L'accordo di Copenaghen rischia di essere soltanto retorico

Perché sul clima la Cina farà poco e l'America ancora meno

Carlo Stagnaro

La strana coppia del clima ha debuttato a New York: Barack Obama, il presidente che doveva portare gli Stati Uniti sul carro della civiltà ambientale, e Hu Jintao, il presidente cinese da sempre refrattario alla riduzione delle emissioni. Miracolo? No: convergenza di interessi.

    La strana coppia del clima ha debuttato a New York: Barack Obama, il presidente che doveva portare gli Stati Uniti sul carro della civiltà ambientale, e Hu Jintao, il presidente cinese da sempre refrattario alla riduzione delle emissioni. Miracolo? No: convergenza di interessi. Il capo della Casa Bianca nei mesi scorsi ha alimentato aspettative che non potevano che essere deluse, come è rapidamente emerso dalla gelida accoglienza che ha ricevuto dai rappresentanti europei e dal segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon. Le difficoltà incontrate dal suo pacchetto verde alla House, in qualche misura inattese, e soprattutto la defezione di molti democratici sono solo un antipasto rispetto a quello che succederà al Senato, dove lo scollamento con l'opposizione repubblicana è più stretta e dove l'opposizione dei coal states pesa di più. Quindi, contro ogni promessa (americana) e speranza (europea), non solo Obama è arriverà a dicembre, quando si svolgerà il vertice di Copenhagen, a mani vuote, ma non avrà neppure spazio negoziale, non potendo impegnarsi a dare ciò che lui stesso non ha ricevuto dal Congresso.

    Pechino si trova in una condizione simmetrica. Tutti i documenti ufficiali chiariscono che la priorità è la crescita economica, un feeling reso ancor più cogente dall'impatto della crisi. La posizione cinese (e indiana) è solida e coerente: qualunque sforzo dovrà essere adeguatamente remunerato dai paesi occidentali. Solo che Hu aveva bisogno di una scappatoia per evitare di apparire come l'unico villain che, con la sua ostinazione, fa fallire le buone intenzioni del resto del mondo. In un certo senso, quello che gli serviva era un alibi, per poter dire: non accetto la logica europea dei “targets and timetables”, ma questo non significa che io stia con le mani in mano. Che la traiettoria di Hu finisse per incrociare quella di Obama era, dunque, nei fatti. Entrambi rifiutano gli obiettivi vincolanti di riduzione delle emissioni, e nessuno vuole che le Nazioni unite o altri enti sovranazionali mettano il becco nei loro affari domestici in qualità di supervisori dell'applicazione di “Kyoto 2”.

    La way out è una e una soltanto: distogliere l'attenzione dai tagli delle emissioni, e spostare il centro della riflessione sull'innovazione tecnologica per ridurre l'intensità carbonica, cioè il contenuto di emissioni dell'economia. Che poi non è una novità: è la prosecuzione della politica dell'odiato George W. Bush, che a sua volta portava avanti le scelte del suo predecessore, Bill Clinton. Così come è in linea con la gestione bushiana del dossier anche la scelta di manovrare in autonomia dai grandi fori internazionali, perseguendo un rapporto tête-à-tête tra il paese leader del mondo insutrializzato, e maggiore responsabile delle emissioni di oggi, con le principali economie emergenti, e maggiori responsabili delle emissioni di domani. L'asse sino-americano è destinato a pesare sulle prospettive di Copenhagen. E' alquanto improbabile, a questo punto, che nelle poche settimane che ci separano dal vertice le diplomazie riescano a trovare un accordo non puramente retorico. Come è stato l'anno scorso, e l'anno prima e quello prima ancora. 

    Leggi l'intervento del senatore Antonio D'Alì su CO2 e Copenaghen