La casta di Lupomanno

Salvatore Merlo

Roma. Domani verrà reso pubblico un sondaggio, commissionato da Francesco Rutelli, che descrive “l'allarmante” calo di popolarità del neosindaco Gianni Alemanno a Roma. Ma l'amministrazione di centrodestra, per il momento, non si preoccupa troppo. Conquistato il comune, Alemanno è adesso impegnato a completare la presa del potere. Giovedì ha nominato il nuovo presidente dell'Atac, la ex municipalizzata dei trasporti, e il primo cruccio dell'amministrazione è posizionare pedine nella complessa rete della holding comunale.

    Roma. Domani verrà reso pubblico un sondaggio, commissionato da Francesco Rutelli, che descrive “l'allarmante” calo di popolarità del neosindaco Gianni Alemanno a Roma. Ma l'amministrazione di centrodestra, per il momento, non si preoccupa troppo. Conquistato il comune, Alemanno è adesso impegnato a completare la presa del potere. Giovedì ha nominato il nuovo presidente dell'Atac, la ex municipalizzata dei trasporti, e il primo cruccio dell'amministrazione è posizionare pedine nella complessa rete della holding comunale. Per non finire decapitato come quell'Appio Erdonio che s'illuse di poter rivoltare Roma arroccato sulla sacra vetta del Campidoglio, Alemanno sa bene che una volta conquistato il colle è necessario scendere nell'Urbe e stanare il nemico dal Foro, persino forzare la propria natura e dunque calarsi nel negotium, piazzare i clientes e poi sorprendere la plebe con la propria pietas nei confronti degli sconfitti. Vestita il 28 aprile scorso la gloria capitolina, il neo sindaco ex missino e ancora sociale – subito ribattezzato “il marcio su Roma” dagli intellettuali de sinistra – ha messo le cose in chiaro e per tempo: “Tutti coloro che hanno una nomina derivante dal sindaco e dal consiglio comunale precedente dovrebbero, per correttezza istituzionale, presentare le loro dimissioni”. I luoghi del negotium sono le ex municipalizzate, circa diciannove aziende strategiche tra società per azioni, società a responsabilità limitata, aziende speciali, fondazioni e istituzioni di altri enti. Se messe nel computo anche le società controllate e quelle collegate, significa che per governare Roma si devono avere uomini di fiducia nei cda di quasi cento società a partecipazione pubblica (a cui va aggiunta la più che strategica gestione del notiziario di Rai Tre Lazio e persino la Croce rossa). E' la così detta Holding del comune, un puzzle tentacolare che per gestirlo è necessaria un'intera legione di classi dirigenti. Sarà la base del costituendo potere di Alemanno, una forza che coltiva la velleità di travalicare Roma e gli stretti confini del centrodestra.

    Il Tg 3 Lazio e gli uffici stampa
    La presa del potere è condotta però con una strategia a registro variabile: alternando lo spoils system puro (per i ruoli meno in vista) alla concertazione per gli incarichi più importanti. A breve sarà ufficializzato il nome del direttore di Tg3 Lazio, un incarico per il quale il ricambio è adottato in termini assoluti. Nelle intenzioni della nuova amministrazione l'informazione regionale va ristrutturata dalle fondamenta e la nomina del direttore non è che il primo passo per la ristrutturazione dell'intero organigramma, dai capo redattori fino all'ultimo dei corrispondenti. Sulla scrivania del sindaco, al momento, giacciono due liste. Una contiene una quarantina di nomi scelti tra militanti ed ex militanti di An e Azione giovani da indirizzare agli uffici stampa delle ex municipalizzate, un'altra contiene i nomi dei quattro candidati alla direzione del Tg3 regionale. Una lista, quest'ultima, che non è stato facile compilare, dicono nello stretto entourage di Alemanno, “perché di professionisti capaci, e a noi non invisi, ce ne sono ben pochi”. E sono: Claudio Pompei, capo della cronaca di Roma del Giornale; Camillo Scoyni, il portavoce del ministro Stefania Prestigiacomo; Giovanni Alibrandi, dirigente del Tg2; e Paolo Corsini, il capo di Lettera 22, sindacato dei giornalisti di destra costola dell'Usigrai (in corsa anche per il Gr).

