Interpretando Hedda Gabler, foto Felipecotero via Wikimedia

L'Italia malata di moralismo si è spenta. Abbiamo bisogno di un'illuminazione

Costantino della Gherardesca

Anche la sinistra si è fatta contagiare

Ormai noi italiani abbiamo il senso dell’umorismo dei norvegesi che, come noi, non hanno imparato nulla dal loro padre spirituale Henrik Ibsen e dalle sue opere. In Casa di bambola, la bella Nora molla il marito oppressa dalla sua squallida ipocrisia, mentre in Hedda Gabler la protagonista, ossessionata dal successo come una Bovary turbo-capitalista, chiude la sua corsa all’affermazione personale con un bel suicidio perché sopraffatta dai sensi di colpa e dalla complessa rete di menzogne che ha tessuto. Come dimostrano le pièce di Ibsen, il moralismo non conosce lieto fine, ma all’Italia sembra non importare.

 

Poco tempo fa, ho incrociato una persona che non vedevo da anni. Ci eravamo conosciuti nel 2012, durante la prima stagione di “Pechino Express”. Sulle prime ha fatto fatica a riconoscermi. “Costantino, che ti è successo?” mi ha chiesto con malcelata preoccupazione. “Ti vedo giù… tutto bene?”

“Be’, sono molto dimagrito…”

“No” ha tagliato corto il mio amico. “Non è il fisico, è qualcosa negli occhi... Sette anni fa eri sempre allegro... Ora sembri… spento.”

 

Spento. Quella parola mi ha colpito e affondato, ma al tempo stesso ha risvegliato in me il ricordo di quello che ero. Per un attimo, ho sentito l’irrefrenabile bisogno di risvegliarmi. Allora ho confessato: “Hai ragione. Sono spento. L’Italia mi sta ammazzando. Si parla del progresso come di una cosa negativa, non si fa nulla per uscire dalla povertà, la chiusura mentale ora si chiama “identità culturale” e chiunque sia competente in qualcosa è messo a tacere… A furia di prendere mazzate su quello che si può e non si può dire, mi hanno ucciso spiritualmente. Sono anche io come Nora in Casa di bambola, ma non ho ancora il coraggio né i soldi necessari a lasciare mio marito: l’Italia”.

 

Gente come Ibsen conosceva ed evitava il moralismo e le sue trappole, ma come possiamo anche noi tener testa a questa opprimente ondata di bacchettatori compulsivi? Le ritmiche ondate di indignazione via social ormai hanno reso il moralismo più contorto e pervasivo che mai. Qualsiasi posizione, anche la più reazionaria e insensata, può essere presentata come ragionevole e “vicina alle esigenze della gente comune”, perché il moralismo non è più prerogativa della destra, ma è entrato anche nel Dna della sinistra, tra gli intellettuali come tra gli analfabeti (funzionali e non). La cappa moralista è scesa sul paese e l’Italia si è spenta: abbiamo urgentemente bisogno di una nuova illuminazione. Ma dove trovarla?

 

In più punti, leggendo la splendida biografia di Tennessee Williams scritta da John Lahr, mi sono commosso. Lui e suoi colleghi conducevano vite dispendiose, sregolate e capricciose. Scrivevano libri, drammi teatrali e sceneggiature cinematografiche di grande successo, ma si ritrovavano sempre senza un dollaro. Avanzavano con i loro agenti e produttori delle richieste folli che venivano puntualmente soddisfatte (“A Boston non riesci a scrivere? Ti spedisco in albergo ad Acapulco!”), erano perennemente sbronzi (“Devi affrontare due ore di treno? Meglio scolarsi una bottiglia di whiskey!”) eppure incredibilmente lucidi. Quella schiera di intellettuali americani, cresciuta durante la Seconda guerra mondiale ma fiorita solo dopo la fine del conflitto, non ne poteva più di sentir gridare “God bless America”. Alcuni di loro la guerra l’avevano vissuta di persona e avevano solo voglia di dimenticarla e saldare i conti con chi l’aveva voluta, esaltata, venerata. Quella gente combatteva contro i moralisti, perché aveva il terrore che i bacchettoni guerrafondai avrebbero avuto la meglio se li avessero lasciati fare: con quelle facce slavate e rassicuranti avrebbero conquistato l’opinione pubblica, l’avrebbero spinta a vedere pericoli inesistenti, a seguire nemici invisibili. E così fu: nei primi anni Cinquanta, infatti, Hollywood venne travolta dalla caccia alle streghe e la “Minaccia rossa” ubriaca una nazione che iniziò a vedere comunisti dappertutto.

