Epo e thanatos

Piero Vietti

"Voi non avete idea di cosa sia il Tour de France”, dice Henri. “E’ un calvario. Anzi peggio, perché il cammino della Croce non ha che quattordici stazioni, mentre il nostro ne ha quindici. Soffriamo dalla partenza all’arrivo. Volete vedere come andiamo avanti? Aspettate…”. E dalla borsa estrae una fiala. 

"Voi non avete idea di cosa sia il Tour de France”, dice Henri. “E’ un calvario. Anzi peggio, perché il cammino della Croce non ha che quattordici stazioni, mentre il nostro ne ha quindici. Soffriamo dalla partenza all’arrivo. Volete vedere come andiamo avanti? Aspettate…”. E dalla borsa estrae una fiala. “Ecco, questa è cocaina per gli occhi. Questo è cloroformio per le gengive…”. Interviene Ville, svuotando il suo tascapane: “Questa è pomata per riscaldarmi le ginocchia”. “E le pillole? Volete vedere anche le pillole? A voi, signori! Eccole qui!”. Ne tirano fuori tre scatole a testa. “Per farla breve – dice Francis – andiamo avanti a colpi di ‘bombe’”.

 

Quando il francese Albert Londres, considerato da molti l’inventore del giornalismo d’inchiesta, venne mandato a seguire il Tour de France del 1924, rimase impressionato dalla fatica immensa che i corridori facevano per arrivare fino alla fine. Da ignorante della materia, raccontò in una serie di articoli (raccolti nel volume “Tour de France, Tour de Souffrance” e usciti in Italia per Excelsior 1881) quello che all’epoca era un vero e proprio dramma, una sfida epica quasi al di sopra delle umane capacità, la Grand Boucle. E’ del 22 giugno 1924 quel dialogo con tre corridori del Tour (tra cui i fratelli Pélissier, favoriti per la vittoria finale) appena ritiratisi dalla corsa e incontrati in un bar a Granville. Non è certo uno scoop dire che le “bombe” esistono da quando esiste il ciclismo, ma certo può essere interessante provare a capire se in un secolo di vita, le “bombe” e la loro più letale evoluzione, il doping moderno, non abbiano portato il ciclismo a un punto di non ritorno, forse addirittura a una morte che è già avvenuta ma che nessuno vuole assumersi la responsabilità di decretare.

 

Se il ciclismo è morto vuol dire che ci sono milioni di necrofili in giro per il mondo”, dice Gianni Mura, firma storica dello sport di Repubblica, che sul Tour de France ha anche scritto un libro giallo. “E’ vero che è malato da molti anni. Non so se può risorgere, ci sono da fare anni di pulizia”. Pulizia che sembra sia cominciata seriamente adesso. “Serve più potere nei controlli e che siano univoci dappertutto: se in Francia li fanno in un modo, in Italia in un altro e in Spagna un altro ancora, ci troveremo ciclisti che sceglieranno di correre a seconda di dove non vengono beccati”. Che il ciclismo sia uno degli sport più compromessi col doping lo pensa anche Pier Bergonzi, che segue da anni il ciclismo per la Gazzetta dello Sport, ha scritto diversi libri sull’argomento ed è già al lavoro per organizzare il Giro d’Italia del centenario: “E’ una battaglia da combattere con tutte le armi possibili. Ma dire che il ciclismo è morto è come dire che bisogna chiudere la società civile perché qualcuno ruba”. C’è qualche corridore su cui Bergonzi metterebbe la mano sul fuoco? “Sì. E se anche fossero pochi, è per quei pochi che va fatta la battaglia”. I controlli in effetti ci sono e sembra che funzionino, ma il rischio del circolo vizioso per cui la gara è inventare una sostanza non individuabile con i controlli è molto alta: “Il fatto che negli ultimi anni anche grandi campioni siano stati squalificati per doping è la dimostrazione che il sistema sta funzionando”.