    Ma, comunicazione esclusa, Alemanno ha un atteggiamento morbido e bipartisan sia nei confronti dell'ex establishment di centrosinistra sia nei confronti degli amici di Forza Italia. Mettiamo il caso del neo presidente dell'Atac. Massimo Tabacchiera, adesso a capo della società dei trasporti, è stato presidente dell'Ama (nettezza urbana) con l'ex sindaco Walter Veltroni. Di più, Tabacchiera è considerato uno degli uomini più fidati di Veltroni, uno di quelli che il segretario del Pd aveva difeso sino all'ultimo anche quando cominciarono a uscire articoli su quel drammatico deficit dell'Ama che avrebbe poi costretto Tabacchiera a dimettersi – complice (paradossale) una veemente battaglia proprio di An in consiglio comunale. E' il collateralismo alemanniano: la presa del potere va compiuta senza eccessivi strappi, coinvolgendo per quanto possibile il centrosinistra, specie se i manager individuati sono anche degli imprenditori come nel caso di Tabacchiera che è proprietario di un'importante ditta di laminati, appaltatrice in passato del comune, ma è soprattutto il presidente di Pmitalia e Federlazio: ovvero è il capo dell'associazione delle piccole e medie imprese.

    D'altra parte due poltrone chiave dell'amministrazione Alemanno sono andate subito a Marco Corsini ed Ezio Castiglione, rispettivamente assessore all'Urbanistica e assessore al Bilancio. Due tecnici di centrosinistra. L'uno con l'incarico di tranquillizzare, per quanto possibile nella continuità, quei palazzinari contro i quali a Roma non si governa; l'altro insignito del difficile ruolo di riqualificare la holding del comune, ripianare i debiti e traghettare il nuovo potere politico all'interno delle aziende a partecipazione pubblica. Un'operazione delicata che non poteva essere compiuta e progettata se non da un esperto con caratteristiche bipartisan, una figura capace di dialogare con l'establishment di centrosinistra: tanto che i primi incontri che l'assessore Castiglione ha messo in agenda una volta insediatosi al comune sono stati con Marco Causi, il suo predecessore veltroniano, e con l'ex ministro di Prodi Linda Lanzillotta (“ho chiesto loro aiuto e collaborazione”). E' la stessa idea che sottintendeva il progetto di una commissione Attali romana affidata alle cure di Giuliano Amato, poi annacquata per i colpi di cannone arrivati dal Pd e persino – più in sordina – dal Pdl. Il collateralismo di Alemanno infastidisce certi ambienti del Pd – il veltroniano Roberto Morassut fu durissimo con Amato per la sua disponibilità a collaborare – ma è malvisto anche nel centrodestra dove comincia a scatenare gelosie e dietrologie. Quando Francesco Storace definiva l'ipotesi “fumosa e inquietante”, chiedendosi “a che serve il cambiamento se a interpretarlo chiami il ministro dell'Interno di Prodi?”, non faceva che dar voce al silenzio nervoso dei camerati della (ex) Destra sociale, in attesa, finalmente, di un incarico e di legittimazione dopo gli anni di oscurità e dileggio.

