Ecco il cardo, il decumano e il software dell'Expo milanese

Stefania Vitulli

Discutere di Expo 2015 vuol dire farsi raccontare un progetto architettonico per un'area che sfiora il milione di metri quadri, un programma di eventi lungo sei mesi, lo sviluppo formale e concettuale di un tema universalistico come “Nutrire il pianeta energia per la vita”, le partnership cercate e quelle offerte, dalla Fao alla Rai, la realizzazione di ricavi che secondo le ultime dichiarazioni della società dovrebbero ammontare a un miliardo di euro nel 2014, un disavanzo comunque previsto fino al 2015,  le peculiarità e le concorrenzialità con gli Expo precedenti.

    Discutere di Expo 2015 vuol dire farsi raccontare un progetto architettonico per un'area che sfiora il milione di metri quadri, un programma di eventi lungo sei mesi, lo sviluppo formale e concettuale di un tema universalistico come “Nutrire il pianeta energia per la vita”, le partnership cercate e quelle offerte, dalla Fao alla Rai, la realizzazione di ricavi che secondo le ultime dichiarazioni della società dovrebbero ammontare a un miliardo di euro nel 2014, un disavanzo comunque previsto fino al 2015,  le peculiarità e le concorrenzialità con gli Expo precedenti. Il tutto in un clima di simulazione onesta, considerando che la società incaricata è in corsa al momento per recuperare il tempo perduto dalla data dell'assegnazione – 31 marzo 2008 – a oggi e per stringere i primi accordi con gli sponsor e con le istituzioni internazionali e per presentare a maggio al BIE (Bureau International des Expositions, ndr) il masterplan definitivo del sito alle porte di Milano che ospiterà l'evento.

    Il Foglio ha invitato al confronto l'intera squadra che compone il management di Expo 2015 S.p.A: l'onorevole Lucio Stanca, amministratore Delegato della società, vicepresidente e rappresentante del comune di Milano, già vicepresidente del gruppo IBM, fino al 2006 ministro per l'Innovazione e consigliere d'amministrazione Bocconi; Alberto Mina, incaricato delle “relazioni istituzionali e sviluppo del tema”, filosofo, ex professore di italiano, dal 2006 direttore relazioni esterne di regione Lombardia; Stefano Gatti, per Expo agli “affari internazionali”, diplomatico dal 1990, coordinatore dei progetti di e-government del governo Berlusconi dal 2002 al 2006 e consigliere alle Nazioni Unite per l'Italia dal 2006; Angelo Paris, che si occupa di “pianificazione e controllo, ICT e acquisti”, ingegnere, già consulente direzionale per marchi multinazionali e vicedirettore del Toroc, la Fondazione che organizzò le Olimpiadi di Torino 2006; Renzo Gorini, ora alle “Infrastrutture” di Expo 2015, ingegnere, ex uomo Sea con lo stesso incarico e prima ancora direttore generale del comune di Reggio Emilia e Andrea Radic, che per l'evento si occupa di “comunicazione e relazioni esterne”, giornalista, ex RTI e Fininvest, poi portavoce per regione Lombardia, quindi uomo Alcatel per la comunicazione.

