Vito Mancuso spiega perché il Papa doveva incontrare Bush, la Cassazione non giudicare Lozano e il Parlamento sospendere i processi

Vito Mancuso

Tre domande e una conclusione. La prima domanda: è giusto che il Papa riceva il presidente americano George Bush, principale responsabile di una guerra basata sulla menzogna delle armi?

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    Tre domande e una conclusione. La prima domanda: è giusto che il Papa riceva il presidente americano George Bush, principale responsabile di una guerra basata sulla menzogna delle armi di distruzione di massa, principale responsabile di chissà quante migliaia di morti, di famiglie distrutte, di corpi per sempre deformi e di menti per sempre impazzite, principale responsabile di una sistematica violazione della dignità della vita umana nei suoi fondamentali diritti giuridici nella base militare di Guantanamo? E' giusto che il Papa lo riceva con onori mai concessi prima a nessun altro capo di stato tra tutti quelli passati in Vaticano?

    La seconda domanda: è giusto che la Suprema corte del nostro paese stabilisca che per il soldato americano che uccise Nicola Calipari quella notte all'aeroporto di Baghdad non ci sarà mai nessun processo e che questo signore, a tutti noto per nome e cognome, possa continuare a vivere la sua vita come se nulla fosse stato?

    La terza domanda: è giusto che il nostro Parlamento abbia deciso una sospensione di migliaia di processi, col risultato che chi attende giustizia da anni la debba attendere per chissà quanti anni ancora, e l'abbia fatto magari solo perché tra questi processi ve n'è uno abbastanza insidioso a carico dell'attuale capo del governo Silvio Berlusconi?

    Si tratta di tre casi recenti nei quali io ho avvertito l'impero di ciò che i nostri padri greci chiamavano “ananche”, e i nostri padri latini “necessitas”, ovvero di quel ferreo meccanismo che pone l'individuo al cospetto di forze più grandi, e anche più importanti, di lui. La risposta alle tre domande infatti è, a mio avviso, un sofferto ma al contempo inequivocabile sì.

    Quanto alla prima domanda io penso sia giusto che il Papa abbia ricevuto il presidente Bush, capo dello stato più importante del mondo e di una delle nazioni cristianamente più numerose, e che l'abbia fatto restituendogli le onorificenze particolari a sua volta ricevute nel recente viaggio in America. Giovanni Paolo II non l'avrebbe fatto? In molte altre cose egli era diverso, a cominciare dal colore delle scarpe e dai copricapo, ma ogni Papa è e deve essere se stesso, ed è sbagliato giudicare il pontefice di oggi sui parametri del pontefice di ieri, anche perché lo ieri della storia della chiesa è così ampio da contenere centinaia di papi, tutti legittimi successori di Pietro e ognuno diverso dall'altro, al punto che George Bush (che fa fare la guerra agli altri) risulta un dilettante rispetto a Papa Giulio II che faceva la guerra in prima persona.

    Quanto alle altre due domande, essendo io sprovvisto degli strumenti giuridici per entrare nel merito dei provvedimenti, mi limito a riflettere sulla logica cui essi rimandano, anzi sulla forza che manifestano. Dietro la sentenza sul caso Calipari c'è la volontà della principale potenza mondiale di non far giudicare i suoi soldati in missione all'estero da nessuna istituzione giuridica non americana. Il diritto italiano ha dovuto prenderne atto, ancora una volta. Al di là delle motivazioni giuridiche che tecnicamente sono state esibite, è questo il nocciolo della questione. Di fronte a un'altra volontà politica tesa ad affermare un principio diverso (per esempio quello di un reale diritto internazionale con un reale tribunale internazionale), i giudici avrebbero trovato altre motivazioni, altrettanto giuridicamente fondate, per una sentenza diversa. Ciò che comanda nel mondo non è il diritto astrattamente inteso, ma è il diritto legato alla forza di chi detiene il potere.

    Grossomodo lo stesso spettacolo si è prodotto nel Parlamento del nostro paese. Io sono sicuro che se tra le migliaia di processi da sospendere non ci fosse stato uno degli ennesimi processi che riguarda il presidente Silvio Berlusconi quel provvedimento non sarebbe stato concepito giuridicamente e votato politicamente. Ne sono sicuro, anche se non ho nessun elemento sostanziale per affermarlo, nessun amico nei palazzi che contano che me l'abbia suggerito, solo l'intuito di un semplice cittadino. Eppure, se fossi stato un parlamentare del centrodestra, avrei votato quel provvedimento senza rimorsi di coscienza, ritenendo anzi di servire così il mio paese. L'avrei fatto a causa della medesima logica di una forza maggiore che vi si manifesta. Io ritengo infatti che ciò di cui l'Italia abbia ora maggiormente bisogno sia un governo. Il massimo bene dell'Italia ora è di essere governata, con tutta la serietà e l'efficacia possibile: sono troppo grandi e troppo urgenti i problemi per permetterci di rimanere senza governo, per permetterci il lusso di rischiare una condanna per il capo del governo democraticamente eletto e tutte le conseguenze del caso. “Ne va del futuro dei nostri figli” si sente ripetere spesso non senza retorica, ma queste parole penso che ormai siano avvertite dai più nella loro paurosa attualità non appena si pensi alle sfide internazionali, prima di tutto economiche, che incombono sull'Italia.

