Una chiesa malata di biologismo

Vito Mancuso

Sempre più mi vado convincendo della strana convergenza tra il pensiero neodarwinista ortodosso da un lato e alle prese di posizione della gerarchia cattolica in tema di bioetica dall'altro. A prima vista sembra non ci debba essere nulla di più distante, ma le cose, forse, non stanno così.

    Sempre più mi vado convincendo di una strana convergenza, l'esposizione della quale costituisce la tesi di questo articolo. Si tratta di qualcosa di inaspettato e di sorprendente che riguarda due attori molto distanti l'uno dall'altro, anzi in continua reciproca polemica: mi riferisco al pensiero neodarwinista ortodosso da un lato e alle prese di posizione della gerarchia cattolica in tema di bioetica dall'altro. A prima vista sembra non ci debba essere nulla di più distante, ma le cose, forse, non stanno così. Martedì scorso, 28 ottobre, ho assistito all'inaugurazione dell'anno accademico della mia università, l'Università Vita Salute San Raffaele di Milano, ascoltando nell'occasione la lectio magistralis che il rettore don Luigi Verzé aveva affidato per quest'anno al genetista di fama internazionale Luca Cavalli Sforza, professore emerito nell'Università americana di Stanford e docente presso la mia stessa facoltà di Filosofia.

    L'aula era gremita da studenti, docenti, autorità. Benché arrivato in orario, a me è toccato assistere in piedi all'intera celebrazione, avendo però la fortuna di condividere la non comoda posizione con il collega Andrea Tagliapietra, insigne filosofo e vulcanico creatore di motti di spirito. Cavalli Sforza ha esordito dicendo che la vita “non è più un mistero” perché ora noi sappiamo bene che cosa essa è, sappiamo che è Dna, cioè una molecola in grado di replicare se stessa. Sappiamo anche, ha continuato Cavalli Sforza, come la vita si evolve: si evolve mediante errori di copiatura che avvengono casualmente nella replicazione del Dna. Senza errori, niente evoluzione. Ma grazie agli errori l'evoluzione si mette in moto, essendo l'evoluzione nient'altro che il progressivo adattamento degli organismi mutanti e mutati all'ambiente circostante. Nulla di nuovo in tutto ciò, sia chiaro, solo una brillante riproposizione del paradigma ortodosso del neodarwinismo. Ciò che a me qui preme sottolineare è il fatto che la tesi naturalista colloca la verità di noi stessi nelle molecole di Dna del nostro patrimonio genetico. Ovvero: l'uomo è definito dalla sua biologia, l'uomo è bios.

    A Cavalli Sforza, e in genere al pensiero che lui rappresenta (che nella nostra facoltà è portato avanti anche da Edoardo Boncinelli), non è difficile replicare che è evidente che l'uomo è vita biologica, ma che è altrettanto evidente che l'uomo non è solo vita biologica. Il contesto stesso nel quale Cavalli Sforza affermava l'equivalenza dell'uomo a mero bios, cioè un'aula universitaria, così come la musica del grande Händel che aveva accompagnato l'ingresso del senato accademico, sono una prova del suo contrario, una prova cioè che l'uomo, oltre a essere bios, è anche psyché e pneuma, vita dell'anima e dello spirito. Senza il Dna, niente anima e niente spirito, è chiaro. Ma siccome l'anima e lo spirito si danno (oltre all'università e alla musica, prova ne sia il giornale che ora tenete in mano e il desiderio di conoscere che vi porta a leggerlo, e centomila altre cose che è sufficiente alzare la testa per individuare) ne viene che l'essere umano è maggiore del suo patrimonio genetico, non è riducile alla vita biologica.
    I genetisti dicono che condividiamo con lo scimpanzé il 98,5 per cento del dna. Bene.

    Essendo sotto gli occhi di tutti che (con tutto il rispetto per lo scimpanzé) la storia e la civiltà dell'essere umano sono abbastanza diverse da quella dello scimpanzé, molto probabilmente non è il nostro Dna con quel suo piccolo 1,5 per cento di differenza a spiegare l'evoluzione che ci ha differenziato, e ci differenzierà sempre più, dallo scimpanzé. Il Dna è la base necessaria da cui emergono livelli superiori dell'essere-energia che ci costituisce, per designare i quali la filosofia classica ha coniato altri termini oltre a “bios”: ha parlato di “zoé”, “psyché”, “pneuma”, “nous”. La tradizione cristiana e anche quella ebraica (Tommaso d'Aquino per la prima, Mosè Maimonide per la seconda) hanno accolto totalmente questa visione antropologica, ponendo la verità ultima dell'uomo non in basso, cioè nella sua vita biologica, ma in alto, cioè nella sua vita spirituale.

    Se infatti per la vita biologica siamo quasi identici allo scimpanzé, per la nostra vita spirituale non abbiamo nessuna, non dico identità, ma neppure analogia, col resto del mondo animale. E' questo più alto livello dell'essere a fare dell'essere umano qualcosa di unico, qualcosa di così stupefacente nel mondo dei viventi davanti a cui la mente umana di tutti i tempi e di tutti i luoghi, per poterne dare conto, ha inferito un suo legame con una sfera del tutto particolare dell'essere, non rintracciabile nella dimensione naturale, e chiamata convenzionalmente “Dio” (termine che deriva dalla realtà più pura di cui abbiamo esperienza, la luce). Qualunque realtà si nomini dicendo “Dio” o “divino”, l'intuizione esistenziale cui questa categoria rimanda è la libertà spirituale dell'uomo rispetto alla sua biologia e alla sua socialità. Noi siamo bios, noi siamo relazioni sociali, è evidente; ma né il bios né le relazioni sociali ci definiscono ultimamente: ognuno di noi, ultimamente, è la sua libertà, la sua anima spirituale, la sua irripetibile individualità. E' per questo ed è in questo che siamo, come dice il libro biblico della Genesi, “a immagine e somiglianza di Dio”.