 

Sembrerà impossibile, ma la situazione è peggiorata. Se allora gli intellettuali erano gli anticorpi che isolavano e neutralizzavano il moralismo, oggi non è più così. Se Williams e i suoi amici scrittori consideravano i moralisti il male assoluto (un problema con cui convivere, attaccandolo e aggirandolo), in questa fase storica l’intellettuale è intimamente moralista, rincorre il moralismo come obiettivo, perché il moralismo è potere, e da questo potere l’intellettuale si sente protetto e rappresentato.

 

Gli intellettuali contemporanei hanno tra i moralisti i loro principali sostenitori e se ne fregano completamente se il filosofo e scrittore Alain Badiou ricorda loro che tra potere e creatività non dovrebbero esserci legami, perché il potere è violento e può solo distruggere la creatività e la sua logica interna.

E’ morta la poesia o è il moralismo che si è fatto più furbo? Forse sono accadute entrambe le cose, ma preferisco pensare che sia vera solo la seconda ipotesi.

 

Certo, di poesia ci sono poche tracce in giro, quindi ci tocca cominciare ad apprezzare cose che anni fa non avremmo mai sfiorato: l’illuminazione potrebbe nascondersi nei personaggi e nei posti meno plausibili. Milano, per esempio, è invivibile: non è più la capitale morale, ma la Kristiania di Hedda Gabler. Meglio andare a vivere con i mafiosi russi a Gioia Tauro.

 

Non si possono nemmeno più criticare delle plateali baracconate come il Family Day, perché c’è sempre il rischio di offendere la sensibilità di qualcuno: anche l’obiezione più innocua viene amplificata, estrapolata dal suo contesto e, di conseguenza, resa perseguibile. E così, oltre alla poesia, muore l’arte di prendere per il culo, perché per entrare in quella ristrettissima cerchia di persone autorizzate a far battutine innocenti devi essere a tua volta un moralista. E se anche uno facesse della comicità spietata, servirebbe a ben poco: al pubblico mancherebbero gli strumenti di decodifica.

 

Viviamo in un clima opprimente, siamo il peggior incubo di Ibsen: una Scandinavia dell’Ottocento, senza soldi né infrastrutture. Siamo una distopia populista: non abbiamo una lira, ma non facciamo altro che parlare di migranti. Vorremmo essere intolleranti, ma riusciamo solo a essere intollerabili.

Non ci rendiamo conto che, in questa situazione di buio, l’arrivo di altre culture (una cultura qualsiasi: purché ancora ambiziosa, spumeggiante, viva) rappresenta l’unica via per una nuova illuminazione. Per questo sono favorevole all’immigrazione: non solo per motivi umanitari, ma per salvare la cultura del nostro paese.

Non siete stanchi di questa esaltazione della bruttezza e della continenza? A che cosa ha portato il culto della povertà che ci sbattono in faccia ogni volta che qualcuno si taglia lo stipendio?

Se anche voi, come me, vi sentite spenti, provate a cercare una nuova illuminazione nella Religione del Lusso. Vi avviso, è l’ultima occasione. Altri due anni così e chiunque abbia gli occhi aperti farà la fine di Hedda Gabler.

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