Il miraggio verde di Obama

Carlo Stagnaro

Con la crisi economica del 2008-2009 la produzione industriale è crollata. Una conseguenza inintenzionale della recessione è la riduzione delle emissioni di anidride carbonica. La parola chiave è ‘inintenzionale'. La domanda è come farlo deliberatamente”. Si apre con queste provocatorie parole il rapporto sul clima, dichiaratamente rivolto al G8, del Mackinder Programme della London School of Economics e dell'Institute for Science, Innovation and Society dell'Università di Oxford.

    Con la crisi economica del 2008-2009 la produzione industriale è crollata. Una conseguenza inintenzionale della recessione è la riduzione delle emissioni di anidride carbonica. La parola chiave è ‘inintenzionale'. La domanda è come farlo deliberatamente”. Si apre con queste provocatorie parole il rapporto sul clima, dichiaratamente rivolto al G8, del Mackinder Programme della London School of Economics e dell'Institute for Science, Innovation and Society dell'Università di Oxford. Che esprime un giudizio netto e fortemente negativo sulle politiche adottate dall'Unione europea, simili a quelle attualmente in discussione negli Stati Uniti, e chiede ai leader dei paesi più industrializzati di considerare un approccio più razionale. Lo studio, redatto da dodici scienziati ed economisti, prende le mosse dalla cosiddetta “Identità di Kaya”, secondo cui le emissioni di gas climalteranti sono il prodotto di quattro fattori: la popolazione, il pil pro capite, l'intensità energetica del pil (cioè il rapporto tra consumi energetici e prodotto interno lordo), e l'intensità carbonica dell'energia (cioè il suo contenuto di carbonio e altre sostanze a effetto serra). Le prime due leve sono di fatto inaccessibili: ci sarebbe qualcosa di profondamente perverso nel voler attuare forme di controllo demografico o di impoverimento programmato della società. Restano quindi gli altri due termini, che hanno a che fare – in modo differente – con lo sviluppo tecnologico.

    Le tattiche finora sperimentate si sono mostrate inadeguate. Le ragioni sono differenti, ma dipendono largamente dalla natura di strumenti come gli schemi di “cap and trade” (quale è l'Emission Trading Scheme in vigore nell'Ue dal 1° gennaio 2005, che pone dei tetti alle emissioni e assegna a ogni impresa un monte certificati che possono essere utilizzati a copertura delle proprie emissioni oppure venduti). Essi sono caratterizzati da un alto grado di opacità amministrativa e politicizzazione, per cui finiscono per essere armi regolatorie con cui si combatte la guerra politica di tutti contro tutti – gruppi di pressione, lobby, governi e burocrazie. Inoltre, concentrandosi sulle conseguenze (le emissioni) ed essendo necessariamente orientati al breve termine incidono solo su aspetti marginali dell'organizzazione dell'economia, anziché andare alle cause. Per giunta, hanno generalmente un impatto economico rilevante, che rischia di creare problemi (sotto forma di mancata crescita) più gravi di quelli che pretendono di risolvere: lo si è visto bene lo scorso dicembre, quando una pattuglia di governi europei, tra cui quello italiano, sono entrati in rotta di collisione con Bruxelles e hanno chiesto e ottenuto un annacquamento delle politiche climatiche. Ma lo si è visto anche, più recentemente, nel feroce dibattito alla Camera americana, dove il piano fortemente voluto da Barack Obama è passato per il rotto della cuffia, solo grazie all'appoggio di otto dissidenti repubblicani, e nonostante la defezione di quarantaquattro democratici.

    Mettere in pratica schemi costosi e di dubbia efficacia in un momento di grave crisi economica rasenta il suicidio politico. Anche perché la decarbonizzazione dell'economia – cioè la graduale discesa della quantità di emissioni per unità di pil – è già una realtà in molti paesi sviluppati: la stessa Italia, soprattutto a causa dei prezzi dell'energia storicamente alti, già adesso è all'avanguardia in questo senso. Ma, secondo gli autori dello studio intitolato “How to get climate policies back on course”, il vero modello a cui guardare è quello giapponese, o “Mamizu” (cioè “acqua chiara”). Il Giappone intende raggiungere i suoi obiettivi di riduzione delle emissioni attraverso investimenti in tecnologie più avanzate e, nel lungo termine, scommettendo sull'innovazione e la creatività umana, in luogo della logica pianificatoria dei gosplan comunitari (la definizione è di Andrei Illarionov, già capoeconomista del Cremlino). Spiega il rapporto: “l'industria giapponese del ferro e dell'acciaio ha ridotto le emissioni del 19 per cento nel 1991-2008, come risultato diretto dei guadagni di efficienza”. In che modo si può replicare tale esperienza? Per esempio con una carbon tax, i cui proventi potrebbero essere utilizzati per finanziare gli investimenti in ricerca e sviluppo (questa la tesi del rapporto).
    In alternativa, altri economisti (tra cui il “decano” dell'economia del clima, William Nordhaus, e Greg Mankiw) suggeriscono che l'imposta sulle emissioni potrebbe essere al centro di una riforma rivoluzionaria della finanza pubblica e degli attuali schemi di incentivazione. Un'idea adombrata anche ieri da Dario Franceschini, segretario del Partito democratico, in un suo intervento sul Sole 24 Ore: “Dobbiamo avviare una riforma fiscale che alleggerisca il prelievo su lavoro e imprese, e sposti il peso sullo spreco di materie prime e sulle produzioni più inquinanti”. In sostanza, il gettito della carbon tax potrebbe essere restituito ai contribuenti, che così potrebbero essere ricompensati della perdita di potere d'acquisto necessariamente connessa a uno “shift” nelle tecnologie energetiche.

    Il grande vantaggio di un simile progetto sta nella sua semplicità e trasparenza, che consentirebbe di sbarazzarsi integralmente dell'esercito di regolamenti, sussidi, certificati di vario colore, e obblighi di riduzione delle emissioni che oggi inquina e distorce il mercato.
    La crisi economica non dovrebbe fornire al G8 l'alibi per proseguire sulla strada dei miraggi verdi. Semmai, dice lo studio di Oxford e Lse, “dovremmo rivolgerci con decisione a un approccio radicalmente diverso ma ben noto, verso misure che hanno funzionato nel passato e che sappiamo essere politicamente possibili. Questo percorso è assai diverso dalle attuali politiche, che non hanno funzionato nel passato e che sappiamo non saranno mai politicamente fattibili se non attraverso l'applicazione di forzature politiche inaccettabili”.