 

Basteranno forti squalifiche come deterrente? “Sì, anche perché è tutto il movimento del ciclismo che ha voglia di pulizia, si è visto dalle reazioni di questi giorni: il presidente dell’Associazione corridori ha chiesto la radiazione del prossimo che verrà sorpreso a fare uso di doping; sono loro stessi che capiscono che non ne vale più la pena”. Gli sponsor se ne vanno e “il giochino viene meno anche sul piano economico per gli stessi atleti”. Per spiegare perché i ciclisti dovrebbero smettere di far uso di sostanze che ne potenziano le capacità, Bergonzi cita Molière: “Se il mascalzone capisse quanto conviene essere onesto sarebbe onesto per mascalzoneria”. Detto questo, sostenere che il ciclismo è morto è “un’astrazione, come dire che nessuno deve più dipingere perché in giro ci sono solo artisti molto scarsi. Fermarlo sarebbe un’ipocrisia: tutto lo sport d’alto livello è compromesso col doping”.

 

La pensa così un’altra firma storica del giornalismo italiano, Gianpaolo Ormezzano, quasi trent’anni di “Giri” seguiti per strada alle spalle: “C’è una premessa da fare: nel ciclismo, come nell’atletica, c’è il doping perché c’è l’antidoping. Ma l’aumento dei controlli e la consapevolezza sempre maggiore di tutte le porcherie che girano nell’ambiente (del C.e.r.a. si sapeva tutto da un mese, almeno) farà sì che di questo passo tra qualche anno ciclismo e atletica saranno troppo puliti e non andranno alle Olimpiadi perché gli altri sono troppo sporchi. E non lo dico come paradosso”. E’ vero però che è un mondo da rifondare quasi da principio: “Occorre che i ragazzini crescano con una nuova cultura – riprende Bergonzi – Mio figlio di nove anni ha cominciato a correre in bicicletta e io ho il dovere di trasmettergli l’idea che, se ne avrà il talento, potrà vincere il Giro d’Italia senza scorciatoie. Serve l’impegno di tutti”. Di educazione a una cultura sportiva nuova parla anche uno che di mestiere si occupa di tutt’altro, il governatore della Lombardia Roberto Formigoni, ma che da grande appassionato seguiva da ragazzo le tappe del Giro e del Tour su strada e da qualche anno è presidente onorario di una squadra di ciclisti, la Amore & Vita, che ha fatto della lotta al doping la sua bandiera: “Il ciclismo oggi è molto malato” esordisce. Poi, dopo una pausa, aggiunge: “Molto, molto malato. La situazione va presa di petto: certo servono controlli potenziati e inflessibili, ma da quello che si vede emerge un vero e proprio degrado complessivo di una cultura”. Tutti dopati a tutte le età? “Il fenomeno del cosiddetto ‘aiutino’ si diffonde ormai a ogni livello”.

 

Come si può fermare questa deriva? Formigoni usa una frase ad effetto: “Smascherando gli scienziati, i super medici che stanno a monte di queste operazioni e che vogliono manipolare a piacimento il corpo umano. C’è un’aberrazione completa di tutto il sistema che è impressionante. Bisogna ricreare una cultura dello sport coinvolgendo la scuola, le famiglie, le istituzioni: la mentalità per cui certi genitori sono disposti a tutto purché il loro pupo vada più forte del pupo del vicino va cambiata. Il ciclismo è uno sport bellissimo, è fatica pura, sacrificio; e vedere uno faticare non può che commuovere, appassionare. In questo senso anche il sistema mediatico deve aiutare: non si può passare sopra al fatto che un campione è dopato semplicemente creando un nuovo idolo, magari anche lui destinato a essere scoperto positivo dopo un po’”. Che nel ciclismo ci sia da tempo qualcosa che non va Formigoni lo vede anche seguendo la sua squadra: “I nostri atleti vincono gare in giro per il mondo, ma quando in certe competizioni si vedono velocità medie così elevate si capisce che a certe condizioni è difficile ambire a risultati di alto livello”.

