Juno siamo noi

Mariarosa Mancuso

A volte le cose sono così evidenti che bisogna ripeterle. Il 2007, per il cinema americano, è stato l'anno delle donne con il pancione. Potevano essere cameriere con un marito manesco e un talento per la pasticceria (in “Waitress” di Adrienne Shelly). Potevano essere giornaliste appena promosse in video (in “Molto incinta” di Judd Apatow). Nessuna considerava l'aborto una soluzione. Se non per un attimo, magari su suggerimento di una sorella – “ora te ne liberi e pensi alla carriera, tra qualche anno farai un figlio vero” – subito respinto. Tra i film che nel 2007 raccontavano allegre gravidanze, “Juno” è il più sfacciato: ha per protagonista una sedicenne, rimasta incinta al primo colpo di un compagno di scuola (la bocca di lui sapeva di caramelline all'arancia, c'era una poltrona nei dintorni; insomma, faccende che capitano). Prevede una tappa da “Hasty Abortion”, che proprio non possiamo chiamare consultorio, vista la ristrettezza dell'offerta e la garanzia di rapidità. Poi una fuga precipitosa, colpa dell'odore di dentista, e della soffiata: “Ha già le unghie!”. Juno porta a spasso il suo pancione, comportandosi per il resto come le ragazze alla sua età: rimbecca gli adulti, li prende e si prende in giro, cerca un cavaliere per il ballo della scuola.

    A volte le cose sono così evidenti che bisogna ripeterle. Il 2007, per il cinema americano, è stato l'anno delle donne con il pancione. Potevano essere cameriere con un marito manesco e un talento per la pasticceria (in “Waitress” di Adrienne Shelly). Potevano essere giornaliste appena promosse in video (in “Molto incinta” di Judd Apatow). Nessuna considerava l'aborto una soluzione. Se non per un attimo, magari su suggerimento di una sorella – “ora te ne liberi e pensi alla carriera, tra qualche anno farai un figlio vero” – subito respinto. Tra i film che nel 2007 raccontavano allegre gravidanze, “Juno” è il più sfacciato: ha per protagonista una sedicenne, rimasta incinta al primo colpo di un compagno di scuola (la bocca di lui sapeva di caramelline all'arancia, c'era una poltrona nei dintorni; insomma, faccende che capitano). Prevede una tappa da “Hasty Abortion”, che proprio non possiamo chiamare consultorio, vista la ristrettezza dell'offerta e la garanzia di rapidità. Poi una fuga precipitosa, colpa dell'odore di dentista, e della soffiata: “Ha già le unghie!”. Juno porta a spasso il suo pancione, comportandosi per il resto come le ragazze alla sua età: rimbecca gli adulti, li prende e si prende in giro, cerca un cavaliere per il ballo della scuola.
    Guai però a dire, avverte Natalia Aspesi con il ditino alzato – perché è più forte di lei, e perché negare l'evidenza richiede un sovrappiù di fatica – che questo sia un film contro l'aborto. Guai a dire che sono contro l'aborto anche gli altri due. Presi tutti insieme esauriscono – o quasi – le motivazioni che seguono la premessa “l'aborto è un dramma” (tanto ripetuta che ormai rischia di suonar vuota): carriera da avviare, giovane età, compagno bamboccione, matrimonio in sfacelo, “una botta e via” senza uso di gommino.
    Guai a dirlo. Giù le mani. Qui vigono i due pesi e le due misure, mica sarete tanto imbecilli da credere alle pari opportunità? Esempio. Da mesi sentiamo ripetere che “Il petroliere” di Paul Thomas Anderson denuncia l'avidità degli Stati Uniti (legati a doppio filo come il lupo e il vizio) e pure il loro fervore religioso, incline al fanatismo. Ma guai a dire, semplicemente: tre film con tre ragazze che non abortiscono – tutte e tre giovani, belle, e neanche particolarmente devote – segnalano che qualcosa è cambiato. (Per esempio, che quando una ragazza, in un film o fuori, annuncia “sono incinta”, la risposta automatica non è “lo tieni?”. Bensì: “Che bello!”).