    Il Papa, la Cassazione, il Parlamento di fronte alla “ananche”, all'imperio della forza; anzi, non “di fronte” ma “dentro”, immersi nell'imperio della forza, plasmati dall'imperio della forza, unica condizione per plasmare faticosamente a loro volta, così come possono, il corso della storia e le nostre esistenze in esso. E' chiaro che il pericolo insito in questa posizione è di giungere al cinismo di chi non si scandalizza più di nulla e giustifica ogni cosa, la rassegnazione di chi non ama più la giustizia al di sopra di tutto, il servilismo e l'abiezione di chi ha venduto la sua anima ai poteri di questo mondo. Si tratta della tentazione che pende sopra il capo della destra: la tentazione di sacrificare la purezza della propria interiorità al successo e alla gloria del capo, con l'inevitabile conseguenza di richiedere a propria volta tale sacrificio da parte dei propri sottoposti, generando così un sistema falso e senza dignità, una società di servi e di mercenari, spettacolo cui talora purtroppo assistiamo. D'altro lato la tentazione che pende sopra il capo della sinistra, specularmente opposta, è quella di scandalizzarsi sempre di tutto, di fare dello scandalo la categoria che segna il rapporto tra se stesso e il mondo, un singolo perennemente in rivolta, sempre infelice, che sa solo dire no, che sacrifica il bene comune a se stesso e ai suoi risentimenti più o meno ideologici, che per un senso astratto di giustizia manderebbe in rovina l'intero sistema, un singolo che non ha idea di che cosa siano, e di quanto siano necessari, l'ordine e la gerarchia.

    Io penso che l'uomo spiritualmente (e politicamente) maturo debba far convivere in sé la destra e la sinistra, che ancora prima di essere categorie politiche sono categorie filosofico-teologiche (Platone e Kant sono la sinistra, Aristotele e Hegel la destra; un'affermazione buttata lì, che richiederebbe un libro per essere fondata, ma che è generata in me da anni di frequentazione di questi sommi maestri del pensiero, e della vita). L'uomo maturo continua a lottare contro le ingiustizie del mondo chiamandole col proprio nome, sa chi è Bush e come gestisce il potere e immagina come Berlusconi sia giunto alla ricchezza che l'ha portato al potere: gli imperatori e i monarchi di oggi non sono diversi da quelli di ieri. Sa com'è fatto il sistema del diritto, sa che è spesso molto lontano dal risultare effettivamente “diritto”: i giudici di oggi non sono diversi da quelli di ieri. Sa anche cos'è la chiesa, ne conosce i compromessi e gli scandali, sia del passato sia del presente, ne tocca con mano il servilismo e l'ipocrisia: i papi e i cardinali di oggi non sono diversi da quelli di ieri. Da tutto ciò, però, non si ritrae sdegnoso. Non odia il mondo, non desidera che il mondo scompaia all'insegna del “fiat iustitia et pereat mundus”, come invece vuole chi coltiva quel senso astratto di giustizia che genera un perenne conflitto, e talora odio, verso questo mondo. La giustizia, per essere veramente tale e non solo legalità, è sempre funzionale a un più alto grado di ordine del mondo: “fiat iustitia ne pereat mundus”.

    Si tratta di amare il mondo, di amarlo così com'è, e per questo mondo di lavorare, cercando di immettervi un grado sempre maggiore di ordine nella lotta incessante contro l'entropia (anzitutto a partire da sé). Si tratta di essere fedeli a “questo” mondo, non a un mondo ideale che non c'è, a questo mondo che si chiama anche George Bush, e che domani, quando magari si chiamerà Barack Obama, non sarà mai “qualitativamente” diverso. Sarà probabilmente un po' migliore, non però per merito del nuovo imperatore, ma per la logica dell'evoluzione in cui siamo immersi, la quale tende necessariamente all'accumulo dell'informazione e al progredire dell'organizzazione, un cammino verso il meglio che domina sia il mondo naturale (evoluzione delle specie) sia il mondo storico (progresso della civiltà, da intendere come tecnico, giuridico, politico e morale), e che fa sì che, non senza momenti di stagnazione e anche di regresso, complessivamente si proceda verso il meglio. Il Papa, la Cassazione, il Parlamento immersi nella “ananche”, nell'imperio della forza, in ciò che io chiamo “Principio ordinatore”. E' esso alla guida del mondo. Alla guida del mondo non vi è né un Dio personale con la sua Provvidenza benevola (la quale esiste e agisce ma in un'altra dimensione dell'essere, quella dello spirito), né vi è un principio maligno che farebbe di questo mondo il suo regno, un regno del male e della sopraffazione, per noi solo “valle di lacrime”.

    Questo nostro mondo non è né il regno di Dio, né il regno di Satana e neppure è solo una valle di lacrime: è il regno della “ananche”, di un Principio ordinatore impersonale, a cui tutti, uomini e bestie, siamo sottomessi. Ma da questa necessità, a causa della logica evolutiva che l'innerva, nasce la libertà, dalla materia nasce lo spirito, dalla logica della forza nasce la logica del bene e della giustizia. Non si tratta di una nascita indolore. Spesso la logica del bene soccombe di fronte alla logica della forza, talora si assiste anche al beffardo apparire dell'assurdo e della fatalità, e può accadere che si perda la vita una notte a Baghdad uccisi dal fuoco “amico”. Chi ospita questa dialettica nel teatro della propria anima, senza mitizzazioni ottimiste o pessimiste, giunge alla posizione più matura nel rapporto tra l'uomo e il mondo, quella che io definisco “ottimismo tragico”, peculiare di chi si impegna a favore del bene e della giustizia sapendo non solo che il successo non gli sarà garantito, ma che forse dovrà pagare di persona. E' grazie al lavoro di persone così che il nostro mondo va avanti, faticosamente ma avanti.

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