Stranieri in terra straniera, un po' come i cronisti romani che raccontano Milano

Costantino della Gherardesca

L’incontro con Sergei Bodrov di “Lucky, re del deserto”

Sarà stato il 1996 o giù di lì. Mi trovavo a Londra, in una festa a casa di non ricordo chi. All’epoca ero ancora giovane in una maniera commovente e, come tutti i giovani che si rispettano, mi stavo rompendo le palle. Mi guardavo attorno sconsolato, nella speranza di intercettare lo sguardo di qualche freak mio simile, ma niente. Continuai a vagare tra gli invitati come un’anima in pena, fino a quando i miei occhi si posarono su un uomo sulla quarantina, dagli occhietti piccoli piccoli e l’aria spaesata, seduto per terra al fianco di una donna dai tratti radicalmente asiatici. Era chiaro: avevo trovato degli spiriti affini.

 

Mi presentai e l’uomo mi rispose con un pesante accento esteuropeo: “Sergei Bodrov”. Con discrezione gli indicai la donna che era ancora lì, a gambe incrociate sul pavimento. “Oh, lei è la mia compagna”, mi disse Sergei. Feci per salutarla, ma niente. “Non può capirti”, mi interruppe lui. “E’ mongola, non parla in inglese”.

 

Sergei, come tutte le persone annoiate, cominciò a parlare di sé mentre io, come tutte le persone annoiate, annuivo a qualsiasi cosa dicesse. Era un regista russo, con un quarto di sangue buriato e qualche bel film alle spalle. La sua produzione era quanto di meno sovietico si potesse immaginare: niente drammoni da socialismo reale zeppi di trionfali eroismi operai, ma thriller, noir, storie di giocatori d’azzardo e amori impossibili. In poche parole, un americano nato per puro caso a Chabarovsk anziché a Burbank. Confesso che la conversazione stava cominciando ad annoiarmi, al punto che mi sarei volentieri unito alla compagna di Sergei, ancora immersa cosce a terra nel suo radioso mutismo. Fino a quando non prese a parlare del suo prossimo progetto, scritto e prodotto da Jean-Jacques Annaud, all’epoca reduce da successi internazionali come Il nome della rosa, L’amante e 7 anni in Tibet. Il film aveva una premessa talmente weird che non poteva non conquistare il mio cuore: la storia dell’Africa colonialista dei primi del Novecento, raccontata dal punto di vista di Lucky, un innocente puledro nato a bordo di una nave mercantile da una splendida giumenta araba, destinato a lavorare come bestia da soma nelle miniere di rame di Swakopmund, centro dell’Africa tedesca del sud-ovest, l’odierna Namibia. Sì, avete letto bene: la storia dell’Africa raccontata da un cavallo, una cosa talmente folle che anche la mia giovane ed eccitabile mente faticava a starci dietro.

 

Ma proprio mentre una scossa di brutale realismo stava per riportarmi sul pianeta Terra, permettendomi di comprendere che l’idea di un cavallo esperto di postcolonial studies fosse una cazzata immane, il racconto di Sergei fu interrotto da John Malkovich che, annoiato anche lui dalla festa, svolazzò vicino a noi come una falena davanti a una lampada. L’attore era con tutta evidenza un ammiratore di Bodrov e, dopo aver porto i suoi omaggi al Maestro, lo lasciò proseguire nel suo racconto equino-storiografico. Sarà che all’epoca Malkovich era davvero un bell’uomo, sarà che anche io davanti a una superstar hollywoodiana mi sciolgo come l’ultima delle nail-artist (ma solo per le superstar di allora, non per gli attuali bambocci alla Bradley Cooper), fatto sta che le deboli difese anti stronzata che la mia giovane mente aveva per un attimo tentato di erigere, crollarono di colpo. Il volto rapito di Malkovich davanti al racconto di Bodrov era una garanzia di qualità: ormai ne ero certo, quel film sarebbe stato un capolavoro.

 

Due anni dopo, arrivò il verdetto. Quello che nella mia mente doveva essere un inno alla follia si rivelò essere uno dei più smielati film pseudo disneyani della storia: Running free (in italiano, Lucky, re del deserto). Tutto era incentrato sul rapporto tra questo cavallo e il suo (immancabile) amichetto umano, il dodicenne Richard, entrambi stranieri in terra straniera, prigionieri di un destino che li mette continuamente alla prova, ma la loro amicizia sarà più forte di ogni difficoltà eccetera eccetera... Insomma, l’imperioso affresco postcoloniale di cui mi aveva parlato Sergei si era trasformato in un accrocchio di interminabili sequenze di galoppo tra le dune.

 

Eppure, nell’irriducibile ingenuità di quel che resta della mia gioventù, voglio conservare il sogno di quel puledro europeo che, sbarcato a frustate nella Namibia del 1914, sviluppa abilità cognitive degne di un Edward Said. La stessa irriducibile ingenuità che mi permette, ancora oggi, di leggere in piena estasi i resoconti milanesi firmati dai giornalisti romani in trasferta. Questi ineffabili cronisti, dei dolcissimi Lucky a due zampe, sono gli osservatori privilegiati di una città immaginaria, fatta di ambizione e cocaina, di aperitivi e borghesia. Sono gli ultimi cantori di una città che non è mai realmente esistita, quella dei cumènda, della forchètta e dei panettoni tutto l’anno: la Milano vista da Roma.

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