Diario di due economisti

Se lo stato non vuole pasticciare in economia è ora che cominci a privatizzare

Ernesto Felli e Giovanni Tria

Come gli spettri di un'illustrazione splatter, Mister Sapientone e Mister Equivoco si aggirano a braccetto tra l'Europa e l'America. Il primo dei due è una figura collettiva che riunisce la comunità mondiale di quelli che conoscono la verità e sanno bene di chi è la colpa quando le cose vanno male.

    Come gli spettri di un'illustrazione splatter, Mister Sapientone e Mister Equivoco si aggirano a braccetto tra l'Europa e l'America. Il primo dei due è una figura collettiva che riunisce la comunità mondiale di quelli che conoscono la verità e sanno bene di chi è la colpa quando le cose vanno male. Di solito sono persone intelligenti non prive di esperienza ma convinte di poter aggiustare il legno storto dell'umanità. Come Paul Samuelson, decano degli economisti americani e non solo, e Giovanni Sartori, decano dei politologi italiani e non solo. Entrambi dalle pagine del Corriere, ci hanno spiegato che la colpa è degli economisti (Sartori) e in particolare di due (Samuelson).

    Sartori ha osservato che gli economisti, che evidentemente sono secondo lui una categoria sociologica dotata di pensiero unico, non hanno saputo prevedere il crollo finanziario che ha sconquassato il capitalismo americano. Notiamo solo di sfuggita che gli economisti seri, come qualunque altro scienziato serio per di più in un campo complesso come quello sociale, formulano previsioni “condizionali” in un contesto stocastico e non profezie oracolari. Previsioni che tengono conto delle esperienze della storia passata, la quale mostra che le crisi finanziarie sono tutt'altro che una curiosità, anche se quelle sistemiche sono rare. Samuleson ha osservato che la responsabilità dello sconquasso è ideologica e appartiene all'influenza della visione libertaria di Friedrich von Hayek e Milton Friedman. Ora, lasciando da parte von Hayek che è stato un gigante del pensiero del Novecento, occorre osservare che Samuleson e Friedman condividono la stessa teoria economica di base che è quella neoclassica old-fashion. Se Friedman, al contrario di Samuleson, era scettico sulla politica economica discrezionale e preferiva che gli interventi (soprattutto monetari) fossero soggetti a regole fisse, forse non aveva torto, visto che è opinione diffusa che sia stata proprio la politica eccessivamente accomodante della Fed una delle cause principali della crisi attuale.

    Poi c'è Mister Equivoco. Il quale asserisce che il mercato si è spinto troppo in là, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti, e che quindi un nuovo ordine è necessario. Un nuovo ordine nel quale il mercato sia limitato e imbrigliato e in cui per rimediare ai suoi fallimenti lo stato intervenga in forze fornendo il bene pubblico del coordinamento (e molti quattrini). Ora si dà il caso che Mister Equivoco menta. In ogni paese dell'occidente l'intervento pubblico nell'economia era nel 2000 molto più grande di quanto fosse nel 1950. Se si confronta il periodo dal dopoguerra a oggi con gli anni dal 1870 al 1940, si vede che il peso del settore pubblico nell'economia è più che raddoppiato, qualunque indicatore si usi per misurare tale peso. Nell'area dell'Euro le uscite pubbliche complessive (essenzialmente spesa) rappresentavano nel 2007 il 46,9 per cento del prodotto interno, negli Stati Uniti il 36,9. Le entrate pubbliche ammontavano al 45,4 per cento del pil europeo e al 34,1 di quello americano.

    A partire dalla metà degli anni novanta, in Europa (ma non in America) c'è stata una riduzione di questa presenza dello stato nell'economia. Ma è stata inferiore ai 4 punti di pil, se la misuriamo con il rapporto tra spesa e prodotto. Ed è stata insignificante se la misuriamo attraverso la pressione delle entrate pubbliche, che nell'area dell'Euro era del 45,4 per cento nel 2007 e del 46,8 nel 1999. Dunque? L'economia europea ha davvero bisogno di un aumento dell'intervento pubblico, di un'espansione del controllo dello stato sull'economia? O, come si era cominciato a capire persino tardivamente in Europa, del suo contrario? In Italia tra il 1993 e il 2007 le uscite pubbliche come percentuale del pil sono scese dal 56,4 al 48,8, che resta una quota ragguardevole, superiore alla media dell'area dell'Euro. Nello stesso tempo, il prelievo è rimasto relativamente stabile al di sopra del 45 per cento del pil.

    Anzi, se prendiamo la pressione fiscale vera e propria, si nota che era del 25,4 per cento del pil nel 1975, del 40,1 nel 1995 e del 43,3 nel 2007. Siamo sicuri che per ridare dinamismo all'economia italiana sia necessario che lo stato italiano si riappropri di questi (circa) otto punti percentuali di prodotto aumentando le tasse o il debito o entrambi? Ci aspettiamo che il ministro dell'economia Giulio Tremonti (i cui furori antimercatisti sembrano un po' placati) e il presidente del consiglio Silvio Berlusconi (i cui languori statalisti al contrario sembrano cresciuti) riflettano su questo equivoco. Non è che decidere sia semplice, vista la particolare complicazione italiana rappresentata dall'enorme debito pubblico. Ma a questo riguardo, per esempio, non sarebbe il caso di riprendere in considerazione la politica delle privatizzazioni, per alleggerire tale peso, anche in vista del presumibile conferimento del patrimonio statale agli enti locali (che hanno già in mano circa i 2/3 dei relativi cespiti)?

    E nel frattempo, sarebbe troppo chiedere di evitarci il grottesco di una comunicazione che sembra mettere insieme le “minacce” di nazionalizzazioni salvataggi e aiuti di stato per banche e manifatture con le “minacce” di privatizzare l'università la lirica e il cinema, proprio nel momento in cui, a nostro avviso correttamente, si cerca di spingere questi settori a fare i conti con il mercato e a mettere alla prova la propria competitività scegliendo la strada della maggiore autonomia come quella offerta dalle fondazioni private?