    Per il Foglio interviene l'area milanese, con Maurizio Crippa, Lodovico Festa, Sandro Fusina, Stefania Vitulli, Diana Zuncheddu e il vicedirettore Daniele Bellasio.
    Foglio: Proviamo a immaginare, per quanto possibile, di essere già nel 2017 e di guardare l'Expo di Milano come cosa fatta. Quali sono i pilastri di organizzazione dell'esposizione che hanno portato a successo l'evento?
    Stanca: Intanto va detto che Expo è l'appuntamento più importante che il paese prevede sul panorama internazionale, non riguarda soltanto Milano. Si parla di Torino e delle Olimpiadi, è vero, ma rispetto a quella, questa è un'occasione imparagonabile. Qui bisogna seriamente sviluppare un tema, non una competizione sportiva. Tuttavia, perché si fa a gara per accaparrarsi questi eventi? Perché si mobilita il paese, la leadership politica centrale? Perché l'Expo è un grande palcoscenico su cui si muovono le eccellenze. Chi viene in Italia nel frattempo, deve avere l'occasione di assistere a eventi di grande qualità, per poi programmare di tornare nel 2015. Perciò la sfida si gioca su due parametri: la promozione e l'eredità. I visitatori verranno per conoscere in definitiva l'Italia e i media riserveranno a tutto il paese la loro attenzione. Concluso l'evento, poi, rimarranno al territorio aspetti materiali, come le infrastrutture, e immateriali, come il miglioramento dell'immagine. Stiamo guardando a Shanghai, che prepara in questo momento un'Expo molto più tradizionale, “muscolare”, sia in termini di dimensione che di architetture. La Lombardia è la terza o quarta regione più sviluppata d'Europa, ma ha l'indice di autostrade più basso d'Italia. La Pedemontana dovevamo farla vent'anni fa, è vero. Ma forse senza l'Expo l'avremmo fatta tra altri venti. Il sito dell'Expo è la San Babila della “grande Milano”. Lo stesso interesse manifestato dalla Rai di insediarsi nel sito che stiamo progettando sottolinea la sua funzionalità, qualità e sostenibilità senza eguali. E in futuro altri arriveranno, a volersi sistemare lì. Abbiamo in progress la realizzazione di un Centro per lo Sviluppo Sostenibile, che prosegua il network di cooperazione con i paesi in via di sviluppo, con una Borsa telematica agroalimentare e una banca dati italiana di tutti i progetti di cooperazione a livello globale. La filosofia è quella di creare una griglia non aprioristica – non “Si fanno le Olimpiadi per creare l'ortomercato”, ma “si fanno le Olimpiadi per le Olimpiadi” – e poi quella griglia flessibile verrà usata dalla città come base per crescere secondo le sue esigenze. O si decide tutto prima come in Cina oppure non possiamo sapere di che cosa avrà bisogno il territorio nel 2025.

    Foglio: In passato ci sono state Expo con grandissime coreografie, poi smontate, che non hanno “determinato” la città. Coreografie “biodegradabili”, diciamo. Ci piacerebbe capire che tipo di immagine di città può lasciare in eredità Expo 2015. L'impressione attuale è che Milano sia una città che non ha mai avuto occasione di parlare di sé e che da molto tempo non si mette d'accordo su nulla.
    Stanca: In Triennale ho visto quanti – ottocento, mille? – architetti riuniti a parlare di Milano per via dell'Expo. E' la prima volta che accade da molto, molto tempo. Questi eventi forzano le dinamiche di riflessione. Expo è un acceleratore, un integratore, perché mette insieme tante forze, pubblico, privato, economia. Ma la scommessa va vinta dalla comunità, dal territorio.

    Foglio: Qualche preoccupazione l'avremmo, però. Shanghai è sconvolgente. Anche soltanto guardare i padiglioni dà un'idea di bellezza tale che pensare di guidare un progetto milanese per i cinque anni successivi fa tremare i polsi. Hannover è stato un'Expo pensata sulla griglia, sui contenuti. E non ha funzionato. Il vero problema sembra come indirizzare queste forze, come assorbire suggerimenti. Bella l'idea di salotto per la città, per la Lombardia. Ma fare un salotto tra Malpensa, Rho Fiera e il nord-ovest di Milano necessita di un progetto, di segni architettonici di grande qualità. Tutte le Expo che funzionano lasciano segni. Le vie d'acqua e il verde non bastano, sennò si andrebbe a Venezia. Interessante il collegamento tra Expo e Malpensa: se si realizzasse con un segno architettonico. A Milano ci siamo inventati le Ferrovie Nord, i tram citati nell' “Ulysse” di Joyce, quelli che adesso San Francisco ci vuole comprare… Lo stesso per le manifestazioni di contorno: non è ora di convocare gli stati generali, sul modello del Salone del Mobile, dove è tutta la città a partecipare?
    Stanca: Rileggiamo il patto di candidatura. Si parla di settemila eventi. Non possono essere offerti soltanto da Milano. L'Expo richiede che ci sia un sito come cuore, ma intorno un modello, che vogliamo realizzare. Sull'architettura non sono un esperto, ma a me l'idea che a Shanghai tutto quel che verrà costruito sarà distrutto non mi piace. L'eredità di Hannover c'è: è la nuova fiera. Ogni Expo ha la sua ragion d'essere, la sua anima, la sua storia. Sulla nostra griglia ci saranno 25 concorsi di progettazione. L'anfiteatro verrà richiesto ai migliori architetti del mondo. I paesi che verranno useranno i loro architetti sulle nostre linee guida. Ma non vogliamo la Torre Eiffel. Il progetto iniziale prevedeva una torre su un ponte alto 40 metri e quando sono arrivato di fatto è stata eliminata. Ciclopica, molto ardita.

