Dopo la proposta dell'esame di dialetto per i professori

Son minga romano

Maurizio Stefanini

"Noio volevam savuàr”, “Ma da dove venite? Dalla Val Brembana?”. Immortali e simbolici, i due napoletani che si rivolgono al vigile milanese in un francese inventato e quello che li scambia per bergamaschi, in Totò, Peppino e la Malafemmina: “malafemmina” che peraltro non è napoletano, ma pugliese… A maggio è stato il ministro dell'Agricoltura Luca Zaia, leghista trevigiano, che ha proposto l'insegnamento obbligatorio del veneto nelle scuole della regione.

    "Noio volevam savuàr”, “Ma da dove venite? Dalla Val Brembana?”. Immortali e simbolici, i due napoletani che si rivolgono al vigile milanese in un francese inventato e quello che li scambia per bergamaschi, in Totò, Peppino e la Malafemmina: “malafemmina” che peraltro non è napoletano, ma pugliese… A maggio è stato il ministro dell'Agricoltura Luca Zaia, leghista trevigiano, che ha proposto l'insegnamento obbligatorio del veneto nelle scuole della regione con un comunicato appositamente bilingue, in lingua italiana e in “lengua veneta”: “La mea no le 'na bataglia in difesa de un dialeto, ma de ‘na lengua. Bataglia che porte avanti come omo politico, come ministro de la Repùblica Italiana e come veneto”.

    A luglio è il viceministro delle Infrastrutture Roberto Castelli, leghista lecchese, a salutare nell'inaugurazione del Polo della cinematografia lombarda l'occasione per porre fine alla “dittatura del romanesco” nel linguaggio cinematografico e televisivo: “Che sia un bergamasco, un altoatesino o un tedesco comunque parlano tutti con accento romanesco”. “Dà fastidio non tanto per una questione localistica o campanilistica, ma è chiaro che il linguaggio è parte essenziale dei personaggi. Prendiamo la fiction su Giovanni XXIII, che era un bergamasco verace: parlare con accento romanesco è sbagliato storicamente, dà fastidio da un punto di vista culturale”. In effetti, lì l'attore che interpellava il “Papa buono” da vecchio era l'americano Ed Asner, doppiato dal ligure Giancarlo Giannini. Però il personaggio da giovane lo faceva Massimo Ghini: romano, anche se di padre emiliano.

    A Zaia (nel ritratto di Fucecchi) pose subito un deciso stop la collega Maria Stella Gelmini: “Credo che a scuola si debbano apprendere le materie fondamentali”. Zaia ebbe però anche le obiezioni proprio di due scrittori impegnati nella difesa della lingua e della tradizione veneta come Ferdinando Camon e Andrea Zanzotto: e col primo in uno scambio polemico proprio in veneto. “No state a avilir, non sen pì in tel pasato e in Veneto pensen al nostro futuro. Che el nostro Veneto el gabie el status de lengua ufissial”. “Vàrda che el me compiùter el sé deventà mato, par recever le to parole in dialeto. El le gà scrabocià tute. No ghe sé compiùter par el dialeto, lo capìssito sì o no?”. Camon sostiene infatti che la civiltà cui il Veneto corrispondeva è ormai defunta, e che sarebbe artificioso cercare di resuscitarla. “Il dialetto chiamava le cose con nomi diversi dalla lingua italiana perché quelle cose erano diverse. Il ‘saòn' non era quello che noi chiamiamo ‘sapone'. Il ‘saòn' era fatto in casa, con materie sgrassanti, di color giallo. Puliva le mani dei contadini, sporchi di calcioanamide, ma non era profumato, non odorava di niente. Serviva a nettarsi le mani per mangiare. A un certo punto arrivò il ‘sapone', primo fra tutti il Cadum. Il Cadum profumava. Lo usavano ragazzi e ragazze che dopo andavano a ballare. Ci fu un momento in cui i due prodotti coesistevano. Quando il capo famiglia chiedeva: ‘Dammi il saòn', gli si dava il sapone autarchico, fabbricato in casa, una specie di detersivo a blocchi, dopo di che lui chiedeva: “Passami il sapone”, e con quello si profumava le mani e le annusava. Adesso c'è solo sapone, il ‘saòn' è sparito da mezzo secolo”.

    Zanzotto insiste invece su un altro concetto: è vero che come osserva Zaia il 70 per cento dei veneti si esprimono ancora in idioma locale ma “non esiste un dialetto, esistono i dialetti. Non esiste una koinè veneta”. Tesi ripetuta anche da altri: non solo il bellunese è diverso dal veneziano o dal vicentino, ma perfino il trevigiano si distingue tra destra e sinistra del Piave. Senza pretendere di dare un contributo definitivo in materia e venendo da tutt'altro contesto culturale, l'autore di queste note testimonia che i suoi nonni paterni non parlarono mai italiano ma solo un dialetto sabino in cui “ragazzi” si diceva “munilli”.

