Perché quest'anno Gazprom fa meno paura all'Europa

Carlo Stagnaro

Anche il 2009 comincia con l'ormai tradizionale crisi del gas tra Russia e Ucraina. Il monopolista russo del gas, Gazprom, ha annunciato ieri mattina il taglio delle esportazioni verso Kiev di circa 90 milioni di metri cubi al giorno, pari ai consumi del paese. Il calo della pressione nei tubi è stato confermato dalle autorità ucraine.

    Anche il 2009 comincia con l'ormai tradizionale crisi del gas tra Russia e Ucraina. Il monopolista russo del gas, Gazprom, ha annunciato ieri mattina il taglio delle esportazioni verso Kiev di circa 90 milioni di metri cubi al giorno, pari ai consumi del paese. Il calo della pressione nei tubi è stato confermato dalle autorità ucraine. Lo scontro verte sui prezzi di vendita del metano all'Ucraina, che i russi vorrebbero portare dai 179 dollari per mille metri cubi del 2008 a 250 dollari. Una cifra che il primo ministro russo, Vladimir Putin, ha definito comunque “sussidiata”, e che resta leggermente al di sotto dei prezzi previsti per le esportazioni in Europa. Gli ucraini ribattono che accetteranno l'aumento solo se Mosca sarà disposta a subire un aggravio uguale nelle tariffe di transito, che il gas russo deve pagare per attraversare la rete ucraina verso l'Unione europea. Sullo sfondo, c'è pure una disputa sul pregresso: Mosca lamenta un credito da 600 milioni di dollari che Kiev afferma di aver saldato martedì scorso, con un mega-versamento da 1,5 miliardi di dollari.

    Nel 2006, quando ci fu uno scontro analogo e ugualmente forte, le reazioni internazionali rasentarono il panico, e alcuni paesi europei, compresa l'Italia, dovettero subire qualche perdita nelle forniture. Gli ucraini, infatti, sottrassero ai quantitativi destinati alle esportazioni il gas necessario a soddisfare la loro domanda nazionale (Kiev negò tutto, accusando Gazprom di aver chiuso i rubinetti in misura superiore a quanto dichiarato). L'Unione europea ottiene dalla Russia circa un quarto delle sue importazioni di metano, l'80 per cento delle quali passano per l'Ucraina. Questa volta, però, il clima è molto più disteso: il commissario europeo all'Energia, Andris Piebalgs, si è limitato a lanciare un appello perché si trovi una “soluzione condivisa”. Al momento, non è stata presa alcuna misura emergenziale. Il presidente ucraino, Viktor Yushenko, ha chiesto l'intervento di Bruxelles come mediatore, ricevendone la fredda e burocratica risposta che “tutti gli impegni relativi alla fornitura e al transito di gas devono essere rispettati”.

    Anche in Italia, paese teoricamente più vulnerabile perché maggiormente dipendente dalle importazioni russe via Ucraina, la cosa viene vista come un problema geopolitico potenzialmente serio, ma privo di conseguenze a breve termine, come ha confermato il ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, ieri in una nota. La ragione di ciò sta nella congiuntura economica internazionale: con la recessione e il crollo della domanda, gli stoccaggi sono pieni, e non c'è un rischio immediato di scarsità di gas. Neppure viene considerata, al momento, l'opzione di intaccare le riserve strategiche, a cui invece si attinse tre anni fa. Ciò è vero a tutti i livelli: in Russia, in Europa, in Italia, e nella stessa Ucraina (i consumi del paese si sono ridotti del 25 per cento, mentre negli stoccaggi sono custoditi 17 miliardi di metri cubi di metano, sufficienti a coprire il 22 per cento del fabbisogno annuale, a cui si aggiungono altri 11 miliardi di metri cubi in mano all'intermediario RosUkrEnergo). Inoltre, sebbene Gazprom stia flettendo oggi i muscoli come lo fece nel 2006, fa molta meno paura. Più che il braccio armato del Cremlino – come venne definita – pare un paziente bisognoso di cure. E ciò, nonostante i risultati record raggiunti nell'anno appena concluso: nel primo semestre 2008, la compagnia ha più che raddoppiato i profitti operativi, grazie all'aumento dei margini e dei volumi delle vendite.

    Per l'anno appena iniziato, il board ha previsto un massiccio piano di investimenti, necessario a sviluppare le risorse di idrocarburi per prevenire il declino produttivo e ad ammodernare i suoi gasdotti. Eppure, Gazprom va incontro a un periodo durissimo, tanto che si sta cominciando a ventilare l'ipotesi di un bailout. Il gruppo è fortemente indebitato: come ha maliziosamente ricordato martedì scorso l'International Herald Tribune, i suoi 49,5 miliardi di dollari sono pari alla somma dei debiti pubblico e privato di Cina, India e Brasile. Il poderoso cash flow – nel 2007 ha avuto profitti per 14 miliardi di dollari – fatica a controbilanciare la svalutazione degli asset e delle azioni. Si prevede che il metano, ceduto agli europei a 420 dollari per mille metri cubi nel 2008, frutterà nel 2009 non più di 260 dollari. Ma la brutta notizia è un'altra ancora: poiché il prezzo è indicizzato al valor medio di un paniere di prodotti petroliferi nei nove mesi precedenti, davanti a Mosca c'è un lungo periodo di riduzione degli introiti, anche se le quotazioni dovessero tornare a crescere.

