In Uruguay c'è un ex tupamaro che sogna di diventare come Lula

Maurizio Stefanini

A 34 anni, è uno dei guerriglieri che diedero l'assalto alla città di Pando, a 35 chilometri da Montevideo. In venti minuti occupano commissariato e caserma dei pompieri, bloccano la centrale telefonica, prelevano l'equivalente di 400 mila dollari dalle banche e poi fuggono sparando alla polizia, nell'azione più spettacolare di tutta la storia del Movimento di Liberazione Nazionale-Tupamaros.

    A 34 anni, è uno dei guerriglieri che diedero l'assalto alla città di Pando, a 35 chilometri da Montevideo. In venti minuti occupano commissariato e caserma dei pompieri, bloccano la centrale telefonica, prelevano l'equivalente di 400 mila dollari dalle banche e poi fuggono sparando alla polizia, nell'azione più spettacolare di tutta la storia del Movimento di Liberazione Nazionale-Tupamaros. A 36 anni, sta in galera, dopo un conflitto a fuoco di cui porta ancora in corpo le sei pallottole che gli spararono. A 37, dopo l'avvento del regime militare, è nella lista dei prigionieri che sarebbero stati giustiziati, se la lotta armata fosse ripresa. A 50, dopo 14 anni di carcere di cui 9 in isolamento, torna in libertà, grazie all'amnistia concessa dalla restaurata democrazia. A 59 diventa deputato di Montevideo, dopo aver convinto gli ex guerriglieri a trasformarsi in partito politico legale. A 64 senatore, incarico che mantiene tuttora.

    A settant'anni è ministro per l'Allevamento, Agricoltura e Pesca nel governo del socialista Tabaré Vásquez: il primo presidente dell'Uruguay a non essere né militare né membro dei due tradizionali partiti Blanco e Colorado. A 73 dà le dimissioni per partecipare alle primarie interne del Frente Amplio: la grande coalizione che va appunto dai tupamaros a ex-blancos e ex-colorados, passando per comunisti, post comunisti, socialisti, socialdemocratici, democristiani, indipendenti e varie altre frattaglie del centro-sinistra. A 74, dopo aver vinto le primarie, corre al voto di domenica per la presidenza, dopo essersi preso come vicepresidente Daniel Astori, l'ortodosso ex ministro dell'Economia che aveva sconfitto alle stesse primarie.

    Dice che il suo modello è Lula, che il modello di Cuba fa schifo, che se c'è un paese al quale vorrebbe che l'Uruguay assomigliasse è la Finlandia, “che esportava legname e adesso fabbrica cellulari”. E' la clamorosa sfida di José Alberto “Pepe” Mujica Cordano: nato a Montevideo il 20 maggio del 1935; secondo cognome da un nonno genovese, “don Antonio” come tutti lo chiamavano, bravissimo a piantare ogni tipo di albero da frutto, e anche ardente cattolico, al punto da costruire personalmente una cappella con una campana portata dall'Italia. La fede, Mujica, non l'ha conservata: in ciò si distingue da Vásquez, che ha dato le dimissioni dal Partito Socialista dopo aver posto il veto alla legge sull'aborto. Ma l'interesse per le piante sì: da giovane infatti era floricultore di professione, e ancora adesso nei rari ritagli di tempo libero prende cesoie e innaffiatoio. Le armi non più. “Io dico ai più giovani: quando parte il primo colpo, non si sa più quando partirà l'ultimo”, ripete.

    Altrettanto sorprendenti, per un uomo col suo passato, i giudizi su Cuba che ha dato in un libro-intervista preparato per questa campagna elettorale. “Tutto cade a pezzi”. “La stampa cubana è illeggibile”. “A Cuba non c'è socialismo ma mafia”. In quel libro ha però pure preso di petto i coniugi Kirchner e l'Argentina in genere. “Anche l'Argentina è un Paese che cade a pezzi”. “Il peronismo è un fenomeno incomprensibile”. “I Kirchner sono una sinistra truffa”. “Menem è un mafioso". “Non dirò che il popolo argentino è un popolo di tarati o una repubblica delle banane, ma certo che hanno reazioni da isterici, pazzi e paranoici". “La  politica argentina è un mistero che non è mai arrivato al livello della democrazia rappresentativa e dove l'istituzionalismo non vale un cazzo".

    E' il suo linguaggio abituale, che all'uruguayano della strada piace da impazzire. E se le sparate su Cuba e i richiami alla Finlandia mirano a sfondare al centro e a rassicurare tutti che non sarà un nuovo Chávez, gli insulti in Argentina hanno sì provocato una tempesta diplomatica, ma solleticano atavici campanilismi (non legati solo al calcio). Mai come ora – che nei due paesi ci sono governi di sinistra – le relazioni sono state tese: per via di una cartiera al confine costruita da una società finlandese (capito il riferimento?), e che l'Argentina giudica “inquinante”. A differenza di Vásquez, però, quasi certamente Mujica non ce la farà al primo turno. I sondaggi danno lui tra il 45 e il 49 per cento, contro il 27-30 per cento dell'ex-presidente Luis Alberto Lacalle, del Partido Nacional. Fuori dal gioco il colorado Pedro Bordaberry col 13 e il democristiano centrista Pablo Mieres con il 3: i loro voti sarebbero però decisivi per il ballottaggio.