    La loro casa stava però all'esatto confine con un altro comune pure sabino in cui invece per lo stesso concetto si usava il vocabolo “potti”. Il problema è esemplificato dalla Spagna, dove il governo regionale catalano ha imposto un bilinguismo puntiglioso che rende complicato il trovare lavoro a chi parla solo spagnolo. Non è però riuscito a imporre alla Comunità Valenzana il principio generalmente riconosciuto dai glottologi secondo cui il valenzano è una varietà del catalano, e non una lingua a parte. D'altra parte, nelle Isole Baleari si coltivano altre varietà linguistiche che le autorità locali si sforzano di mantenere diverse sia dal catalano, sia dal valenzano. Anche da noi, quando nel 1997 la Sardegna proclamò il sardo lingua ufficiale assieme all'italiano ci fu il problema di stabilire se si doveva dire “limba sarda” in logudorese o “lìngua sarda” in campidanese: solo nel 2006 si è deciso infine che per i documenti ufficiali si doveva usare a livello sperimentale una “Limba Sarda Comuna” basata sull'idioma in uso nell'area di transizione tra dialetti logudoresi e dialetti campidanesi. Dunque non una lingua artificiale, ma certo assolutamente minoritaria. E comunque restano fuori i dialetti galluresi del nord-est, affini al corso; quel sassarese che è a sua volta un forma intermedia tra gallurese e logudorese; e poi il catalano di Alghero, il veneto di Arborea e Fertilia, il genovese di San Pietro e Sant'Antioco e il rom di Isili.

    E sì che il veneto e il sardo sono comunque tra tutte le parlate regionali italiane le uniche con una passata tradizione di lingua ufficiale, nella Repubblica di Venezia e nei Giudicati del Medioevo. Una riprova è nel sistema dei cognomi. In Veneto uno su tre ha ancora caratteristiche “dialettali” puttosto che italiane: Baldàn invece di Baldi, Cecchìn o Ceschin invece di Cecchini, Dal Molin invece di Dal Mulino, Galvàn invece di Galvani, Pavàn invece di Padovani, Rigón invece di Arrigoni, Zoratto invece di Cornacchia, Favaro invece di Fabbri, Da Rold invece di D'Aroldo… In Sardegna addirittura quattro su cinque: Angioni invece di Agnelli, Caboni o Puddu invece di Galli, Becciu o Betzu invece di Vecchi, Mannu o Manno invece di Grandi, Loi invece di Salvatori, Carta invece di Notari o Chierici… Ma creare una lingua ufficiale significa sempre fissare una forma standard che poi deve per forza imporsi sulla varietà degli idiomi effettivamente parlati. Spesso ciò è stato fatto con forza militare. Talvolta per il semplice prestigio di uno o più autori: non solo l'italiano di Dante, Petrarca e Boccaccio ma anche il tedesco della traduzione della Bibbia di Martin Lutero, il greco di Eschilo, Sofocle e Euriopide o l'arabo del Corano. Oggi c'è Internet: cosa sono le versioni in piemontese, ligure, lombardo, veneto, friulano, emiliano-romagnolo, napoletano, tarantino, barese, siciliano e sardo della Wikipedia, se non altrettanti tentativi degli autori di proporsi come i Dante o Lutero delle rispettive parlate? Ma qualcuno, in realtà, non ci prova nemmeno. Guardate la Wikipedia in Emiljàn e Romagnól, e scoprirete i rimandi ale versioni “in arsàn, in bulgnés, in cararés, in ferarés, in mudnés, in piasintèin, in pramzàn e in rumagnòl”.

    Ma proprio il problema della creazione di una koinè linguistica comprensibile a quanta più gente possibile è appunto all'origine dell'altra polemica sul cinema e tv in romanesco, sulla quale invece la Lega ha l'appoggio dei partner di governo: da Roberto Formigoni, che ha fornito 8,7 milioni di euro per finanziare il Polo della Cinematografia Lombarda; a Giulio Tremonti, che ha messo a disposizione la ex-Manifattura Tabacchi; a Letizia Moratti e Sandro Bondi, presenti all'inaugurazione. E' però pure parlamentare del Pdl Luca Barbareschi, che sebbene cresciuto a Milano da uomo di spettacolo è sceso in campo con veemenza a favore di Roma. “Posso anche essere d'accordo con Castelli che gli attori non devono parlare il romanesco: gli attori devono parlare l'italiano. Tuttavia, il Centro audiovisivi è a Roma perché l'industria dello spettacolo è a Roma e lo è sempre stata, per varie ragioni: non ultima che a Roma c'è il bel tempo, il sole, elementi che servono quando si girano i film, e non nebbia e pioggia, con le quali si possono girare solo alcune scene'”. Far “sballare i costi” e non definire precise politiche di appoggio servirebbe solo a provocare il definitivo collasso del settore, col risultato finale di un cinema che non parlerà “né il romanesco né il lombardo, ma nemmeno italiano”.

