia il picco mondiale delle emissioni entro il 2020; sia il tetto massimo dei due gradi di riscaldamento globale in più rispetto ai livelli pre-industriali. “I quattro paesi hanno tracciato in questo modo la linea rossa oltre la quale per loro non si può andare”, ha spiegato alla Reuters il diplomatico europeo che ha fatto filtrare l'intesa.

    E sì che Barack Obama martedì si era pure attaccato al telefono con il primo ministro indiano Manmohan Singh, dopo che da New Delhi il ministro dell'Ambiente Jairam Ramesh aveva divulgato un rapporto ufficiale con l'obiettivo dichiarato di sfidare “i luoghi comuni acquisiti” sullo scioglimento dei ghiacciai. Secondo i dati del governo indiano, che vanno indietro di 150 anni e che costituirebbero il primo vero studio sistematico sulla regione, non è vero che i ghiacci dell'Himalaya si stanno sciogliendo, come aveva detto due anni fa l'Intergovernmental Panel on Climate Change dell'Onu, prevedendo anche il collasso definitivo per il 2035; se pure si stessero sciogliendo, non sarebbe per effetto del riscaldamento globale; e se pure ci fosse un riscaldamento globale, non potremmo misurarlo con i metodi che usano gli scienziati occidentali.  “Negli Stati Uniti i più alti ghiacciai dell'Alaska sono ancora al di sotto dei più bassi ghiacciai himalayani. I nostri 9.500 ghiacciai sono situati in un contesto completamente differente, e poi abbiamo i monsoni: finché avremo i monsoni avremo ghiacciai” ha chiosato prendendosela nell'occasione anche con i documentari di Al Gore. “Forse è arrivato il momento che l'India faccia un investimento per poter comprendere quel che accade nell'ecosistema himalayano con la testa propria”. “E' vero che qualche ghiacciaio himalayano si sta ritirando, ma non è nulla al di fuori dell'ordinario”, ha aggiunto il geologo autore del rapporto, Vijay Kumar Raina.

    Una dichiarazione di guerra ideologica preventiva all'intero impianto di Copenaghen di tale livello che anche la Casa Bianca ha sentito l'urgenza di muoversi. E così a Singh Obama era riuscito a estorcere la promessa non solo di una partecipazione all'appuntamento danese, ma anche di un impegno “volontario”: un taglio dell'“intensità” carbonica indiana, cioè il rapporto tra emissioni di CO2 e pil, pari al 24 per cento entro il 2020, rispetto ai dati del 2005. Il fatto è che l'India ha un alto peso nell'inquinamento globale, pari al cinque per cento del totale ed è al quarto posto mondiale. Però con il suo miliardo e passa di abitanti la sua emissione di CO2 pro-capite è di 1,2 tonnellate per abitante, contro le 7,8 italiane e le 20,6 Usa.

    Anche la Cina dopo gli incontri con Obama, aveva preso un impegno analogo. Il fatto è però che l'India sta con Brasile e Sudafrica nell'alleanza Ibsa, il cosiddetto “Asse del Sud”. E in Brasile Lula contro Copenaghen si è scatenato senza tentennamenti. Proprio per contestare alla radice che la non industrializzazione del Terzo mondo debba servire a compensare gli eccessi del mondo sviluppato, al vertice intende chiedere di limitare drasticamente quel meccanismo in base al quale si possono acquisire “diritti di inquinamento” compensandoli con l'impianto o la preservazione di foreste: un mercato dei crediti di carbonio da alberi che inevitabilmente finisce per avere proprio nell'Amazzonia brasiliana – un terzo di tutta la foresta pluviale del mondo – uno dei suoi mercati principali.

    Come ha spiegato il ministro dell'Ambiente brasiliano Carlos Minc, la sua richiesta sarà di permettere ai paesi industrializzati non più di un dieci percento di emissioni compensabili con progetti forestali. E tutti e cinque i governatori degli stati amazzonici sono d'accordo, al di là delle differenze di partito. “Se davvero temono tanto l'inquinamento, taglino le emissioni in casa loro”, dicono Minc e i governatori. Il fatto è che il Brasile intende a sua volta utilizzare i progetti di riforestazione amazzonica per raggiungere un 38-42 per cento di emissioni in meno entro il 2020, senza dover per questo compromettere uno sviluppo industriale sempre più vorticoso. Non a caso, è di questi giorni la notizia proveniente dall'Italia che sia Fiat che Telecom intendono accrescere la loro presenza nel sempre più importante mercato brasiliano.  

    A questo punto Brasilia deve essersi mossa a livello di Ibsa. Mercoledì è filtrata la notizia del documento, tra le cui firme accanto ai tre Ibsa si è aggiunta anche la Cina, e ieri al Parlamento di New Delhi un sempre più scatenato Ramesh ha formalmente smentito gli impegni del suo premier: l'India non accetterà alcun obiettivo di riduzione delle emissioni che possa essere legalmente vincolante. E non solo. L'Australia, altro gigante economico del sud del mondo, non si è per ora unita al documento dei quattro, ma il suo Parlamento ha respinto per la seconda volta il piano governativo di commercio delle emissioni. Insomma, uno dei punti più qualificanti del programma di governo dovrà essere rinviato di almeno un anno, il premier laburista Kevin Rudd dovrà andare al vertice di Copenaghen a mani vuote, e l'Australia continuerà ad essere prova di un mercato delle emissioni simile a quello che c'è in Europa. Ma a questo punto è l'intero schema del mercato dei diritti di emissione che minaccia di andare in crisi, in seguito all'insicurezza di cosa uscirà fuori da Copenaghen. D'altra parte, con la crisi le emissioni sono andate ai livelli minimi da quarant'anni a questa parte da sole: senza bisogno di trattati o protocolli.