Come fare un giornale di successo in tempi di crisi

Marco Valerio Lo Prete

Quello che si staglia all'orizzonte nel futuro della carta stampata assomiglierà pure all'iceberg che affondò il Titanic – come ha spiegato il presidente del gruppo editoriale del New York Times, Arthur Sulzberger Jr. – ma qualcuno oggi sembra in grado di evitarlo. Così, mentre i licenziamenti nelle redazioni diventano pratica comune e la tiratura dei quotidiani è in calo, il Wall Street Journal continua a macinare copie vendute.

    Quello che si staglia all'orizzonte nel futuro della carta stampata assomiglierà pure all'iceberg che affondò il Titanic – come ha spiegato il presidente del gruppo editoriale del New York Times, Arthur Sulzberger Jr. – ma qualcuno oggi sembra in grado di evitarlo. Così, mentre i licenziamenti nelle redazioni diventano pratica comune e la tiratura dei quotidiani è in calo, il Wall Street Journal continua a macinare copie vendute: “Erano 2.011.999 al giorno nel settembre 2008 – dice al Foglio Kate Dobbin, rappresentante della società editoriale Dow Jones&co. in Europa – nel settembre 2009 siamo passati a 2.024.269 copie quotidiane negli Stati Uniti. Un aumento dello 0,61 per cento”.

    Decimali, certo, ma che pesano come macigni a fronte della netta flessione fatta segnare da tutti i concorrenti nordamericani. Infatti secondo l'Audit Bureau of Circulations, organismo che misura la tiratura di 379 quotidiani statunitensi, nei sei mesi compresi tra aprile e settembre le testate prese in considerazione hanno venduto ogni giorno 30,4 milioni di copie in media, con una diminuzione del 10,6 per cento rispetto allo stesso periodo del 2008.
    “Credo che stiamo assistendo alla fine del business dei giornali. Punto e basta. Non alla fine del business dei giornali per come lo abbiamo conosciuto”, ha scritto la commentatrice economica dell'Atlantic, Megan McArdle. Spesso controcorrente, questa volta l'editorialista non si è molto discostata dalla previsione sul futuro del giornalismo avanzata da Sulzberger Jr., probabilmente influenzato dal calo del 7,3 per cento delle vendite del New York Times: “La migliore analogia che mi viene in mente… Avete mai sentito parlare della tragedia del Titanic?”. E se fosse addirittura peggio del Titanic? Almeno, sulla nave passeggeri affondata nel 1912, si dice che l'orchestra abbia continuato a suonare fino alla fine per distrarre i passeggeri terrorizzati. Nelle redazioni bastano un po' di statistiche insoddisfacenti, ed ecco che arrivano le defezioni. Anche clamorose, come quella comunicata due giorni fa da Saul Friedman. Editorialista dal 1996 di Newsday, che con le sue 377.500 copie vendute è l'undicesimo quotidiano statunitense, Friedman si è licenziato dopo la scelta editoriale di far pagare tutti i contenuti online, compresa la sua popolare rubrica sull'invecchiamento. Scriverà per un blog, “altrimenti sarà impossibile leggere i miei articoli fuori dai confini di Long Island”, ha detto.

    Crisi è un termine giornalistico. Semplicemente lo amiamo”, ha detto invece Jeremy Paxman, celebre conduttore della Bbc, nel tentativo di ridimensionare gli scenari più apocalittici. Perché sarà vero che gli incassi pubblicitari sono diminuiti dall'inizio della recessione, e che la concorrenza dei contenuti online è sempre più aggressiva – a settembre i lettori di Huffington Post, il blog fondato nel 2005 da Arianna Huffington, hanno superato quelli del Washington Post, il giornale più antico (est. 1877) di Capitol Hill. Ma è altrettanto vero che crescere, per i giornali, è ancora possibile.

    A dimostrarlo, come detto, sono innanzitutto i risultati positivi del Wall Street Journal. Ottenuti come? “Abbiamo aumentato la nostra copertura giornalistica degli Stati Uniti, senza penalizzare politica e notizie internazionali – spiega Dobbin – oltre ad aver lanciato nuovi prodotti come le applicazioni per la telefonia mobile, Blackberry e iPhone in primis”. Poi c'è il sito online, “una vetrina che attrae 26 milioni di lettori al mese. Un milione di loro sceglie di pagare per alcuni contenuti esclusivi”. Ma negli Stati Uniti cresce anche l'Economist, come spiega al Foglio James Hansen, rappresentante in Italia del settimanale inglese: “Fino a settembre 2009 abbiamo venduto 810.821 copie a settimana in Nord America, con un incremento del 9 per cento rispetto al 2008. In tempi di  crisi, la gente sente il bisogno di fonti autorevoli di informazione – soprattutto economica – e le premia”. E poi chi ha detto che per l'online sono solo rose e fiori? Secondo Daniel Gross, della rivista Slate, “molti blog politici hanno visto diminuire i loro lettori anche più del 10 per cento dal 2008”. Idem per la pubblicità. Colpa della recessione, spiega, che almeno in campo mediatico non farebbe differenze.