    Foglio: Ma da come l'ha descritta sembra contento che non ci sia più.
    Stanca: La cosiddetta “Via dell'acqua” non sono i canali navigabili. Ma creare dieci volte Central Park. Dieci, undici cascine (saranno diciotto, secondo l'ultimo avanzamento di oggi, ndr) recuperate per ospitalità, per gustare del cibo. Pulire i parchi. Ripulire i fiumi. Io credo che questa sia una landmark fortissima, in sintonia con i tempi in cui viviamo. Shanghai deve fare una Torre Eiffel, perché sta rincorrendo il nostro sviluppo. Ma fare una torre a Milano significa guardare al passato e non al futuro.

    Foglio: I parchi però non sono il ventunesimo secolo
    , ma il diciottesimo. E' in atto, ad esempio, uno sviluppo dei rapporti tra Milano e Torino? L'espansione su un asse esterno?
    Stanca: E' prevista una fermata della linea ad alta velocità al sito Expo sulla linea Torino Milano. Significa che da Porta Nuova all'Expo, dove la fermata sarà a una diecina di metri dall'ingresso, si arriva in meno di quaranta minuti. Ecco che siamo nella stessa area metropolitana. Da Como a Milano ci vuole anche un'ora e mezza. Ventinove milioni di persone non si muoverebbero per vedere la Torre Eiffel – si vede meglio in internet – ma per vivere un'esperienza, come la Scala di Milano aperta 180 sere consecutive, mostre che non verranno mai replicate, un sito che si trova a un'ora di treno dal melodramma italiano messo in scena all'Arena di Verona. 45 milioni di stranieri vengono ogni anno in Italia senza Expo.

    Foglio: Sembra si abbia quasi vergogna a parlare
    di possibili aspetti ludici, che invece nelle fiere d'antan erano il cuore. La gente viene anche per divertirsi. Lisbona ha progettato un quartiere apposta, che è rimasto e il sabato e la domenica si va lì e ci si diverte come durante i giorni della fiera. E' vero però che quasi tutte le fiere hanno costruito per distruggere. I primi padiglioni erano in cartongesso, pronti a essere buttati giù il giorno dopo quello di chiusura.
    Paris: Ci sono regolamenti del Bie con cui bisogna normarsi. La flessibilità fa parte dell'adeguamento ai regolamenti originari.
    Stanca: La funzionalità futura su cui vorremmo basarci è come quella adottata da Londra per le Olimpiadi, che mi ha molto colpito: non ha più senso costruire stadi permanenti da 100 mila persone. Ma in quei giorni lo studio televisivo avrà bisogno di quella capienza. Dopo le Olimpiadi, verrà smontata la parte mobile delle gradinate e la parte fissa che rimane sarà per un'accoglienza ridotta a 40 mila posti.
    Mina: Arrivando al tema: non sarà l'Expo sulla fame nel mondo. Ognuno di noi può citare personali esperienze alimentari in un confronto versatile e sentirsi coinvolto. Racconti, elaborazioni, comunità: il tema porta con sé sfide sentite da tutta l'umanità perché l'alimentazione pone problemi e piaceri in tutto il mondo. Lifestyle ed entertainment dell'alimentazione a cui si lega l'offerta culturale in un palinsesto grande, con committenze originali. Vorremmo mobilitare un'assise di chef, gourmet e artisti e abbiamo aperto un tavolo informale con le principali istituzioni milanesi. Triennale, Scala, Museo della Scienza, Franco Parenti, Piccolo Teatro, Alberoni con la sua Scuola di Cinema sono i nostri soci in un dialogo che speriamo avrà sviluppi di irradiazione progressiva, sia nazionale sia internazionale, in una sfida alla produzione culturale mondiale.