    Dio infatti è spirito, insegna il Vangelo, e noi siamo a sua immagine non in quanto bios, ma in quanto pneuma, in quanto spirito, cioè libertà. Le occasioni della vita hanno voluto che il giorno prima di sentire Cavalli Sforza al San Raffaele io partecipassi alla nota trasmissione televisiva di Gad Lerner, “L'Infedele”, dedicata al caso di Eluana Englaro. Questa volta ero seduto, ma devo confessare che il giorno dopo in piedi accanto a Tagliapietra mi sarei sentito più comodo che non lì, su una poltroncina rossa accanto a Beppino Englaro, straordinario esempio di dedizione paterna, e all'onorevole Eugenia Roccella sottosegretario con delega alla Salute. Quali esponenti della dottrina cattolica ufficiale in tema di bioetica vi erano Marina Casini e Gian Luigi Gigli, autorevoli esponenti di “Scienza e vita”, l'organismo emanazione della Conferenza episcopale italiana. In quella occasione mi sono ritrovato ad ascoltare argomentazioni che, nella sostanza antropologica, il giorno dopo avrei ritrovato nella lectio magistralis di Cavalli Sforza. Per Marina Casini e il professor Gigli, e in genere per l'impostazione bioetica assunta in questi anni dalla gerarchia cattolica, la dignità dell'uomo è altra cosa dalla sua libertà, nel senso che tale dignità non consiste nell'esercizio della libertà ma nella sua dimensione biologica.

    La vita umana è sacra non in quanto spirito libero, ma in quanto vita biologica. Per questo, si sostiene, all'uomo non spetta l'ultima parola sulla sua vita. “Non spetta alla persona decidere”, ha dichiarato mons. Giuseppe Betori il 30 settembre scorso nel suo ultimo intervento da segretario della Cei, specificando di parlare “con il pieno consenso del presidente Bagnasco”. Dire questo equivale a sostenere che la verità dell'uomo non sta in alto, cioè nella libertà descritta classicamente con i termini di anima e di spirito, ma in basso, cioè nella sua biologia. I vertici della Cei negano alla libertà potere sulla biologia, e affermano che è piuttosto la biologia a vincolare la libertà: infatti “non spetta alla persona decidere”. A chi spetta allora? Ai medici, risponde la gerarchia. Ma qual è il criterio in base al quale i medici decidono? La biologia, è evidente, e non può che essere così, se i medici fanno il loro mestiere. Negare il principio di autodeterminazione della persona suppone quindi un'antropologia che, al pari del paradigma naturalistico, pone lo specifico umano nella biologia. Questa è la strana convergenza antropologica che riscontro tra l'attuale vertice della chiesa cattolica italiana e il più agguerrito naturalismo neodarwinista.

    E' chiaro che poi se ne traggono conseguenze opposte, perché per gli uni la natura non ha altra logica che non sia quella che consegue dagli errori di copiatura e dall'adattamento all'ambiente, mentre per gli altri la natura è lo strumento tramite cui Dio esercita direttamente la sua sovranità; la base antropologica però (ovvero: uomo = bios) è la medesima. Il che un po' mi inquieta e mi porta a chiedere come mai il pensiero cattolico ufficiale si stia tanto pericolosamente trasformando all'insegna di un biologismo che la tradizione non ha mai conosciuto – prova ne sia che l'affermazione di monsignor Betori con il consenso del cardinal Bagnasco, secondo cui “non spetta alla persona decidere”, è contraria rispetto all'articolo 2278 del Catechismo (“le decisioni devono essere prese dal paziente”); è contraria rispetto al documento “Iura et bona” della Congregazione per la dottrina della fede (“prendere delle decisioni spetterà in ultima istanza alla coscienza del malato o delle persone qualificate per parlare a nome suo, oppure anche dei medici”, laddove tutti vedono chi viene al primo posto per il documento magisteriale del 1980); è contraria rispetto al fondamento della coscienza morale delineato dal Vaticano II in “Gaudium et spes” 16-17 (“L'uomo può volgersi al bene soltanto nella libertà”), è contraria all'architettura del giudizio morale elaborata da Tommaso d'Aquino, ed è soprattutto contraria all'immenso rispetto per la libertà umana da parte di Dio come emerge dalla Bibbia:

    “Egli da principio creò l'uomo e lo lasciò in balìa del suo proprio volere. Se vuoi, osserverai i comandamenti; l'essere fedele dipenderà dal tuo buonvolere. Egli ti ha posto davanti il fuoco e l'acqua; la dove vuoi, stenderai la tua mano” (Siracide 15,14-16). Mi chiedo il motivo di questa scivolosa trasformazione dell'antropologia sottesa alla bioetica oggi maggioritaria nella chiesa cattolica, e non so rispondere. Vedo solo una chiesa la cui bioetica è sempre meno capace di rendere conto delle parole di Gesù: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l'anima” (Matteo 10,28). Questa bioetica ecclesiastica, in singolare armonia con il neodarwinismo, conosce solo il corpo e la sua necessità, e ignora l'anima e la sua libertà.