 

Eppure. Quello che sembra un mondo allo sfascio ha un serbatoio incredibile e a tratti inspiegabile: il suo pubblico. Scriveva Londres nel giugno polveroso di ottantaquattro anni fa: “I corridori stanno per arrivare: andavano tutti ad Argenteuil da dove sarebbero partiti. In poco tempo la periferia prese vita: le finestre erano affollate di spettatori in camicia da notte, gli incroci brulicavano di impazienti, di vecchie signore che di solito vanno a dormire con le galline e che ora aspettavano davanti alle loro porte, sedute su seggiole. […] Era ancora notte, correvamo da un’ora e, in quel momento, nel bosco che stavamo attraversando si alzavano grandi falò da selvaggi. […] Erano parigini che, davanti a quei bracieri, attendevano il passaggio dei giganti della strada. […] Nasce il giorno e permette di vedere chiaramente che quella notte nessun francese ha dormito; l’intera provincia è fuori dalla porta con i bigodini in testa”. Trentacinque anni dopo, Dino Buzzati celebrava così una tappa del Giro d’Italia: “Smaniose folle che si stenta a credere vere, balconi zeppi che si aspetta crollino da un momento all’altro per il sovraccarico di peso. […] Ci siano o no centri abitati, una popolazione indescrivibile è sbucata schierandosi ai lati della strada. Passando a tutta velocità, ne udiamo il rombo, come un’onda che dietro a noi, via via che Biagioni avanza, si rompe scrosciando pazzamente. Ma è possibile che al mondo esistano tanti uomini? I professori e i tecnici dei censimenti non hanno per caso preso un granchio formidabile? Altro che quarantacinque milioni di abitanti, se l’Italia fosse tutta come qui”. Queste di Buzzati e Londres potrebbero essere cronache del Giro e del Tour di quest’anno: centinaia di migliaia di persone per le strade, uomini e donne ad attendere per ore i corridori. Nonostante lo stillicidio quotidiano di atleti positivi all’antidoping, le strade si riempiono, gli ascolti in tv non diminuiscono: più c’è sporcizia più la gente dimostra il suo amore.

 

Perché? Ormezzano non ha dubbi: “Perché è rimasto l’unico sport a suscitare l’entusiasmo popolare senza bisogno di gossip: la gente che va a vedere una tappa di montagna non tifa mai per un ciclista contro un altro. Tifano per il ciclismo, per la corsa, gli eroi, i forzati, i cretini… chiamateli come volete. E non si picchiano tra di loro. Questa è la base che ne garantisce l’eternità. Direi anzi che il doping è un collaudo interessante di questo amore”. Un immenso amore che rischia di trasformarsi in indulgenza, però. “Questo temo – aggiunge Ormezzano – che alla lunga cioè le persone accettino il doping come ineluttabile, che lo ritengano quasi provvido in uno sport di fatica così esposta, ferina, brutale. Ma non mi sembra sia ancora il momento. Ero al Tour, quest’anno, e mi sembra che la gente sappia ancora discernere la poetica dalle porcherie. Dopotutto cosa vanno a vedere quegli appassionati su per le montagne? Dei drogati? Certo che no, ma non si può nemmeno dire che non sappiano che tanti si dopano: nel ciclismo c’è un lusso masochistico che nessun altro sport si può permettere”.

 

Gianni Mura ha due risposte per spiegare l’amore che ancora circonda questo sport, “una romantica e una cinica, anche se io propendo per la prima: quella romantica è che c’è sempre una presunzione di innocenza nel tifoso, per questo continua a seguire le corse a tappe; perché sono il Giro e il Tour. Quella cinica è che alla gente ormai non frega nulla di cosa prendono i ciclisti: facciano quello che vogliono, purché ci sia spettacolo. Ma se uno vuole spettacoli forti ce ne sono di emotivamente più coinvolgenti”. Per certi aspetti il ciclismo è anacronistico: “E’ rimasto uguale a sessant’anni fa – dice Mura – se vuoi vedere una tappa devi stare davanti alla tv per quattro ore, c’è poco da fare. E’ forte della sua forza: gli indici di ascolto e le presenze sulle strade ci dicono che non importa che a pedalare ci siano Coppi, Bartali, Merckx, Bugno o Pantani. Anche un Tour di mezze figure come questo ha fatto il pieno”. Perché? “Perché lo spettacolo è il Tour”.