    Questa consapevolezza ha subito contagiato gli investitori: Gazprom, che a gennaio capitalizzava 355 miliardi di dollari, oggi vale il 67 per cento in meno. Per confronto, Exxon Mobil ha perso solo il 18 per cento, restando un colosso da 393 miliardi. Per giunta, il malessere di Gazprom si estende a tutta l'economia: “Il collasso dei prezzi petroliferi ha portato al caos – ragiona Robert Bryce, direttore del mensile Energy Tribune – Da maggio, la Borsa russa ha perso il 70 per cento e più volte il governo è stato costretto a sospendere gli scambi”. La realtà è che la crisi ha colpito più duramente le imprese e i paesi meno efficienti, cioè quelli che hanno approfittato in modo più aggressivo del caro greggio per muoversi simultaneamente sullo scacchiere finanziario e su quello geopolitico.

    Con gli extraprofitti petroliferi, hanno finanziato lo stato sociale e le loro alleanze internazionali. Finché le quotazioni salivano, tutto stava in piedi, ma ora la costruzione potrebbe cominciare a scricchiolare. Per limitare i danni, talvolta sono stati creati dei fondi di stabilizzazione: nel caso della Russia, a gennaio 2008 erano stati accumulati oltre 150 miliardi di dollari. Dice al Foglio Massimo Nicolazzi, consulente energetico e già dirigente di Eni e della russa Lukoil: “La stima corrente è che, per pareggiare il bilancio federale, a Mosca serva il barile attorno a 70 dollari.  Il tema reale, dunque, è se la crisi dei prezzi durerà abbastanza da creare una potenziale instabilità non di Gazprom, ma del sistema paese”. Il Wall Street Journal ha scritto che l'Occidente non dovrebbe ignorare l'oggettivo indebolimento degli “stregoni del petrolio”: come dire, approfittiamo di questa fase per riflettere sugli errori passati, a partire dalle responsabilità del dollaro debole nell'alimentare la bolla petrolifera.

    Gazprom non fa, del resto, storia a sé: anzi, il Cremlino naviga in acque relativamente buone se confrontato con altri petrostati, quali Bolivia, Venezuela e Iran, che non possono contare su un apparato industriale altrettanto sviluppato. Quella che è in atto è la “maledizione delle risorse” o “paradosso dell'abbondanza”, termine coniato da Richard Auty e poi ripreso in un famoso paper da Jeffrey Sachs e Andrew Warner, secondo cui i paesi ricchi di risorse finiscono per diventarne troppo dipendenti e non riescono ad avere una crescita economica slegata dalle loro esportazioni. “Questa crisi colpisce la Russia proprio mentre stava cercando di affrancarsi dalla maledizione – prosegue Nicolazzi – Nei primi sei mesi del 2008, la bilancia commerciale ha registrato un avanzo di 110 miliardi di dollari, ma al netto delle partite energetiche era sotto di circa 50”. Tutto ciò accade quando l'ammontare di riserve note di idrocarburi, censito ogni anno dall'Oil & Gas Journal, a livello mondiale sale, soprattutto grazie alla maggior estensione dei giacimenti venezuelani.

    Così, inizia a passare, secondo quanto riferiscono fonti interne alle aziende, il contrordine rispetto ai toni battaglieri del passato: come se gli espropri ai danni delle società occidentali potessero essere risolti con un “abbiamo scherzato”. Ma questo non basterà a invertire il flusso. C'è infatti un ulteriore elemento, al di là del rischio paese: almeno per tutta la durata della recessione, ci sarà un eccesso strutturale di offerta. Gli investimenti non andranno verso nuovi pozzi: si orienteranno piuttosto al consolidamento del settore, molto sensibile alle economie di scala (lo shopping vero, con tante piccole e medie compagnie a prezzi di saldo, deve ancora iniziare). “In primo luogo – ha scritto l'economista Vittorio D'Ermo sul portale AgiEnergia – il ribasso dei prezzi comporta un brusco ridimensionamento dei budget di esplorazione e sviluppo; in secondo luogo si abbassa pericolosamente la soglia di economicità dei nuovi progetti che in buona parte riguardano aree molto complesse dal punto di vista tecnico e geologico”.

    Questo brusco cambiamento nelle prospettive e nelle strategie di investimento, offerta e consumo ha anche una dimensione politica. Negli ultimi anni si è assistito, nei paesi consumatori, a una crescente attenzione per la questione della sicurezza degli approvvigionamenti (l'Ue vi ha dedicato due libri verdi, nel 2000 e nel 2006). Improvvisamente, ci troviamo di fronte al problema contrario: la sicurezza della domanda. Lo dimostra pure la tranquillità con cui l'Europa assiste al braccio di ferro tra Mosca e Kiev e, su un livello diverso, il venir meno del linguaggio militare prima comunemente impiegato per descrivere le mosse del Cremlino (non è passato molto, in fondo, da quando si parlava dell'accerchiamento dell'Europa per mezzo delle pipeline di Gazprom). Uno studio dell'Istituto Bruno Leoni afferma che solo in un contesto di liberalizzazioni è possibile gestire entrambi questi rischi; il mercato emerge cioè come l'unica istituzione in grado di bilanciare esigenze opposte e combinare interessi divergenti. Questo perché un contesto concorrenziale è più flessibile e reattivo di uno dominato dalle politiche pubbliche. Se è vero che il pendolo della storia sta tornando verso l'intervento statale, difficilmente i decisori politici sapranno far tesoro dell'esperienza passata.