    I friccichi de luna e l'Acea
    Eppure l'ostilità verso Alemanno non viene solo dal basso, ma persino dai vertici del centrodestra. “Qualcuno lo invidia – dicono gli amici – c'è chi teme troppi riflettori puntati sul sindaco”. D'altra parte, si sa, gli ultimi due amministratori di Roma, benché poi sconfitti, sono stati entrambi candidati alla presidenza del Consiglio. Così il collateralismo alternato a una buona dose di spoils system sembra configurare il modello Alemanno, la strana via che il sindaco ha scelto per governare la città e pianificare – “tempo al tempo”, dicono i maliziosi citando la battaglia romana per le preferenze nella legge elettorale europea – la propria candidatura alla successione di Silvio Berlusconi. Sarà vero? Chi può dirlo. Eppure pochi giorni fa proprio il Cav. si è trovato a sostenerlo implicitamente, rimproverando al sindaco, che critica Tremonti e dimostra indipendenza da Fini, di “parlare troppo della mia successione”. Prova della morbida ma inflessibile presa del potere da parte di Alemanno è la vicenda della Festa del cinema, uno degli strumenti con il quale Veltroni volle ridare un'anima al mondo felliniano in decadenza, musei e fori, celebrazioni e friccichi de luna, prudenza e pazienza. Ma, andato via Veltroni, pontefice massimo dei nuovi mestieri, governatore del cinema e poeta delle emozioni senza briglia, anche la festa cambia volto. E la kermesse, metafora del veltronismo, diventa metafora del morbido ma determinato trasversalismo alemanniano. Con l'avvicendamento tra il gran veltroniano Goffredo Bettini e l'illustre, e democristiano, Gianluigi Rondi furono spiazzati quanti ipotizzavano l'arrivo di un intellettuale squadrista. Con un colpo inaspettato arrivò infatti una figura inattaccabile – come dovette ammettere, non senza malizia, anche Natalia Aspesi su Repubblica – “una autentica autorità, di quell'antico ceppo democristiano di massimo rigore diplomatico, resa venerabile dall'età”. Nessuno ha brontolato troppo. E questa sembra la cifra di tutte le scelte alemanniane, che per intelligenza e accortezza assomiglia alla vicenda che ha portato l'Acea, l'azienda elettrica e di servizi idrici che ha chiuso il 2007 con 167,4 milioni di utile, dalla presidenza di Fabiano Fabiani a quella di Giancarlo Cremonesi. Il cambio al vertice di Acea è stato infatti il capolavoro della diplomazia di Alemanno.

    A fine settembre il neo sindaco è arrivato ai ferri corti con la lobby dei costruttori. E non sarebbe stato neanche necessario quel sondaggio commissionato alla Ipsos di Nando Pagnoncelli per scoprire che i Caltagirone, i Navarra, i Rebecchini, i Muratori e i Di Giacomo cominciavano a manifestare insofferenza nei confronti di un sindaco che avevano contribuito a far eleggere e che non dava loro nessuna soddisfazione. Già arrabbiati per l'annunciato piano casa da trentamila alloggi di edilizia sociale che non decollava, a fine settembre cadde dal cielo la decisione di affossare il progetto del parcheggio da 700 posti auto sotto Villa Borghese, al Pincio. Per i costruttori quel “no” di Alemanno al progetto approvato da Veltroni è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Gli imprenditori edili si aspettavano dal centrodestra – per dirla con Francesco Gaetano Caltagirone – una fase di “discontinuità” che però non arrivava mai. Al contrario i lavori pubblici del Pincio venivano bloccati. E Cremonesi, presidente dell'Acer, l'associazione dei costruttori romani, arrivò allo scontro frontale con il sindaco: “Ancora una volta la cultura del non fare rischia di bloccare le infrastrutture necessarie”. Ebbene, come uscirne? La risposta è arrivata qualche mese dopo. Dimessosi in anticipo il presidente di Acea, Fabiani, il cui mandato scadeva con l'esercizio 2009, il comune avvia le consultazioni con i soci privati dell'azienda per individuare il nome del sostituto. I soci sono il gruppo francese Suez (con l'8,6 per cento), il gruppo Schroeder (4,6), Pictet (4 per cento) e il gran costruttore romano Caltagirone (2,9). L'occasione per fare pace con gli imprenditori è a portata di mano: il 23 ottobre viene individuato come presidente quello stesso Cremonesi che alla guida degli edili aveva criticato l'amministrazione comunale. Pace fatta. Chissà, poi, che l'Acea, varato il piano del ministro Scajola per il rilancio delle fonti di energia rinnovabili (su cui la società ha previsto d'investire oltre due miliardi di euro in cinque anni), non diventi ancora di più un'azienda strategica e redditizia. Ma il sindaco ha abbastanza uomini, sufficientemente presentabili, per amministrare questo impero? Forse no, anche se, nell'ambiente non si fa che ripetere: “Se devono fa' lavora' i camerati”. Eppure la destra romana per molti versi sembra ancora il vecchio Msi, dove, come ha scritto Pietrangelo Buttafuoco, si aggiravano le facce improbabili della plebaglia meridionale, dei notabili ciociari, dei burini danarosi, degli studenti col tricolore, dei reduci di Salò, e anche dei tanti in ritardo con l'attualità, alcuni dei quali rimasti fino a ieri in quota a Daniela Santanchè per chiederle “convegni sul corporativismo e la socializzazione”. Si spiega anche così questa lenta e condivisa presa del potere.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.