    Appunto: “Noio volevam savuàr”… Fu il milanese Alessandro Manzoni che quando volle rendere allo stesso tempo credibile e comprensibile la lingua messa in bocca ai suoi popolani decise di “risciacquare i panni in Arno”. Il modello di “lingua toscana in bocca romana” che i linguisti definiscono ortoepia fu imposto dalla prima Eiar attraverso testi che erano rigorosamente scritti, sottoposti a controllo preliminare e letti in modo che l'ascoltatore non potesse capire se la diffusione venisse dalla sede di Roma, di Milano o di Torino. A sua volta il cinema sonoro usò lo stesso tipo di linguaggio forbito e artificiale: a volte con effetti di forte comicità involontaria, come quando nel doppiaggio di “Ombre Rosse” lo sceriffo Curly Wilcox diventa “maresciallo”, manco fosse Vittorio De Sica in “Pane, amore e fantasia”. Fino al Neorealismo, quando il bisogno di “veridicità” dei registi favorì l'invenzione di un nuovo linguaggio di più marcato impianto dialettale. Attenzione, però: anche quello era, appunto, un linguaggio inventato. Dal siciliano “La terra Trema”, costruito da Luchino Visconti facendo tradurre l'italiano dagli attori; ai “va' a morì ammazzato” romaneschi con cui Anna Magnani si limitava a intercalare l'italiano ancora superforbito di “Roma Città Aperta”; a quell'“Albero degli Zoccoli” per il quale Ermanno Olmi unificò i dialetti di valli diverse. Per non parlare di tutti quei film di ambientazione ciociara, archetipo dell'Arcadia rurale dal punto di vista del pubblico capitolino: recitati però in varianti del più comprensibile umbro-marchigiano.

    A quel punto, non vale la pena inventare la lingua ex novo? Lo ha fatto “L'Armata Brancaleone”; lo faceva il primo Diego Abatantuono. Altre volte il contrasto tra caratterizzazione fisica e linguistica ha costruito paradossi addirittura metafisici. Nell'“Audace colpo dei Soliti Ignoti”, ad esempio, la romana Vicky Ludovisi parla un milanese stretto che cerca invano di insegnare a Vittorio Gassman, che interpreta un romanaccio pur essendo nato a Genova. Nello stesso film il sardo Tiberio Murgia faceva il siciliano Ferribbotte, mentre il napoletano Carlo Pisacane dava un'altrettanto memorabile caratterizzazione del bolognese Capannelle. E se il siciliano commissario Montalbano è in tv il romano Luca Zingaretti, in compenso una delle più famose caratterizzazioni romane l'ha fatta il cubano Tomás Milián, sia pure grazie al doppiaggio di Ferruccio Amendola; mentre la più memorabile marchigiana della storia del cinema, la Marisa Di Giovanni di “Straziami ma di baci saziami”, fu Pamela Tiffin: nata a Oklahoma City, e doppiata dalla livornese Flaminia Jandolo. 

    Fu quando negli anni Settanta la riforma della Rai decise che bisognava “andare verso il popolo”, che pure in tv la dizione di scuola Eiar è stata travolta dal nuovo italo-romanesco di derivazione cinematografica. Vari studiosi sono concordi a indicare il film che crea il modello linguistico definitivo in “Poveri ma belli”, del 1957: modello, peraltro, anch'esso inventato quasi a forza. “Una ragazza cerca sempre d'essere voluta bene, e io non ci posso stare senza essere innamorata. E poi, se ti devo dire la verità, quando Ugo m'ha lasciata, m'era venuta paura che nessuno m'avrèbbe voluto più bene”, dice ad esempio Giovanna. “Essere voluta bene”, costrutto popolare”, sta assieme al colto “m'ha lasciata” e a un “avrèbbe” che è assolutamente opposto all'“avrébbe” romano. “Così avverto che siamo arivati. Vedrai che ti piacerà, papà. E' tanto buono. Cj ha una pazienza che si farèbbe schiacciare una noce in testa”, dice Romolo. “Così” pronunciato all'italiana, “arivati” alla romana, “farèbbe” italiano e di nuovo “noce” pronunciato alla romana… Il regista? Dino Risi: milanese, come Manzoni.