I maestri di Mou

Piero Vietti

Senza quei due non sarebbe Mou. Lo ha sempre detto anche lui. Quando tornò in Portogallo la seconda volta, questa volta per allenare davvero, era un altro allenatore e un altro uomo. Bobby Robson e Louis Van Gaal non sono due qualunque.

Senza quei due non sarebbe Mou. Lo ha sempre detto anche lui. Quando tornò in Portogallo la seconda volta, questa volta per allenare davvero, era un altro allenatore e un altro uomo. Bobby Robson e Louis Van Gaal non sono due qualunque, il primo è un monumento internazionale del calcio inglese, il secondo ha vinto tutto appena quarantenne alla guida dell’Ajax. Due concezioni del lavoro e del gioco così differenti da avere trovato una sintesi solo nel calcio di chi li ha studiati da vicino per anni, cominciando come interprete di Robson al Porto e finendo come vice di Van Gaal al Barcellona.

 

Come si legge nella biografia dello Special One scritta da Luís Lourenço (“Mourinho”, Mondadori), del mister inglese Mou diceva che era “un uomo che viveva e respirava il campo di gioco”. Robson allenava sul campo, il suo vice portoghese seguiva programmazione e preparazione. Louis Van Gaal era l’opposto: preparazione metodica e pianificata fino al più piccolo dettaglio, che al lavoro sul campo ci pensassero gli assistenti. Mourinho guardava, studiava, capiva, prendeva appunti e metteva in pratica. Poi migliorò il gioco di Robson con l’organizzazione e l’organizzazione di Van Gaal con il gioco: “A Bobby Robson non interessa studiare, redere sistematico o pragrammare l’allenamento – raccontava Mou – Lui è un uomo di campo, e si concentra principalmente sulla parte finale, il gol. Quello è il suo centro di interesse. In questo caso ho cercato di fare un passo indietro: pur mantenendo la priorità dell’attacco ho cercato di organizzarlo meglio, e questa organizzazione deriva dalla difesa. Con Van Gaal il lavoro era già tutto definito. A me e agli altri preparatori restava solo l’allenamento sul campo. Perciò il mio lavoro migliorò notevolmente in qualità perché con Robson non facevo molta pratica sul campo”.

 

Poi ci sono i giocatori. Mourinho non ha mai sopportato la storia per cui “il mister ha sempre ragione” a priori. Mourinho ha ragione perché dà le ragioni di quello che dice. Lo chiama “scoperta guidata”, ed è un vero e proprio metodo educativo: “Non puoi fare a meno di imparare – dice lo Special One nella sua biografia – quando alleni giocatori di quel calibro impari anche sulle relazioni umane. Calciatori di quel livello non accettano ciò che gli si dice solo per l’autorità della persona che parla. Dobbiamo mostrare loro di avere ragione. Il rapporto che ho avuto con loro mi ha insegnato una delle mie numerose virtù come allenatore”. Non c’è un “trasmettitore” e un “ricevitore” nel metodo educativo mourinhano, non nel senso classico dei termini, almeno: “Io lo definisco ‘scoperta guidata’: sono loro a scoprirlo grazie ai miei suggerimenti. Costruisco situazioni d’allenamento che li mettono su una certa strada. Loro cominciano a intuirlo, così ne parliamo, discutiamo e giungiamo a una conclusione. Ma perché funzioni i calciatori che alleno devono avere le proprie opinioni”. Poi, tutto quello che nasce da questa educazione della squadra, José lo annota sulla “Bibbia”. Nessun pizzino alla Provenzano, la Bibbia è il volume in cui da più di vent’anni Mourinho annota tutto quello che impara, scopre, inventa, crea.

 

Cominciò proprio con Bobby Robson, quando il Porto assunse quell’ex difensore centrale troppo molle e troppo scarso per sfondare nel calcio come interprete dall’inglese al portoghese. Forse casuale, certamente studiato dall’inizio: Mourinho a quindici anni aveva detto che da grande avrebbe fatto l’allenatore. Così l’allenatore che pochi anni prima aveva portato l’Inghilterra alle semifinali del Mondiale giocato in Italia, si ritrovò questo giovane traduttore che prendeva appunti di ogni sua mossa, parola, tattica. Più che una questione di fortuna-fai-da-te, la storia di Mourinho spiega bene che per realizzare il proprio desiderio c’è bisogno di qualcuno da guardare, un maestro da seguire. Mourinho sapeva bene che per diventare il numero uno bisognava studiare da numero due, sbirciare alle spalle di chi (momentaneamente) è davanti. Lo ha fatto ed è diventato il numero uno.

 

Poi c’è la famiglia, che se si vuole è un maestro in più. La moglie, Tami, c’è da sempre. Fidanzati da quando erano adolescenti, hanno due figli. Dice che “la cosa più importante per me è la mia famiglia ed essere un buon padre”. C’è da credergli. Al fischio d’inizio di ogni partita ha sempre baciato la foto dei suoi figli. Non è superstizione. Se sia superstizioso glielo hanno però chiesto, appena arrivato in Italia, quando in panchina si è fatto un segno della croce. “No – ha risposto – sono solo cattolico”.

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  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.