    Foglio: Non rischiate che venga a mancare l'integrazione
    tra tutti questi processi?
    Stanca: Ma noi stiamo innescando i processi, ora. Stiamo disegnando un mega palinsesto non solo per i sei mesi dell'evento, ma per il periodo di avvicinamento. Abbiamo anche interpellato venti scienziati nazionali e globali, ma io non mi sento responsabile per questo né della scienza né della cultura. Vogliamo far vivere l'Expo già oggi per aiutare i paesi in via di sviluppo a organizzare tecnologie e competenze e questo non lo facciamo per attirare pubblico. E' un modo di interpretare l'Expo in maniera del tutto diversa rispetto al passato. Se avessimo deciso di far concorrenza a Shanghai avremmo già perso nel 2009.
    Paris: Uno degli obiettivi Expo che lo stesso BIE ci insegna è l'accessibilità al mercato dei paesi lontani. Dobbiamo introdurre su scala globale opportune modifiche che migliorino la qualità di vita dei popoli del pianeta.
    Stanca: L'ultimo summit della Fao è stato criticato, però è la prima volta che abbiamo coinvolto l'industria privata in un incontro del genere: Barilla, Ferrero… Nessuno li aveva mai interpellati prima.
    Gatti: Non dobbiamo dimenticare che una delle ragioni per cui la maggior parte dei paesi ha votato per noi è il tema. La seconda ragione è che il tema coincide con gli obiettivi per lo sviluppo del mondo che le Nazioni Unite si sono proposte di raggiungere proprio entro il 2015. L'Expo coincide con la scadenza e dunque portiamo a Milano molti dei grandi eventi previsti per l'occasione, compresa la conferenza di chiusura delle Nazioni Unite per cui ci stiamo candidando. Una delle più grandi innovazioni è che di solito i paesi vengono all'Expo e dedicano al tema una parte del padiglione. Noi invece chiediamo loro di declinarlo in tutto lo spazio. Un'altra novità sempre legata al tema è il lascito: un Centro internazionale a Milano sul tema dello sviluppo sostenibile, in cui convergano tutte le strutture, un sistema unico che sarà localizzato all'interno del sito.
    Stanca: Abbiamo scelto la strada più difficile: innovare. Cambiare il modello delle Expo universali. Per ora sono parole. Bisogna vedere se nei fatti saremo capaci di indurre una mobilitazione. Certo che però nei nostri clienti, che innanzitutto sono i paesi che dovranno partecipare, la curiosità è molta.
    Radic: Molto ci viene chiesto subito perché ci sono stati 14 mesi di silenzio, ma penso ci sia ancora il tempo di costruire un percorso di consegna della sfida alla comunità, perché la gente si senta di nuovo partecipe. E' vero che c'è grande interesse, ma anche qualche scetticismo. Far passare questi messaggi è complicato, ma contiamo su un coinvolgimento della comunità.
    Gorini: Il nostro sito è concepito secondo i due storici assi della città romana, il cardo e il decumano. C'è la necessità di “ricuciture” nell'area milanese circostante, non di nuova monumentalità. Lo sviluppo del piano sta avvenendo grazie ad un'altra innovazione: 15 neolaureati del Politecnico che alla Bovisa stanno lavorando al masterplan definitivo. L'obiettivo di ricucire Milano riguarda poche centinaia di metri, in realtà, ma è fondamentale.
    Paris: Volente o nolente, l'Expo ha creato attesa di infrastrutture che aspettano da anni di essere ricollegate e necessitano di un investimento di tredici miliardi di euro.
    Stanca: Una delle ricuciture è il collegamento tra Expo e la Fiera. Creare occasioni per “passare la serata” in un'area che adesso è praticamente morta.

    Foglio: Non è solo colpa della comunicazione se il tutto non riesce a volte, ma anche del messaggio. La sensazione è che nell'insieme il vostro messaggio sia un po' di stile new age, che vogliate vendere un software e trascurare l'hardware. Tutto questo non rischia di essere poco attrattivo, di incrinare la partecipazione? Se ci si concentra solo sulle parti innovative, sull'orticello globale, non si manca di concretezza? Sembra che manchi un lavoro di equilibrio tra verde, tema, Milano: “Non avremo la Torre Eiffel, ma per lasciare un segno potremmo usare la stazione ad alta velocità”. “Non organizziamo la cultura di Milano ma la vogliamo stimolare e faremo centinaia di incontri”… Forse siamo troppo “cronisti”, ma vorremo poter raccontare di torri, o anche di Riccardo Muti che dirige alla Scala per quindici giorni o delle nuove metropolitane… Il rischio di vendere un software è che per farlo ci vuole una leadership forte. Manageriale, ma soprattutto politica. E nell'ultimo periodo la leadership politica sembra astenersi da Expo.
    Stanca: Certo non andiamo dai grandi sponsor a vendere verde e laghetti. Né convinciamo il ministro Giulio Tremonti solo con un software. Questo paese all'inizio mostra sempre inerzie spaventose. Siamo pigri, complicati e lenti, ma alla data giusta partiamo. Altri paesi pianificano, ma l'Italia non è fatta così. C'è stato un intervallo troppo lungo, che ha pesato sia sull'opinione pubblica che sulla politica, con la dispersione di quel patrimonio che derivava dalla nostra vittoria. Mano a mano che ci mettiamo in moto però, recupereremo anche quello spirito.

    Foglio: Si recupererà anche Malpensa?
    Stanca: Il mercato c'è. Quando si accorgerà che Expo è uno dei suoi motori di crescita, reagirà.