    Da mesi sentiamo osannare George Clooney per aver messo a nudo, in “Michael Clayton” il cuore marcio delle multinazionali. Ma quando un regista inquadra una pancia di sei mesi sotto una maglietta a righe, vietato far notare che l'unica ragazzina protagonista al cinema da molti anni a questa parte – paragonabile per impatto al giovane Holden che plasmò le generazioni ormai nonne – è incinta e contenta di esserlo.
    Da mesi professionisti e dilettanti sforzano le cellule grigie per dar conto del serial killer Chigurth in “Non è un paese per vecchi” dei fratelli Coen (purtroppo rimasto orfano dello sceriffo Bell che avrebbe risolto l'arduo problema, sul taglio e piega abbiamo esaurito le battute). Guai però a dire come stanno le cose in un film che non abbisogna di spiegazioni: una ragazzina fa un figlio a sedici anni, senza morire d'invidia per le compagne di scuola che ancora possono permettersi la vita bassa. Per giunta, senza mostrare un briciolo di istinto materno, tanto che si affretta a cercare una coppia per crescere il pargolo. A proposito, ecco l'ultima su Chigurth, così come l'abbiamo appena letta su Ciak: “Il serial killer psicopatico è la rappresentazione più fedele dell'orrore indicibile dell'aereo che sbuca dal nulla e si infila nelle due torri come una palla di fuoco”.
    A nessuno è venuto in mente che se in un anno escono tre film da moratoria sull'aborto, e se i suddetti film guadagnano montagne di dollari, forse qualcosa è cambiato. Forse il lutto dell'11 settembre è stato elaborato, producendo un atteggiamento più speranzoso di quello che i commentatori stranieri rimproverano all'Italia (il tutto accadeva prima che cominciassero le primarie: gli slogan elettorali americani funzionano perché intercettano qualcosa di sensato). E nessuno, per favore, ripeta le sciocchezze sullo strapotere del cinema americano, o del suo marketing: due film su tre sono produzioni indipendenti a bassissimo costo; il terzo lo firma un comico finora noto soltanto per gli incassi, e le gag su un quarantenne che non riesce a disfarsi della verginità.
    Prima dei magnifici tre (tutti grondanti amore e buonumore, nel caso non l'avessimo già detto) ricordiamo due soli altri titoli che parlavano di aborto. “Citizen Ruth” di Alexander Payne (il regista del vinicolo “Sideways”) e “Palindromes” di Todd Solondz, regista di “Fuga dalla scuola media”. “Citizen Ruth” – come “Citizen Kane”, titolo originale di “Quarto potere”, in Italia “La storia di Ruth, “donna americana” – raccontava di una ragazza senza fissa dimora, sniffatrice di colla, rimasta incinta non sappiamo come, accolta prima da un gruppo prolife, poi rapita da un collettivo prochoice. I primi la vestono con cardigan rosa e volant, gli altri le mettono addosso una maglietta di Frida Kahlo. “Palindromes” racconta di Aviva, una ragazzina che scappa di casa perché i genitori la costringono ad abortire, anche se lei il bambino lo vorrebbe. Via via, altri attori prendono il testimone (come accade nella biografia dylaniana “Io non sono qui”). Il fatto che entrambi i film non fossero riassumibili con lo slogan: “L'aborto è un diritto” li ha resi sospetti (“Citizen Ruth” è uscito solo in videocassetta, Palindromes solo al Festival di Venezia). Quando Todd Solondz sarà a Roma, il prossimo 11 marzo, varrebbe la pena di fargli due domande sull'argomento. Se non altro, per pari opportunità con i registi continuamente interpellati sui danni prodotti da Bush.
    “Onora il padre e la madre” di Sidney Lumet produce fervorini contro l'America che ha smarrito i valori e pensa solo ai soldi. Quando arriva un film con i valori – e con teenager che hanno come unica droga le pastiglie di tic tac e non possiedono cellulare, semmai un telefono-hamburger con il filo – guai a farlo notare: “Lo si immiserisce, lo si stravolge, lo si avvilisce” denuncia Natalia Aspesi.
