Le esequie disumane del primo appestato moderno

Roberto Volpi

Vuoto abissale in chiesa. Nessuno che si sia chinato sulla bara, che abbia sia pure soltanto accennato a un bacio. Non si dica poi di una lacrima. Mai lacrima, una pur isolata e subito rientrata lacrima, deve essere apparsa tanto impropria, al confine con il grottesco, come in quella sede, la sua sola eventualità improbabile più di una sestina al superenalotto.

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    Vuoto abissale in chiesa. Nessuno che si sia chinato sulla bara, che abbia sia pure soltanto accennato a un bacio. Non si dica poi di una lacrima. Mai lacrima, una pur isolata e subito rientrata lacrima, deve essere apparsa tanto impropria, al confine con il grottesco, come in quella sede, la sua sola eventualità improbabile più di una sestina al superenalotto.

    Anche la madre sembra che abbia preferito evitare ogni contatto fisico col figlio defunto. Forse, ma le cronache tacciono al riguardo, hanno evitato perfino di guardarlo con l'intensità che si conviene all'ultimo saluto, e forse non si sono arrischiati a tanto, allo sguardo profondo e teso, prolungato e immobile come un fiato che il freddo cristallizzi nell'aria, semmai anche quel solo tipo di sguardo potesse bastare a catturare il virus e a riportarlo dal morto ai vivi, aiutandolo a non lasciarsi seppellire assieme  al defunto.

    Per trasportare la bara dal catafalco sprofondato nella desolazione della chiesa  all'improvviso paurosa all'auto funebre che aspettava sul sagrato, i volenterosi che si sono prestati alla bisogna hanno pensato bene di indossare guanti di lattice come chirurghi e operatori ecologici e le mascherine antismog, antimicrobi, antibatteri, ma assai poco antivirus, giacché il virus è anche cinquecento volte più piccolo di un comune microbo e si fa normalmente beffe di filtri e filtraggi tanto alla buona. E nella fattispecie proprio di virus si trattava, di A(N1H1), sigla diventata ormai quasi famosa, la sola quasi famosa sigla di virus da che esistono i virus, la sigla del virus dell'influenza suina.
    Le esequie del primo morto a Napoli non già di influenza suina ma di un rosario di malattie tali – dalla cardiopatia grave all'altrettanto grave forma diabetica, dall'insufficienza renale all'infezione microbica, il tutto in un paziente oligofrenico, ovvero con un deficit delle funzioni intellettive – da fare apparire l'influenza suina come la goccia che ha fatto traboccare un vaso che sarebbe traboccato qualunque fosse stata la goccia, quelle esequie sono state dunque   rigorosamente disumane  nella loro dichiarata, esibita asetticità, grottesca prosecuzione anche scenografica della asetticità ospedaliera dell'unità di terapia intensiva.

    Quelle esequie rappresentano le prime esequie programmaticamente disumane della nostra epoca, private d'ogni calore fluido tensione sentimento che possa dirsi calore fluido tensione sentimento di umanità non già perché il morto da vivo non avesse meritato niente di ciò, ma soltanto in quanto colpevole di essere presuntivamente morto di influenza suina – ma senza neppure essere arrivato a tanto. Solo la parola del prete, dall'altare, ha ricordato e forse ammonito che un uomo aveva lasciato questa terra, la vita terrena e, per chi crede, reso l'anima a Dio. Per la ristretta compagnia dei presenti e dei parenti e conoscenti pur non presenti moriva un uomo a causa dell'influenza di cui tanto si parla, di cui tutti parlano, a maggior ragione se professori e medici e giornalisti e uomini di televisione e gente comunque istruita che si suppone sappia quel che dice.
    Si è trattato delle esequie di un moderno appestato. La storia dovrebbe appuntarsi la data e l'occasione. 

    La prova generale delle esequie disumane di un moderno appestato è andata benissimo, impossibile sperare di più. L'umanità atterrita dalla moderna biomedicina è pronta a spogliarsi di ogni residuo di sé stessa, all'occorrenza. La biomedicina non ha che da pronunciarsi, da far sentire la sua voce. Se vuole che non ci si guardi neppure più l'uno con l'altro –  e c'è pericolosamente vicina –  non ha che da dirlo. Forse al prossimo funerale il morto passerà direttamente dalla terapia intensiva al più vicino cimitero, non scortato da alcuno. Di notte, possibilmente. Che sia ben fatta, l'ultima misura precauzionale.

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