Dopo l'annuncio atomico del ministro Scajola

Il governo non può mettere la prima pietra del nucleare in cinque anni, ma può fare molto altro

Carlo Stagnaro

L'Italia torna al nucleare? Presto per dirlo, difficile a farsi. L'atomo soddisfa un terzo della domanda di energia elettrica in Europa. Anche l'Italia se ne avvantaggia: poiché importiamo circa il 15 per cento dei nostri consumi da centrali nucleari poste all'estero.

    L'Italia torna al nucleare? Presto per dirlo, difficile a farsi. L'atomo soddisfa un terzo della domanda di energia elettrica in Europa. Anche l'Italia se ne avvantaggia: poiché importiamo circa il 15 per cento dei nostri consumi da centrali nucleari poste all'estero. Sebbene questo non sia sufficiente a spiegare la differenza tra i costi (e prezzi) medi italiani e quelli europei, senza dubbio lo sbilanciamento del nostro mix di generazione è una parte della risposta. La promessa del ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, dunque, solletica più di una speranza e più di un interesse. Ed è significativa tanto la prontezza dell'industria elettrica nazionale nel manifestare la propria disponibilità a giocare su questo tavolo, quanto la reazione tutto sommato blanda del Partito democratico.

    E' ovvio che il ritorno al nucleare costituisce un'opportunità di modernizzazione per il nostro paese. L'esperienza degli altri paesi del resto conferma che i rischi per la sicurezza sono minimi. Lo conferma, forse inaspettatamente e certo involontariamente, un dossier compilato da Legambiente in occasione del ventesimo anniversario di Chernobyl. Se si escludono la tragedia della centrale ucraina (che fu, soprattutto, un fallimento delle regole e delle tecniche sovietiche) e i vari incidenti connessi all'uso del nucleare a scopi militari, la lista si accorcia e si riduce perlopiù a incidenti di poca portata, che hanno causato tanta paura ma pochissime vittime (in sessant'anni di attività, stando a questo raporto, si contano sulle dita delle mani). Più significativi sono i problemi di natura economico-finanziaria: il costo del chilowattora (kWh) nucleare sono in linea con quelli delle altre tecnologie e, agli attuali prezzi del petrolio (e del gas), fortemente competitivi. Se anche il barile si riducesse - come è probabile - l'atomo resterebbe una fonte molto appropriata per coprire la domanda di base. La grande differenza sta nel fatto che la maggior parte dei costi del nucleare (circa l'80 per cento) stanno nell'impianto, e quindi sono "sunk". Cioè, una volta affrontati non possono più essere ricuperati, nemmeno in parte. Una centrale nucleare di grandi dimensioni (1,6 gigawatt) può costare 4-5 miliardi di euro, che possono scendere solo se si riescono a creare economie di scala (cioé a realizzare più centrali con un medesimo ordinativo). L'ordine di grandezza resta, tuttavia, dell'ordine dei miliardi di euro. Una cifra enorme, e difficile da reperire in tempi di credit crunch.

    Come se ne esce? L'unica cosa che può fare il governo è ridurre il rischio paese. Se il mercato percepisce l'Italia come una nazione irrispettosa nei confronti degli investimenti – ed è così – chiede ritorni più alti, per controbilanciare il rischio. L'Italia, per giunta, non dispone neppure di una regolamentazione adeguata: l'avventura del nucleare italiano si è svolta interamente ai tempi del monopolio pubblico. Oggi abbiamo invece un mercato sostanzialmente liberalizzato. Il governo non deve (e non può) promettere che entro cinque anni verrà posta la prima pietra, perché non sta a lui compiere questo gesto. Ciò che l'esecutivo può fare è, in tempi brevissimi, creare una cornice di regole certa e semplice (per cui serve anche una qualche collaborazione con l'opposizione: le cifre in ballo sono talmente alte che non é ammissibile un voltafaccia alla prossima legislatura). Se il Cav. e i suoi sapranno conseguire tale risultato, il mercato lo vedrà. E provvederà di conseguenza.