    Nessuno più di noi detesta il cinema-col-messaggio. Ma da lì alla cecità ce ne corre. “Sweeney Todd” racconta di un barbiere che per vendetta sgozza i clienti. “Juno” racconta una sedicenne che fa un figlio senza pensare “oddio, mi sto rovinando la vita” (“Incinta? E allora?” sta scritto sul manifesto# francese). Grazie alla meravigliosa scrittura di Diablo Cody, non troviamo metafore, o sottotesti da decifrare. Juno siamo noi perché abbiamo l'impressione di conoscerla da sempre, e l'adoriamo anche se sono passati solo cinque minuti di film. Juno siamo noi perché il film è una favola, con tanto di morale della favola, tanto semplice che chiunque la capisce. “I'm a Cautionary Whale”, annuncia la sedicenne, quando ormai il fagiolino che ha nella pancia è cresciuto parecchio, e gli amici si scansano per farla passare. Il gioco è tra “Cautionary Tale”, che significa “favola con insegnamento morale e “whale” che significa “balena”. (Sì, abbiamo detto “insegnamento morale”: non ne possiamo più di sentire, nei giorni dispari, l'elogio del “fai come ti pare” e nei giorni pari il lamento “sta gioventù, signora mia, non crede più a niente”. Urge una decisione).
    Juno siamo noi. Tutti quelli che, come la simpatica sedicenne, non sopportano la frase “sessualmente attiva” pronunciata dall'addetta al consultorio mentre chiede di riempire il questionario di accettazione, senza saltare i dettagli scomodi (“fare l'amore” non rende meglio l'idea?). La ragazza è una mina vagante di intelligenza e buon senso: “Odio gli adulti che dicono ‘sessualmente attiva'. Significa che un giorno mi disattiverò, oppure devo considerarlo uno stato permanente? Bleek era sesso-attivo quando lo abbiamo fatto? Ora capisco perché aveva quella faccia”. Poiché la sceneggiatrice Diablo Cody non sbaglia un colpo, e non lascia nel suo ricamo fili pendenti, il “sessualmente attiva” tornerà più volte. Come tornerà la questione delle unghie: la matrigna di Juno (la mamma vera manda un cactus per le ricorrenze, ribattezzato “cactogramma”) lavora come “nail technician” in un salone di bellezza. Se ne serve per rimettere al suo posto la technician dell'ecografia, pronta a descrivere le minorenni come madri snaturate. Juno siamo noi, che mal sopportiamo il modo di parlare che (ultimo esempio pervenuto) affligge “Vogliamo anche le rose” di Alina Marazzi. La regista deplora nelle interviste “il retaggio maschilista”, i diari garantiti genuini sono una frase fatta via l'altra, in femministese.
    Juno siamo noi, e le ragazzine che postano su You Tube canzoncine autoprodotte per incitare “Dai che ce la fai!”. Oppure mettono il loro profilo su Junoversal, una specie di Face Book per chi ha amato “Juno” (gli incassi intanto hanno toccato i 175 milioni di dollari, tutta Hollywood cerca di copiare la formula, peraltro vecchia come il cucco: una bella storia, scritta bene e recitata meglio, da una giovane attrice che incanta). Juno siamo noi, e anche un po' Lisa Schwartzbaum, critico di Entertainment Weekly che dopo aver molto lodato “Juno” aggiunge un poscritto: “Da femminista della vecchia scuola, avrei preferito che il film spendesse qualche parola, bastava una battutina, per ricordare che Juno dà per scontate le faticose conquiste della generazione precedente”. Poi ci ripensa, e aggiunge un poscritto al poscritto: “Contrordine: Juno, il suo fidanzatino, la loro generazione sono tanto deliziosi che mi sta bene così. Da tipi come loro sono disposta perfino a farmi dire ‘zitta, vecchiaccia!'”. Proprio la stessa frase – nell'originale: “Silencio, old man!” – che Juno rivolge al droghiere che le ha venduto il quarto test di gravidanza. Probabilmente, anche il bidone di succo d'arancia che manda giù per poterli usare tutti e quattro prima dei titoli di testa.