 

Lo spettacolo è vedere una cosa così drammaticamente simile alla vita, con tutta quella solitudine e quella compagnia insieme, con tutta quella fatica che non è mai obiezione, ma condizione necessaria. Come nella vita, appunto. La gente rimane affascinata dalla solidarietà che nasce tra chi si trova a correre per la stessa cosa, si commuove a vedere il gregario farsi esplodere i polmoni per tirare la volata al campione, piange quando in vetta arriva l’eroe di turno. Perché il ciclismo è una cosa seria, non c’è un altro sport così poetico, misterioso e dannatamente serio. E’ ogni volta un pellegrinaggio laico: c’è dentro tutto (dormire, mangiare, stare insieme,  parlare, imprecare anche, piangere, gioire), e tutto è fatto per uno scopo. Educativo, anche: vedere uno che fa fatica per qualcosa insegna più di tante parole. Per questo dicono che quella di dimezzare le tappe per non dare ai corridori un motivo per doparsi è una soluzione che non può funzionare. “Un tempo c’erano tappe anche più lunghe – spiega Bergonzi – Paradossalmente se le accorci dai anche ai più scarsi l’idea che si può vincere facile, quindi li stimoli ad assumere doping. La soluzione è il controllo serrato. Con meno doping si terranno solo medie più basse”. E lo spettacolo della fatica tornerà pieno. “Il pubblico del ciclismo – prosegue Bergonzi – convive con la cultura del doping da sempre. Certo una volta la ‘bomba’ la prendevano magari solo i campioni e c’erano gregari che arrivavano alla fine a pane, salame e uova, ma il pubblico sa distinguere”. Ama alla follia. “Giro e Tour sono clamorosamente più grandi dei loro protagonisti”. Anche Ormezzano scuote la testa: “Non serve dimezzare le tappe. Né mettere dieci salite dell’Izoard all’anno: la gente vuole la fatica lenta, sorda, come quella di un padre di famiglia, non chiede prodezze continue. Ai tempi di Coppi il Giro durava venti giorni e per diciotto non succedeva niente. Poi lui andava via una volta in montagna e nasceva l’epopea. Bisogna capire che quelli del ciclismo sono criteri molto poetici, sentimentali”.

 

Il ciclismo guarirà, se guarirà – commenta Mura – continuando a eliminare chi si droga. Le tappe più brevi non servono a nulla: in atletica si dopano per correre i cento metri come per affrontare la maratona. Non sono né ottimista né pessimista: questo Tour ad esempio non è stato peggio dell’anno scorso. E coi controlli che ci sono se trovi quattro o cinque dopati su centottanta corridori è una cosa che metti in bilancio”. La confessione di Riccò, che ha ammesso di aver fatto uso di Epo al Tour de France, è un caso quasi unico. Possibile che i ciclisti pizzicati con l’antidoping caschino dal pero e ogni volta ripetano che “io non sapevo nulla, io non ho preso niente, qua sono tutti ipocriti” e via dicendo? “Sono tutte balle – dice Bergonzi – Tutti sono responsabili. Certi medici hanno esagerato, ma un ragazzo che a venticinque anni firma un contratto milionario è in grado di prendersi le sue responsabilità. Infatti quelli da punire sarebbero soprattutto loro, e nei loro interessi economici”. Solo così i milioni di innamorati al capezzale del gigante ammalato potranno continuare ad abbracciarlo. (nelle foto: Giro d’Italia 2006 - Ivan Basso in maglia rosa circondato dai tifosi sulla salita del Mortirolo - foto Ansa / Suore applaudono i ciclisti durante la decima tappa del Tour de France 2008 - foto Reuters)

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  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.