Ieri il Senato ha approvato una mozione "contro" il riscaldamento globale

Ecco perché Obama chiede proprio all'Italia una mano sul clima

Carlo Stagnaro

Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha chiesto all'Italia di  organizzare, a margine del G8 di luglio, un vertice sul clima tra i sedici  paesi maggiormente responsabili delle emissioni di gas serra. Si tratta di  una mossa spiazzante, perché – a dispetto delle lodi che ha ricevuto – di  fatto colloca l'inquilino della Casa Bianca sulla scia del suo predecessore.

    Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha chiesto all'Italia di organizzare, a margine del G8 di luglio, un vertice sul clima tra i sedici  paesi maggiormente responsabili delle emissioni di gas serra. Si tratta di una mossa spiazzante, perché – a dispetto delle lodi che ha ricevuto – di  fatto colloca l'inquilino della Casa Bianca sulla scia del suo predecessore. Il “Major economies forum”, infatti, nasce da un'idea di George W. Bush, che  nel settembre 2007 convocò a Washington lo stesso gruppo di nazioni per discutere di come promuovere  l'innovazione e il trasferimento tecnologico. A sua volta, quel meeting  faceva seguito alla formalizzazione di un'alleanza tra gli Stati Uniti, l'Autralia, la Cina, il Giappone, l'India e la Corea del Sud, la Asia Pacific Partnership for Clean Development and Climate, che il mondo ecologista e alcuni rappresentanti più o meno ufficiali dell'Unione europea  bollarono come “l'anti Kyoto”. In un certo senso, a ragione: come il processo di Kyoto è pletorico e dispersivo, così la “road map” disegnata  dall'ex governatore del Texas era focalizzata su temi specifici e resa agile  dal ristretto numero di partecipanti.

    E' chiaro che, dopo le elezioni di novembre 2008, molto è cambiato nella  linea americana, e la disponibilità a parlare, sulle questioni ambientali,  la stessa lingua degli europei è aumentata. Tuttavia, peccherebbe di semplicismo chi credesse che gli Usa siano pronti ad allinearsi a Bruxelles. La stessa decisione di perseguire la strada del club esclusivo (i sedici  grandi emettitori di CO2) anziché quella del trattato internazionale inclusivo (Kyoto 2), dice molto sull'impostazione che Obama vorrà dare alle  sue politiche climatiche. Del resto, nonostante le innumerevoli promesse, difficilmente il presidente potrà dar seguito al suo impegno di trascinare  gli Usa in uno sforzo simile a quello europeo: se non altro, perché gli  mancano i numeri al Congresso (non solo per la compatta opposizione repubblicana, ma anche perché tra le fila dei democratici si nascondono diversi rappresentanti degli stati produttori di carbone che non faranno  mancare il loro voto contrario, all'occorrenza).

    Impossibilitato a compiere la rivoluzione all'interno del paese, Obama non  potrà – e dunque, da politico navigato, non vorrà – cercare il colpo di teatro sul palcoscenico internazionale. Si spiega in questo modo la sua decisione di declinare la retorica verdissima secondo lo spartito bushiano, e certo gli fa gioco che la sua controparte sia, di tutti gli Stati membri dell'Ue, proprio l'Italia, vale a dire il paese più tiepido verso quello che David Henderson, già capo economista dell'Ocse, ha definito “redenzionismo  globale”. A  ricordarlo, nel caso qualcuno se lo fosse dimenticato, è giunto ieri il voto del Senato a una mozione promossa, tra gli altri, da tre presidenti di commissione (Cesare Cursi dell'Industria, Antonio D'Alì dell'Ambiente, e Guido Possa dell'Istruzione). La mozione chiede al governo di portare in Europa e nei vertici internazionali la voce del buonsenso, cioè di sottolineare l'estensione delle incertezze scientifiche a cui fa da contraltare la drammatica certezza dei costi delle  strategie climatiche.  Insomma, complice la crisi economica che rende politicamente impopolari  tutti i provvedimenti che farebbero aumentare i costi dell'energia, per le  politiche allarmistiche tira brutta aria. E, giorno dopo giorno, Obama fa un  ulteriore passo verso la desantificazione.